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Jonathan Demme torna al grande cinema con il remake dell'omonima pellicola di Frankenheimer del '62 (in Italia con il titolo di "Va' e uccidi") con Frank Sinatra come protagonista. Si tratta di un thriller di buona fattura, senza sbavature malgrado il temibile incontro fra elementi fantascientifici e la cruda realtà della narrazione di una campagna elettorale-tipo americana. La regia si sofferma appena sui ricordi che affiorano dagli incubi dei soldati, senza compiacimenti. Il racconto di quei terribili giorni emerge soprattutto dai volti scavati dei suoi protagonisti, dalle mani che tremano al ricordo, dal dolore e dallo smarrimento di non riuscire a capire cosa sia successo o cosa stia accadendo.
Denzel Washington, icona del cinema impegnato nero, interpreta bene il ruolo del soldato che cerca di capire la verità, salvo qualche piccola sbavatura, qualche smorfia e ammiccamento di troppo per un attore del suo calibro (un po' quello che fa sempre il nostro Stefano Accorsi, inchiodato nelle sue faccette fra il meravigliato e l'ebete).
Una nota di merito va alla sublime interpretazione di Meryl Streep che si libera finalmente dai suoi ruoli dolci e strappalacrime per presentarci un modello di donna e madre assai poco rassicurante. Donna in carriera determinatissima, priva di scrupoli, non esita a mettere in atto nessuna azione pur di controllare il figlio e indurlo a seguire le sue personali ambizioni. A Venezia, dove il film è stato presentato fuori concorso, l'attrice ha dichiarato che per il suo personaggio non si è ispirata a Hilary Clinton o a Margaret Thatcher, come più di qualcuno aveva sospettato, ma piuttosto a politici di sesso maschile, di cui condivide la sfrenata ambizione e il pelo sullo stomaco.
"The Manchurian Candidate" è un film che concentra in sé due straniazioni: quella onirica degli incubi che perseguitano i protagonisti e quella reale e vivissima, inquietante, dei giochi di potere e della politica. Gli incubi sono anch'essi destinati a trasformarsi in qualcosa di assolutamente reale, perciò è lo stesso spettacolo cui si assiste che si delinea come realtà.
Non si può uscire dalla sala pensando di aver visto soltanto un film. La grandezza di Demme sta nel raccontarci una storia che, essendo priva dell'ideologia smaccata di un Moore, ha tutti i requisiti per essere vissuta come una vicenda reale. Ciò che aveva reso poco credibile Fahrenheit 9/11 era il riportare a una sola fazione politica tutti i mali del mondo, dimenticando per esempio che gli interessi sul petrolio sono molto trasversali negli Stati Uniti, oppure che lo stesso Kerry aveva a suo tempo votato a favore della guerra in Iraq (il fatto che si sia giustificato dicendo che lui aveva creduto al pericolo della armi di distruzione di massa non cambia di molto le sue responsabilità).
Demme ha messo da parte gli schieramenti politici e ci racconta qualcosa che sentiamo tutti nell'aria: la possibilità che una grande azienda diventi più potente di una nazione e che questo suo potere arrivi al punto di stabilire la politica di uno stato. A questo proposito, è esemplare nel film uno scambio di battute fra dirigenti della Manchurian dove si sostiene che il loro giro d'affari è superiore a quello dell'Unione Europea!
La parte fantascientifica del film, quella che narra di lavaggio del cervello e di sonde impiantate per condizionare il comportamento delle persone, non rassicura sulla poca credibilità della vicenda narrata: siamo consapevoli sia dei grandi passi in avanti compiuti dalla scienza sia della capacità del denaro di controllare le persone senza tanto bisogno di microchip e impianti cerebrali. Non stiamo forse già pagando da decenni il costo che le multinazionali del petrolio ci impongono in termini economici, di guerre e di limitazioni alla libertà?
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Recensione a cura di Susanna! - aggiornata al 03/12/2004
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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