Dal racconto di André Devigny: nel 1943 un componente della Resistenza, rinchiuso nel forte di Montluc di Lione, riesce a evadere con un giovane prigioniero comune.
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Fuggire è l'unico pensiero di Fontaine, rinchiuso in prigione dai tedeschi, condannato a morte. Fontaine ci crede, lavora, si costruisce la fuga solo con le poche cose che ha a disposizione: qualche oggetto, tutto il suo ingegno e una determinazione immotivata, che sembra esistere da sé sola. Gesti lenti, accorti per ricavare ganci da un telaio e corde da vestiti e coperte; l'attesa estenuante del momento propizio e la titubanza quando non è più tempo di rimandare; l'esortazione rimprovero del vicino di cella
"credi più nei tuoi ganci e nelle tue corde che in te stesso".
Poi l'imprevisto di un nuovo compagno di cella, il sospetto, infine la fuga in un crescendo ininterrotto di tensione che non lascia un minuto noi che guardiamo, in totale partecipazione emotiva. Film spoglio come la cella di quella prigione, bianco e nero come le opportunità che Fontaine ha di fronte, fuggire o morire, pieno degli sguardi muti e complici dei prigionieri, del silenzio nemico della libertà, poche le parole dette di nascosto sottovoce e solo Mozart ad accompagnare la rituale uscita alle abluzioni quotidiane, come in una dolente processione. Manifesto di essenzialità e poesia del raccontare, la condizione umana del prigioniero resa perfettamente solo da sguardi e piccole azioni manuali e restituita a noi piena di profondo significato che induce a riflessione. Magnifico film.