Recensione woody regia di Robert B. Weide USA 2012
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Recensione woody (2012)

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locandina del film WOODY

Immagine tratta dal film WOODY

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Per i grandi registi è spesso inevitabile che il cinema produca opere autoreferenziali e vagamente adulatorie che raccontino la loro storia, è un'operazione commerciale abbastanza frequente, che nella fattispecie dei documentari non costituisce un'aberrazione estetica, ma che tocca il fondo per esempio nelle (auto)biografie degli atleti.

Quest'anno spetta a Woody Allen il piedistallo di raccontare intimamente la sua storia ai milioni di cinefili e spettatori che hanno apprezzato e amato le sue opere. Il cliché del genere impone la presenza fissa di questi elementi:

  1. Overture ad effetto (il film si apre infatti con le tipiche sequenze fotografiche iniziali delle commedie alleniane. Alcuni scatti di New York, città natale del regista, replicando addirittura il font grafico dei titoli di testa che ormai, dopo circa 40 film, abbiamo cominciato a riconoscere come marchio di fabbrica di Woody Allen e della sua s.p.a.)
  2. Parti dei film di cui si è scelto di parlare: probabilmente le parti migliori, e questo è piuttosto triste. O perlomeno è normale.
  3. Parti di comparse pubbliche di Allen prima che cominciasse la sua attività di regista (fondamentali).
  4. Parti di passate interviste allo stesso (ininfluenti, ma comunque ci stanno).
  5. Comparse di Allen a vari festival accecanti (degne di nota per la battuta: "adesso andiamo là e gli tiriamo carne cruda").
  6. Interviste a vari personaggi, più o meno noti, in ordine di importanza:
    • Grandi registi: Martin Scorsese (palesemente non in grado di dire qualcosa di interessante sul suo collega)
    • Grandi attori: vedi dopo
    • Famigliari: che raccontano retroscena più o meno gradevoli sulla vita di un autore di cui conosciamo così tanto l'infanzia, grazie alle sue bellissime battute e a un film autobiografico come "Annie Hall", da chiederci che utilità effettiva abbiano nell'economia narrativa del documentario. Compaiono una madre e una sorella.
    • Woody Allen: ovvio.
    • Gli amici intimi/persone che hanno lavorato con Woody: in particolare i suoi storici produttori, Charles Joffe e Jack Rollins, che incensano la loro macchina da soldi, più o meno con l'affetto con cui un miliardario parlerebbe del motore della sua nuova Lamborghini. "He's an industry!" (e qui ci si augura che il protagonista non abbia visionato questo documentario e non lo faccia mai)
    • Altra gente misconosciuta ma comunque autorizzata a parlare: critici vari (che in realtà dicono le cose più significative di tutto il film, in particolare una sottospecie di sacerdote/cinefilo che pare anche l'unico interessato a dire cose un minimo ispiranti sull'argomento di cui si sta parlando), scrittori e drammaturghi ostentanti una stima esagerata verso un artista che in fin dei conti ha fregato loro, in modo anche abbastanza ingiustificato, quasi tutti i soldi e la notorietà della torta dello spettacolo, comici del passato di cui nessuno ormai si ricorda più, che però paradossalmente contribuiscono ad alzare il livello di questo documentario, raccontando aneddoti splendidi sull'attività pre-cinematografica di Allen, ossia di comico da palcoscenico e locali in penombra, oppure come gigante televisivo di salotti pre-Letterman, sicuramente le parti più interessanti del film, poiché appunto sconosciute ai più, soprattutto a noi spettatori europei.

In realtà "Woody" è un bel documentario, se si apprezza il cinema di questo (grande) autore della generazione passata. Come non sorridere a sentire parlare di lui, della sua simpatia, della sua intelligenza, delle sue gag, quelle note e quelle meno note? Essere affezionati a Woody Allen è un classico per ogni cinefilo che si rispetti, quasi un dovere.

Ma l'idea di un documentario su di lui quale sarebbe?

L'idea di base di questo genere di prodotti visivi è solitamente "raccontare i retroscena", ciò che "normalmente non si sa". Mettere a parte lo spettatore/amante del cinema alleniano di cose che solo gli addetti al mestiere sanno. Raccontare, mettere a nudo il genio che ci ha fatto ridere e piangere milioni di volte, guardando e riguardando i suoi splendidi film, nelle sale o a casa, o che ci ha fatto montare la collera quando da qualche tempo a questa parte ha cominciato a infilare un film più brutto dell'altro, senza sbagliare un colpo.
L'aspettativa di un cinefilo intelligente quindi diventa duplice: capire il perché di tanto genio, e il perché di tanta mediocrità.
Perché ciò che traspare dalla visione di questo film è che Woody Allen è stato davvero una mente straordinariamente brillante.

E bastano alcune pennellate dello stesso documentario: un misterioso e sconosciuto ragazzetto dei quartieri medi di New York, appena sedicenne, cominciò a guadagnare più dei suoi genitori messi insieme. E non lo faceva poiché in possesso di talento sportivo, quindi essenzialmente fisico, o perché guidato dal music business cavalcando l'ignoranza armonica delle masse, ma perché scriveva geniali e fulminanti battute che poi vendeva ai giornali. In questo Allen rispetta (ma questo non viene detto nel film) il cliché del perfetto ebreo, ossia di essere già da adolescente, quando tutti i suoi coetanei non avevano neanche i 10 cent per comprarsi le caramelle, una micidiale macchina da soldi.

Ma era il talento quello che rendeva Allen Konisberg alias Woody Allen un personaggio diverso dagli altri. Un uomo capace non di vendere se stesso, ma di investire su se stesso. Sfruttando la propria fisicità, la propria sagacia comica, ogni singolo aspetto della sua vita privata per passare dall'essere un oscuro e impacciato individuo di quartiere (memorabile il racconto del suo tentato assassinio da parte di un ragazzo all'interno del cortile scolastico) a essere uno dei più amati e influenti cineasti degli Stati Uniti e del mondo intero. Un regista capace di passare per ogni genere, suggestione, città, continente, attori e inspiegabilmente rimanere il solito vecchio Woody. Versatile, ma sostanzialmente sempreverde. Un camaleonte dell'industria cinematografica, lo Zelig di uno dei suoi film più giustamente celebrati. Dalla sua precedente attività di cabarettista e umorista ci rendiamo conto che Woody è una di quelle rare menti che ha davvero capito l'America. Eppure, riguardando i suoi film attraverso questo documentario, si ha l'impressione che non abbia fatto altro che parlare di se stesso, dei suoi "temi". Ma cosa significa capire l'America?

La selezione che Weide ha fatto della sterminata filmografia del cineasta newyorkese è accurata e significativa. Non si poteva parlare di tutto, ma si doveva inquadrare una periodizzazione che fosse esemplificativa del complesso percorso artistico e storico di Woody Allen, che riassumesse la sua figura e il significato dei suoi film.

E così il suo esordio ("Ciao Pussycat!") diventa il pretesto per parlare di quanto sia tirannico Woody quando si parla di "regia", di quanto debba fare tutto lui, senza che le case di produzione ci mettano mano per cambiare tutto. Traspare un grande orgoglio quando i Joffe e Rollins parlano di questo aspetto del carattere e del modo di lavorare del loro genio: rigido, dispotico e incapace di compromessi. Ma in effetti il successo di "Prendi i soldi e scappa" è la lampante dimostrazione che Woody bisogna lasciarlo fare.

"Il dormiglione" e "Il dittatore dello stato libero di Bananas" rappresentano emblematicamente quella parte "ingenua" della filmografia alleniana. Pare che Woody abbia sofferto molto per il distacco da questa produzione che pare piacesse di più al suo pubblico statunitense, quindi molto del documentario parla di questo problema. La questione dei film "più divertenti" fu così cruciale che Woody pensò di scriverci sopra una sceneggiatura: ed ecco che arrivò sugli schermi "Stardust memories", ovviamente non capito dagli americani, che non erano abituati all'introspettiva estetica felliniana. È palese che SM è stato scelto in fase di scrittura per rappresentare i film "brutti" del protagonista. Ma perché non "To Rome with love" allora?
Forse perché parlare in termini di "incomprensione da parte del pubblico" è più accomodante che dire semplicemente che un film è brutto.

Ma la parte problematica pare essere finita, dal momento che l'analisi va a scavare le ragioni per cui Allen è un grande regista, e non un mediocre affarista giudeo con mire egocentriche e autoreferenziali da artista maledetto. E l'unico modo per farlo è mostrare dove il cineasta ha tirato fuori il coniglio dal cappello: i suoi capolavori.

"Annie Hall" e la rivoluzione della commedia americana, "Manhattan" il film inspiegabilmente odiato dallo stesso autore e invece celebrato da dinastie intere di affezionati (e oggettivamente un pezzo gigantesco di cinema), "Amore e guerra" il film che ha consacrato la capacità del regista di parodiare la cultura (europea), "La rosa purpurea del Cairo" con cui ha narrato con una dolcezza unica nella storia il triste passaggio da fantasia a realtà, "Crimini e misfatti" il suo vero match point, "Ombre e nebbia" raffinato riepilogo dei suoi temi topici e "Harry a pezzi" forse il suo ultimo capolavoro.

Una sosta per "Mariti e mogli", in cui si racconta il triste scandalo-epilogo della sua (lunga) storia d'amore con Mia Farrow e in cui il documentario svetta per un'incredibile e insospettata sincerità. Getta luce ad esempio sulla sconcertante professionalità di un'attrice meravigliosa che nonostante abbia trovato le foto di sua figlia che posava nuda per suo marito, concettualizzando subito la terribile consapevolezza che suo marito la stesse tradendo nel peggiore dei modi, ha continuato a lavorare a fianco di quel marito (ma ci si può rendere anche conto di quanto di cattivo gusto sia allora l'orgoglio con cui il produttore racconta questa storia, ossia di averla convinta a tornare sul set e finire il film, dimostrando davvero poco tatto). Ma getta luce anche sui retroscena in cui si è infilato Woody Allen, soffermandosi su alcuni particolari raccapriccianti, e che forse non avremmo voluto sapere. È storia vecchia, ma venire a sapere certe cose così private su un regista che amiamo perché a suo modo ci ha insegnato cos'è il cinema, e perché esso è così fantastico ci riporta a una cruda realtà che francamente si poteva evitare. Ma è da ammirare il coraggio e l'imparzialità con cui l'intera spinosa faccenda viene gestita da... comprensibilmente Mia Farrow è una delle poche figure storiche a non comparire come intervistata nel film. Toccante è invece, a questo proposito, la breve comparsa dell'altra donna importante di Allen, la gigantesca Diane Keaton, schietta e semplice, e incredibilmente affettuosa.

La seconda parte della filmografia di Woody Allen è trattata invece in modo meno onesto. O perlomeno in maniera fallimentare.

A parte un giudizio poco lusinghiero sulla fase "Anything Else", che probabilmente meritava maggiore approfondimento, il documentario decide di puntare tutto su "Match Point". Ma le premesse diventano, secondo la tesi del documentarista, le prove del rinnovato talento del regista. Ciò che traspare dal lungo discorso sul famoso thriller inglese è che il fatto che Woody abbia abbandonato l'America e la commedia sia un segnale di ritrovata vena artistica. Più equo fu invece lo stesso autore che spiegò il mistero di questa decisione dicendo semplicemente: "quando ho un'idea per un film drammatico la metto in pratica". Volendo giustificare a tutti i costi la parabola declinante del cineasta di cui sta (tessendo le lodi) parlando, Weide fa quello che lo stesso Woody, ben più intelligentemente, non ha mai cercato di fare: difendersi. Eppure basta osservare come, rispetto alla prima parte, l'attenzione si sposti e si focalizzi più sugli attori che sul regista stesso e quindi sui suoi film recenti ("Basta che funzioni", "Scoop", "Sogni e delitti", "Midnight in Paris" (per citarne alcuni).
Gli attori della fase precedente parlano di Woody come un collega, un amico di vecchia data, un consumato compagno di avventura. L'ultima parte di questo lavoro diventa invece un'intervista esclusiva a quel gruppo di giganti del cinema contemporaneo, che sa quasi di nevrosi collettiva: quindi Josh Brolin, uno che ha lavorato con alcuni fra i registi più talentuosi in circolazione (i fratelli Coen, per esempio), appare un ossessivo e infantile attorino di provincia che cerca a tutti i costi l'approvazione del suo mentore, Naomi Watts (viene significativamente taciuto che il film che accomuna questi due è "Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni") che sembrava più brava quando veniva diretta da Lynch, John Cusack che parla sostanzialmente del niente, Scarlett Johannson che contro ogni aspettativa sembra davvero una donna intelligente e capace anche di divertirsi e non solo di piacere a Woody Allen, Penelope Cruz di cui in mezzo minuto di intervista capiamo solo che non sa l'inglese.
Può sembrare feroce questo quadro, ma è sempre una non piacevole esperienza ascoltare quanto stucchevoli e poco interessanti sono i commenti che specialmente gli attori sono capaci di fare, quando si chiede loro di parlare di quello che fanno nella vita.

Ma alla fine ciò che è importante è venire a sapere che in questo particolare momento della sua esistenza (e in sottofondo c'è davvero una foto con lui e Roberto Benigni, intenti ovviamente a ridere), Woody è felice. All'apice della sua carriera quarantennale, vincitore di Oscar (sulla cui legittimità si dimostra apprezzabilmente sincero), in possesso di un patrimonio incalcolabile e della donna che finalmente ha trovato e tenuto. Ci chiediamo allora cosa gli manchi ancora e perché quindi continui a fare film. Forse, ed è questa la tesi implicita del documentario, è perché Woody Allen il capolavoro non l'ha ancora davvero fatto. O perlomeno questo è ciò che pensa lui: "L'unico ostacolo tra me e la grandezza sono io".

Ma una risposta forse, in chiusura, ce la possiamo dare noi: una parte interessante del documentario infatti è quella che mostra, di scorcio, come lavora questa grande mente del cinema e della cultura statunitense. Ed è tutto così deludente che di primo acchito ci viene da sorridere e indulgere su quella che da subito ci è sembrata una stonatura (e fregatura, per usare l'ultima parola del regista): eccolo infatti tirare fuori da un cassetto di camera sua un mucchio di fogli sparsi, fittamente scritti, di ogni risma e qualità cartacea. Lo vediamo spiegare il suo "metodo", ossia quello di tirare fuori da questo brainstorming casuale di idee una traccia, un qualcosa che attiri più del resto la sua attenzione e gli permetta di girare un altro film. Vediamo questo desolante mucchietto di fogli e ci chiediamo se è tutto davvero lì, Woody Allen. Poi arriviamo alla fase successiva quando lui si mette a scrivere i suoi copioni. E con sconcerto crescente scopriamo che usa ancora la macchina da scrivere che aveva comprato quarant'anni prima. Salvo la battuta geniale "L'ho comprata quarant'anni fa, mi han detto che sarebbe durata più di me", ci chiediamo come sia possibile che il regista di "Match Point" tenga in così poco conto il suo lavoro dall'affidarlo a un mucchietto di fogli sparsi, di spillatrici con cui fare "editing" e a un'antica antesignana del moderno pc. Non che serva la tecnologia per essere geni, ma a vedere i suoi ultimi lavori e poi questi retroscena si ha un riscontro, a livello meramente euristico: Woody sembra ormai quello che è, un vecchio (e intelligente) regista che non si rassegna a cedere il passo, a fare "un film ogni due anni" e ad adeguarsi a ciò che è il più elementare progresso. Il risultato sono un paio di film scadenti, e tanti, tantissimi soldi.

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Recensione a cura di Terry Malloy - aggiornata al 27/09/2012 13.41.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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