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Il fruscio delle foglie silenziose, la maestosa imponenza della pietra, il respiro d'un ruscello che attraversa la selva... "mille anni tutti per noi" in un film, forse il più misterioso mai girato, che contempla la stessa cifra d'imperscruttabile e ignoto di cui è altrettanto misteriosamente composto. Già, perché quella di Weir con la macchina da presa è autentica magia: le carrellate fra le foglie, simmetriche e perfette; le dissolvenze, i primi piani, i campi lunghi: quadri di rara bellezza; e quella fotografia, viva e reale eppure egualmente misteriosa, come cercasse di comunicare sottovoce. Un film che non pretende di svelare verità alcuna, perché intrisencamente consapevole di tale precarietà; la addita da lontano, concentrandosi esclusivamente sui suoi protagonisti. Ne vien fuori un ritratto di rara grazia e bellezza, che sconvolge per l'immensa potenza evocativa; il linguaggio di Weir è quello del Bergman di "Sussurri e Grida": accattivante e ambiguo, vivido ed entusiasmante, sempre e comunque attuale.