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Ancora una grandissima opera di Oshima, il regista giapponese che più di tutti si è impegnato a scardinare i tabù della società. Pur essendo stato spesso il sesso al centro delle sue riflessioni (spesso annientanti) questa volta Oshima si scaglia contro la pena di morte in un'opera coraggiosissima, all'avanguardia e stilisticamente perfetta. Difficile non notare come il regista riesca a passare con disinvoltura vari generi, approdando da uno stile inizialmente simil-documentaristico per giungere a una lenta discesa nei meandri del ridicolo, dell'assurdo e della concezione brechtiana del teatro. Le istituzioni diventano pantomime di sé stesse, i temi filosofici sui concetti di persona, personalità, identità e anima non sono mai sprecati né fuori luogo; addirittura Oshima riesce ad inserire in tutto questo marasma di concetti esplicitati alla perfezione la questione allora scottante della Corea e del Giappone. Non è eccessivo tirare fuori Kafka per quel finale straordinario poi, né essere travolti dalle più svariate emozioni: ci si indigna, si ride, ci si commuove, si è perturbati. Appunto nel finale la logica razionale fa contraddire quella che vorrebbe la pena di morte come pena giusta e egualitaria. Ma ovviamente non ci può essere una conclusione positiva della vicenda: il potere nella sua veste umana ribalta la situazione con i dettami della forza, della menzogna... Ma se qualcuno dovesse essere favorevole alla pena di morte (in Giappone ancora oggi è popolare come allora) dovrebbe forse vedere R. come l'uomo che rappresenta tutti gli R.; il capro espiatorio di una società, delle istituzioni, boia di sé stessi inconsciamente. L'Impiccagione è un film potentissimo, un'invettiva mai banale, neanche per un istante, su un crimine legalizzato ed istituzionalizzato in troppe nazioni ancora oggi.
"è la nazione che non ti permette di vivere." "Non lo accetto. Cos'è una nazione? Mostramene una! Non voglio essere ucciso da una cosa astratta." "Il Pubblico Ministero rappresenta la nazione!" "Allora siete voi i miei assassini."
Oshima Nagisa non è un autore che amo particolarmente, ma "L'impiccagione" mi ha convinto: tra grottesco, surreale e lirismo, il regista confeziona un grido contro la pena di morte che, pur tra alti e bassi, è di quelli che sicuramente val la pena di vedere. Oshima inizia con una polemica lanciata al popolo giapponese, per la gran parte (ancora oggi) favorevole alla pena di morte. Egli sfida l'opinione pubblica a vedere cosa veramente è la pena di morte e le sue modalità, che in Giappone in particolare sono decisamente barbare e crudeli (e invariate dal 1968, anno del film). Dopo che viene mostrato meticolosamente e realisticamente come avvengono le esecuzioni, accade un avvenimento assurdo: il condannato R, dopo che è stato impiccato, vede morire la sua anima ma non il suo corpo, che si rifiuta di lasciare questo mondo. Da qui ha inizio una serie di tentativi grotteschi e ridicoli da parte delle forze dell'ordine per fargli riacquistare coscienza e di fargli capire di essere il condannato, al fine di poterlo uccidere rispettando la legge. Un chiaro espediente Oshima utilizza per esprimere l'insensatezza della pena di morte, che verrà ribadita più volte nel film anche dal punto di vista teorico. Ad arricchire la pellicola vi è il fatto che il condannato è coreano, poichè in questo modo viene anche trattata la condizione dei cosiddetti "zainichi", tra povertà ed emarginazione, oltre ai difficili rapporti tra Giappone e Corea del Sud. Però, il condannato R si dimostra estraneo alla polemica nazionalista, e asserisce di aver ucciso solo per i suoi istinti e la sua solitudine; suscitando le ire della sorella che vedeva nei suoi delitti un motivo di rivendicazione coreana sui soprusi dei giapponesi in epoca coloniale. Molto bello anche l'enigmatico finale, in cui viene messo in discussione il concetto di Nazione e la sua legittimità, che si presta a più interpretazioni.