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David Lynch può essere per il cinema quello che Picasso fu per l'arte? Un regista che dimostra assoluta padronanza del mezzo classico (i suoi film più semplici sono anche capolavori, come The elephant man) al pari di un pittore che aveva il controllo assoluto del disegno e delle tecniche; un regista che si permette, partendo da solidissime basi, di sperimentare percorsi quasi vergini, al pari di un pittore che sconvolse l'idea della fruizione visiva dell'opera d'arte. Un regista che ha anche la presunzione del genio, ma se la può permettere.
Se nella prima parte di INLAND EMPIRE mi sono sforzata di capire i nessi e i riferimenti, nella seconda ho abbandonato progressivamente la logica e, nel finale, mi sono semplicemente lasciata trasportare dall'incubo e dall'esasperazione, abbagliata dalla straordinaria presenza scenica di Laura Dern nelle sue molteplici declinazioni e identità. E nel sonno ho continuato a vagare tra immagini allucinate, quasi come la Nikki/Susan/reale/sognata/recitata del film. Decisamente David, nel mio caso, ha colpito nel segno.