la casa di jack regia di Lars Von Trier Danimarca, Francia, Germania, Svezia 2018
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la casa di jack (2018)

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locandina del film LA CASA DI JACK

Titolo Originale: THE HOUSE THAT JACK BUILT

RegiaLars Von Trier

InterpretiMatt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbø

Durata: h 2.32
NazionalitàDanimarca, Francia, Germania, Svezia 2018
Generedrammatico
Al cinema nel Febbraio 2019

•  Altri film di Lars Von Trier

Trama del film La casa di jack

Stati Uniti, 1970. Jack è un ingegnere psicopatico con tendenze ossessivo-compulsive. Dopo aver ammazzato una donna che gli aveva chiesto soccorso per strada, si convince di dover continuare a uccidere per raggiungere la perfezione. Ogni suo omicidio deve essere un'opera d'arte, sempre più complessa e ingegnosa. Inizia così una partita a scacchi con la polizia, lunga dodici anni, condotta dal più astuto e spietato omicida seriale.

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Voto Visitatori:   7,50 / 10 (65 voti)7,50Grafico
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Voti e commenti su La casa di jack, 65 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

Macs  @  08/03/2019 13:10:07
   7½ / 10
Film totalmente fuori di testa che fonde un fortissimo intento simbolico con la metafora della violenza "artistica": Jack in fondo non è altro che un artista (architetto) mancato, un ingegnere freddo e incapace di amare che vorrebbe essere quello che la natura non gli ha consentito. Questa lacerazione interiore è alla base della sua assoluta, metafisica, e orgogliosissima "devianza". E per realizzare l'obiettivo impossibile (arte / amore), Jack sublima la propria psicosi attraverso la resa "artistica" dell'omicidio. Il personaggio di Jack è approfondito e rappresentato in modo geniale: accompagnati per mano da un Bruno Ganz / Virgilio all'ultima interpretazione, il film ci racconta la discesa negli inferi – mentali e fisici – del protagonista. Un uomo "costruito" e che si costruisce completamente al di sopra, al di fuori, a lato della morale – e ovviamente la casa che costruisce, specialmente nella sua versione finale e sublimata, è la rappresentazione allegorica dell'unica ingegnerizzazione di se stesso che è capace di partorire. Ho adorato poi il fatto che la lucidissima psicosi di Jack sia fotografata senza pietà né concessioni retoriche o buonistiche, rappresentata con precisione tagliente, in un ambiente psichico che non lascia alcuno scampo – né fisico né dialettico – a chi si imbatte sul suo cammino. I discorsi di Jack sono quelli del genio, malato e deviato ma pur sempre genio: di una mente eletta che ha nel DNA solo intransigenza, rifiuto di qualsiasi compromesso, massimalismo estremo in ogni esternazione, verbale o fattuale, della propria personalità. Forse un'allegoria dell'acuirsi della depressione di LVT? Si può sospettare che il regista concretizzi nella parabola di Jack – prototipo dell'outsider "sociale" per eccellenza – il proprio faticoso percorso artistico – di un outsider formale dello show business – percorso incentrato sulla lotta a quel male che lo divora dentro. Un male che LVT combatte con la "sua" arte – il cinema – e che Jack tenta di esorcizzare attraverso l'"arte" dell'omicidio. Di certo Matt Dillon fonde nella sua magistrale interpretazione l'anima disturbata del Willem Dafoe dell'"Anticristo" e la scanzonata splatterosità del Bruce Campbell degli "Evil Dead" (e annessi). Infatti un grande pregio del film è la quasi costante ironia nera che lo accompagna. Da una storia con queste premesse, nelle mani di un autore meno geniale poteva nascere un film pesante, perché il rischio di prendersi troppo sul serio era palpabile. Questo non avviene, non si può evitare di sorridere della messa in scena così volutamente, e violentemente, sopra le righe da sforare nel grottesco, certamente volontario. Il lato tecnico poi (ma che ve lo dico a fare) è sublime, o quantomeno affascinante: regia "sporca" con reiterata camera a mano; montaggio (talvolta alternato) spesso frenetico; movimenti di macchina che sfidano costantemente la grammatica e le regole del medium; fotografia fredda e tagliente ma dove i colori caldi compaiono random a sottolineare – specie col rosso fuoco – il simbolo del sangue e dell'inferno; uso di filtri volutamente "sbagliati" che offuscano e sfocano l'immagine; continui riferimenti dotti a letteratura, poesia, arte pittorica, musica con Vivaldi che spunta fuori di continuo; certe trovate poi vanno a braccetto solo con l'immaginazione del genio, come tutta la metafora delle ombre generate dalla luce del lampione. Ci sarebbe da scrivere e parlare per ore, giorni di un'opera così complessa – perché per ore, giorni, anni ci sarebbe da scrivere e parlare della mente umana, e in particolare di quella del serial killer e della sua genesi, composizione e caduta. Insomma un film per pochi, assolutamente vietato ai bimbiminkia, e a chi vive la vita superficialmente senza sapere o volere sapere cosa siano l'alienazione, l'isolamento, la depressione.

Riguardo l'annosa questione: non credo LVT voglia esprimere misoginia in questo film. Si tratta di un'artisticamente sublime richiesta di aiuto da parte di una mente geniale e malata, in precario equilibrio al limitare di una follia ambigua che da una parte ancora lo atterrisce, ma dall'altra comincia già ad attrarlo e a indurlo a gettarsi – volontariamente – in quell'abisso di dannazione eterna in cui finisce – sul piano metaforico come quello immaginifico – anche il suo alter ego. In fondo, siamo proprio sicuri che Jack nel finale tenti la sua impresa disperata perché davvero convinto di poter raggiungere la salvezza? Non è forse il richiamo di quelle fiamme eterne, a risultargli irresistibile e a spingerlo verso l'auto-distruzione, ossia verso la decisiva, finale, risolutiva e appagante auto-sublimazione? E' proprio nel coraggio stesso di proporci questa possibile identificazione, tra auto-distruzione e auto-sublimazione, che si rivela il genio di questa pellicola e della mente sfrenatamente eversiva che l'ha concepita.

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