La storia è ispirata alle sanguinose rivolte che sconvolsero Detroit nel 1967. Tra le strade della città si consumò un vero e proprio massacro ad pera della polizia, in cui persero la vita tre afroamericani e centinaia di persone restarono gravemente ferite. La rivolta successiva portò a disordini senza precendenti constringendo cosi', ad una presa di coscienza su quanto accaduto durante quell'ignobile giorno di cinquant'anni fa.
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Memore dei suoi più recenti lavori Kathryn Bigelow trasforma la Detroit del 1967 in un campo di battaglia, in cui la guerriglia urbana impazza documentata da montaggio frenetico sommato a regia nervosa con camera a mano. È puro antefatto quello dei riots con relativi sciacallaggi e tolleranza zero da parte di autorità messe sotto pressione, ma incapaci di gestire la situazione destinata a degenerare abuso dopo abuso. Basta quindi uno stupido quanto innocente gioco per innescare la miccia, animi già surriscaldati a dovere si riversano nell' hotel Algiers dove va in scena la parte centrale, quella più lunga, cruda e insostenibile. A Bigelow non interessare analizzare la rivolta e approfondire più di tanto le cause scatenanti, il suo è puro cinema politico innervato all'interno di un sistema in cui la ghettizzazione diventa risoluzione errata, in cui le violenze psicologiche e soprattutto fisiche subite da vittime innocenti dimostrano le difficoltà di un paese in cui la pacifica mescolanza razziale è pura utopia. È un odio che cova da sempre, ed infatti i riferimenti all'attuale politica americana non sono certo casuali, bensì frutto di riflessioni semplici, in cui basta esporre i fatti per capire da quale parte stare. L'attacco è frontale, diretto, anche in una seconda parte in cui, lungaggini a parte, il caos regna: quello di vittime talmente traumatizzate da non saper ricostruire in maniera inattaccabile i fatti, quello di aguzzini in cui l'embrione del male ha attecchito senza una particolare motivazione razzista, in quella che più verosimilmente è una visione primigenia di dominazione a prescindere. "Detroit" è un quadro corale fatto di tante voci e suggestioni, scontro fomentato da incomprensione reciproca in cui l'azione predomina sulla riflessione, dove la violenza prende piede in un contesto alienato, in cui i tumulti cittadini sono semplice eco. Il sopruso diventa così retaggio di una controcultura probabilmente impossibile da estirpare, buono per essere adottato ovunque la situazione limite lo permetta.