Al Lido di Venezia i fantasmi evocano un Festival drl cinema che ormai non esiste più. Qualcuno mi chiede dove e come si può raggiungere il Des Bains, ormai chiuso da anni, e sono costretto a invitarlo a scegliere una meta diversa, lo stesso Visconti (che vi giro' "Morte a Venezia") oggi si rivolterebbe nella tomba. Non va meglio all'Excelsior, meta di fugaci e gustosi cortometraggi inediti, ormai spazio di (pochi) vip e tediosi lounge parties in abito da sera. Il pubblico cinefilo tira un sospiro di sollievo, almeno non dovrà trovarsi le sale strapiene o i biglietti esauriti due giorni prima come un tempo, ma certo non vedrà mai più Bruce Willis esibirsi con la sua band, Vittorio Gassman recitare gratis "L'urlo" di Ginsberg, Jack Nicholson parlare a una folla straripante, rischiare il linciaggio morale per L'ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO o magari assistere a un buon concerto rock di Stevie Wynn. Tutto questo accadeva (e molto di più) qualche anno fa. Gli abitanti del Lido, pigri per natura, non hanno avuto una Mostra del Cinema ma una stanca kermesse con un po' di glamour, un Festival sopravvissuto all'ombra di se stesso. Il giorno dell'apertura, strade deserte e bar chiusi prima di sera avevano già messo in allarme, dopo un'estate non troppo esaltante sul piano metereologico. Privati degli stand di Raro Cinema e altro, gli stessi cinefili sembrano meno compatti, e nessuno chiede la testa di questo o quel cineasta. Restano solo gli stand gsstronomici dove si mangia male e si spende peggio, o i chioschi di bibite o panini degni di una sagra paesana, gestiti con disinvolta spontaneità.
E a parte il restauro di una Sala Darsena magnifica, il cratere di uno dei più ignobili abusi edilizi della storia giace com'è, inesorabile scempio che va avanti da almeno 5 anni.
Inezie, il cinefilo doc esiste ancora, parla dei film tacciando prudentemente come "buone" opere di cui qualcuno tesserà le lodi e altri ne indicheranno i difetti strutturali e artistici.
Mentre il Lido si prepara al suo funerale, sono vere e proprie chimere autunnali a inaugurare la fine della stagione. Come il nubifragio che si è abbattuto su molti di noi all'uscita della proiezione di LOIN DES HOMMES. Resta solo il consolante Paolo Baratta a erudirci sul fatto che quest'anno si sono venduti piùabbonamenti della scorsa edizione. Nonostante la buona qualità dei film in programmazione, la Mostra è allo sbando, come tutto il cinema. E se tanta gente va a vedere James Franco senza sapere chi è Faulkner, è il segnale che qualcosa non va.
Se applaudono la Guzzanti perchè ci fa odiare i nostri politici o dibattono ancora una volta con ipocrita, affettuoso disprezzo sulla vita e morte di Pasolini, il tempo di rivedere un altro Festival è davvero lontano. Fuori dall'indifferenza di una massa curiosa e al tempo stesso artefatta al glamour, come si chiedesse ormai che ci sta a fare, qui, un Festival, pieno di abitudini e privo di risorse (economiche). Neanche l'ombra di uno scandalo annunciato, Larry Clarke può dormire sonni tranquilli. Insieme a noi, miserevoli eredi delle antiche contestazioni (vs. I 12 anni senza premi, dal 68" al 1980) che vediamo svanire, mortificarsi, le nostre Borghesi e antiche passioni.
A giudicare dai film premiati alla 70esima edizione della mostra del cinema di Venezia - sempre a ridosso del Festival di Roma - la giuria di Bertolucci ha voluto gratificare un nuovo cinema Italiano, con un atteggiamento che a qualcuno è parso uno smacco narcisista, per diverse ragioni.
Il cast completo di Sacro GRA, di Gianfranco Rosi
Come sappiamo, ha vinto un documentario, Sacro GRA, certamente non privo di meriti e guarda caso "stranamente" acclamato dalla stampa internazionale presente al Festival. Dopo tanto clamore per il tardivo riconoscimento del cinema italiano di genere i giurati hanno premiato una tipologia di cinema che, pur partendo da un realismo popolare - cfr. Comizi d'amore di Pasolini - si allontana in modo preponderante dal consenso uniforme degli spettatori.
Ma in realtà qui si premia una certa unicità stilistica, diciamo "narrativa", lasciando da parte l'apoteosi pletorica di pubblico e critica di fronte ai cosiddetti film-tributo da Festival. In verità i film di genere, se vogliamo, un ruolo marginale in questa edizione del Festival l'hanno avuto. È il caso di Wolf Creek 2 di Greg McLean, dell'orientale Rigor Mortis di Juno Mak, horror in salsa Polanskiana, del gustoso remake nipponico "The unforgiven" di Lee Sangall, del controverso di Kim Ki-Duk, dell'iconoclasta Why don't you play in hell? di Sono Sion, perfino dell'italiano Zoran, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto.
L'impressione generale però è che anche tra gli addetti ai lavori l'improvviso interesse - dopo anni di repulsione anche ideologica - per la filmografia di Mario Bava, Vittorio Cottafavi o Jess Franco stia scemando. Diciamo allora che una certa stagione si è inaugurata con Tarantino e i suoi feticci cinefili, e magari si omologa tutta nel suo diffuso citazionismo.
Immagine tratta da Zoran, il mio nipote scemo
Ma chi conosce bene le mode dei Festival, sa già quanto certe scelte elettive corrispondano a un bisogno evidente del mondo del cinema e dei critici in parte, di esaltare la futura scoperta in attesa di nuove stimolanti "tendenze". E tutto questo per affossare l'ultima moda e crearne subito un'altra. Succede ovunque, anche nel cinema. Chi conosce le fisse maniacali della critica, sa già la fine che hanno fatto i temibili cineasti giapponesi, con il loro formalismo ora rigoroso ora smaccatamente reazionario (...opps, di genere). E che cosa è rimasto del naturalismo sociale del cinema arabo, con quegli specchi comunicativi tipo Antonioni dove il Mereghetti di turno auspicava di rigenerarsi ascoltando la poesia di un microcosmo islamico che, ipocritamente, esaltiamo e combattiamo? E oggi i critici che si affannano a dirci che Holy motors di Leo Carax è il più grande film dell'anno hanno comunque interiorizzato un'idea di cinema che, partendo dalla sperimentazione, colpisce il "suo" immaginario come prefazione dell'Esperienza: cinema che diventa paradigma ossessivo dell' "Uomo con la macchina da presa".
Per molti è qualcosa di rivoluzionario che a ben vedere respiriamo da un centinaio di anni.
E non a caso autori come Al Pacino o Kitano hanno messo abilmente in risalto l'effimera affettazione o la grandezza concettuale di questi mezzi.
Il documentario vanta però illimitate risorse, a meno che non vengano tradite dalle intenzioni piuttosto generiche di supportarlo a ogni aspetto culturale, popolare, ideologico. La vittoria di "Sacro GRA" sancisce davvero la riconciliazione del cinema verso una ristretta elite o esiste dell'altro? Magari, chissà, un bisogno di nobilitare un cinema italiano altrimenti mediocre e remissivo, omertoso e incapace di graffiare?
Non è un caso che un altro film premiato punti nuovamente sul fronte monolitico della tendenza dei festival, ovvero la massima attenzione riservata alla critica a opere ermetiche o spiazzanti come Stray dogs di Tsai-Ming Liang.
E al bel film di Rosi è stato affiancato un altro premio per la miglior attrice protagonista di Via Castellana Bandiera, un'altra opera sul potenziale extra-urbano dei margini delle nostre città.
Altro il risalto dato dai giurati del Festival alla "sensazione". Come il "gruppo di famiglia in un int(f)erno del greco Miss Violence di Avranas. Un film che ricompensa - o delude, dipende - chi dal cinema pretende sia un certo rigore espressivo sia una forte presa emotiva.
E pertanto sono stati "giustamente" ignorati il classicismo di Philomena di Frears, il radicalismo docu-fiction di The unknown known, il concettualismo di Les terrasses (un Sacro GRA ideologico e acuto girato ad Algeri), o la poetica minimalista e un po' compassata di Philippe Garrell (ormai piu' erede di Sautet che di Godard).
C'è spazio solo per un inno alla vita trapassata (Still life di Uberto Pasolini), o per meglio dire alla dignità perduta della morte.
La giuria presieduta da Bernardo Bertolucci ha fatto comunque piazza pulita dei meccanismi settoriali svelando una macchina di cinema che cerca consensi soprattutto tra gli amanti della tecnica.
La cosa migliore della 70esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia 2013 è stata un accentuato ritorno del tema dell'omosessualità, imploso in tutti i suoi aspetti, anche i meno rassicuranti, ma che almeno non è stato preceduto da scandali annunciati veri e presunti. In pratica per la prima volta si è parlato soprattutto della qualità vera o presunta dei film, senza lasciarsi adescare dal morboso riferimento sessuale (cfr. a differenza del "caso" di Brokeback Mountain di Ang Lee, che, dopotutto, è un opera piuttosto conformista). I clamori attorno a "Gerontophilia” di Bruce LaBruce sono stati smentiti quasi subito da un film che, raccontando l'attrazione fisica di un ragazzo per gli uomini anziani, si è rivelato un'opera commovente e poetica sul bisogno impellente di un contatto affettivo.
I film, ormai, non hanno più bisogno di etichette generiche e ottuse per farsi conoscere, anzi tutto questo ha limitato negli anni la visione di opere qualitativamente molto interessanti, relegate a una
tipologia di spettatori e a un certo tipo di critica. Lo dimostra il fatto che il Queer Lion Award, giunto alla sua settima edizione, ha conferito il premio a un film tutto sommato lontano da certi rigori tematici, "Philomena” di Stephen Frears, che è stato di gran lunga il più apprezzato dalla critica e dagli spettatori fra tutti i film in concorso alla Mostra. Sono i nuovi venti che cambiano, perché premiano un'opera che non ha alcuna intenzione di incasellarsi in un dogma (omo)sessuale come accade a molte altre opere presenti alla mostra.
Torniamo volentieri a ricordare un film seminale come Notti selvagge (1992) di Cyril Collard, che evidentemente un percorso l'ha tracciato. Ma nel caso di “Philomena”, il discorso è diverso: si tratta di un magnifico film classico su una donna anziana che cerca da quasi cinquant'anni il figlio, affidato da alcune malefiche suore a una famiglia americana. La donna si incammina alla ricerca dell'uomo, in compagnia di un polemico giornalista, fino a scoprire la sua escalation politica, ma anche la sua malattia (l'Aids) e la morte prematura. Il punto di forza del film sta tutto nella figura forte e insieme fragile di questa donna, che attutisce il dolore nei ricordi, ma che non ha alcun timore a disconoscere l'omosessualità del figlio come elemento "disturbante" della sua vita. Al contrario, l'importante è che l'uomo che non ha potuto vedere crescere sia stato felice, abbia raggiunto i suoi obiettivi, abbia fatto (guarda caso) le scelte giuste per la sua vita affettiva e professionale.
In questo senso sì, “Philomena” è una lezione di vita per molti, essendo poi una variabile umana del melodramma à la Douglas Sirk, e nei suoi occhi proviamo pena per lei.
Ma allora, per quale ragione si ricorre al solito e anacronistico escamotage dell'Aids, come se fosse necessario essere gay per ammalarsi? Mentre il film suggerisce una nuova lezione morale, al tempo stesso rischia di affossarla con uno stereotipo vecchio di 25 anni...
Il rigore stilistico in cui si muovono altri cineasti che affrontano lo stesso tema non è così evidente, ed è forse la ragione che ha visto molta gente apprezzare opere come “Tom a la ferme” di Xavier Dolan, l'atteso “Kill your darlings” di John Krokidas, “L'armee du salut” di Abdellah
Taia, e “Eastern Boys” di Robin Campillo (premiato nella sezione Orizzonti) per differenti ragioni. Il primo può essere tranquillamente indicato come un post-noir da atmosfere thriller, il film sulla formazione culturale ed esistenziale di Allen Ginsberg, un biopic eccentrico ma non troppo, mentre il francese Campillo sembra voler percorrere le stesse strade del cinema sociale di Ken Loach. L'unico del lotto che probabilmente possiede una sua identità precisa, forse poco estetizzante, è il bel film franco-arabo sulle avventure sentimentali di un adolescente marocchino e sulla sua complicata storia d'amore con un ricco svizzero (ma già l'epilogo finale a Ginevra sembra uscito dalla penna di Micheal Winterbotton). E' un film che a tratti ricorda il miglior Fassbinder, anche se complessivamente non manca una certa freddezza espositiva. E' comunque il film più idoneo a rientrare nel settarismo delle etichette di cui si parlava prima. "Tom a le ferme" è formalmente il film in cui i gay si riconosco maggiormente, forse essendo lo script l'antitesi realista della vicenda di “Philomena”. Qui abbiamo un ragazzo che parte per andare ai funerali del suo compagno, morto in un incidente stradale, e viene accolto da una madre ignara dell'identità sua e del figlio scomparso, e da un inquietante, attraente fratello che coercizza il ragazzo facendolo assecondare ai suoi veti. Di fatto sembrerebbe la storia di un morboso rapporto a due, o
semplicemente il racconto articolato di un'omosessualità repressa, ma Dolan è bravo a filtrare nello spettatore lo sgomento per la vita di segreti e bugie, per dirla alla Leigh, dell'uomo scomparso. Anche qui abbiamo davanti una grande figura materna, ma a differenza della Philomena di Judi Dench abbiamo una madre totalmente ignara di troppe cose, costretta a doversi sentire lusingata dal conoscere la falsa fidanzata "riparatrice" del compianto figlio. Se poi “Kill your darlings” esibisce soprattutto una galleria memorabile di intellettuali d'epoca, “Eastern Boys” è il classico film fatto per dividere. Ha una parte centrale convincente (tutta la sequenza del furto nell'appartamento è da manuale) ma finisce per sfilacciarsi in troppe direzioni. E così il tema piuttosto scabroso del cliente di minorenni che si improvvisa in seguito figura paterna rischia di essere analizzato in superficie. Il film certo ha dalla sua coraggio e vitalità, ma montaggio e sceneggiatura non gli rendono affatto giustizia.
E poi vanno ricordati altri film, come “Via Castellana Bandiera” di Emma Dante, o “Piccola Patria” di Alessandro Rossetto, due film italiani che affrontano l'amore saffico. E se vogliamo uscire dalla pruderie, l'orgia saffica e omoerotica di “The canyons” di Paul Schrader, più noiosa di un vero film hardcore, anche se l'attore principale è, per l'appunto, uno dei più celebrati attori porno americani.
E invece l'immagine emotivamente più lirica e struggente del cinema "oltre gli steccati" è l'amore impossibile tra due donne nello splendido "Les terrassee" di Merzak Allouache, o dell'impossibilità di poter esibire l'amore "oltre" lo sguardo" sullo sfondo di un Algeri più fortezza che vera città.
E per una volta i moralisti non hanno avuto modo di discutere eventuali teorie o allergie alle cosiddette omo o lesbo-visioni. Anche utilizzando questi aggettivi, del resto, si finisce sempre per fare il gioco di quanti si aspettano di esprimere il loro delirante dissenso. Unica scelta labile, saper accettare il classicismo di “Philomena” come nuova e definitiva rivelazione sociale, in grado di liberare in qualche generazione lo strano disagio che c'è in noi. Ma è un'occasione per non lasciarsi plasmare dalla "diversità", tantomeno come codice visivo e formale di un cinema che si fa beffe della sua altezzosa trasgressione"
Notizia di oggi (giovedì 25 luglio 2013): il nuovo film di Hayao Miyazaki parteciperà in concorso al prossimo Festival del Cinema di Venezia. Manna dal cielo per noi italiani che probabilmente riusciremo a vederlo in tempi non troppo lunghi, visto l'affetto che la casa di distribuzione Lucky Red ha dimostrato in questi anni verso il maestro giapponese dell'anime.
"Kaze Tachinu" (questo il titolo originale del film, in italiano "Si alza il vento") parla della storia vera di Jiro Horikoshi, ingegnere aereonautico progettista dell'aereo da guerra Zero Fighter, utilizzato dai nipponici durante il secondo conflitto mondiale.
Ritorneranno i temi tanto cari a Miyazaki, in un film poco consigliato ai più piccini (a differenza di "Ponyo"). Di seguito il trailer in giapponese del film:
In Giappone "Kaze Tachinu" è uscito lo scorso 20 luglio registrando un incasso record di 9,6 milioni di dollari nei primi due giorni di programmazione e recensioni più che entusiastiche da parte dei critici nipponici e non.
Non ci resta che aspettare dunque, ne varrà la pena.
Innanzitutto un trailer (spiacente, ma è solo in nippo senza sub):
Una domanda che potrebbe sorgere spontanea è "Si vedrà mai questo miniserial in Italia?". Alquanto improbabile a meno di miracoli dell'ultima ora causati da improvviso impazzimento di qualche canale digitale che di punto in bianco vuole rischiare con un prodotto simile. Qui non siamo di fronte a personaggi famosi come Lynch (Twin Peaks) o Von Trier (The Kingdom), che solo con il loro nome unito alla qualità del prodotto possono garantire il cosidetto "rientro" da tale investimento.
Kyoshi Kurosawa non è certo un esimio sconosciuto, ma se usciamo dall'ambito prettamente cinefilo e in fondo neanche da quello, se si conosce poco o nulla del cinema orientale, ci troviamo un lavoro che avrà una distribuzione pressoché nulla a livello televisivo.
Di cinema non se ne parla proprio, considerata la durata considerevole di quattro ore e mezza (cinque ore circa quella televisiva) e decisamente anticommerciale a livello distributivo. Rischiare per un prodotto con una durata simile e spettacoli giornalieri ovviamente molto limitati, perdipiù per una pellicola orientale, è impensabile.
In vita mia ho imparato che non bisogna mai stupirsi di nulla, quindi sarei piacevolmente sorpreso se un distributore rischiasse i propri soldi per Shokuzai aka Penance (titolo internazionale per aiutare gli utenti). Non stupitevi però se al tizio in questione verrà applicato successivamente un TSO seduta stante.
Kyoshi Kurosawa con Shokuzai dimostra che se un regista ha talento e qualità lo può dimostrare anche in campo televisivo. La televisione non corrompe un bravo regista, anzi riesce ad essere ugualmente malleabile allo scopo prefissato senza snaturare le caratteristiche o le tematiche a lui collegate. Ed è questo anche il caso di Shokuzai.
Kurosawa è noto in Italia soprattutto per i J-horror come Kairo o lavori molto raffinati come Cure o Tokyo sonata. Shokuzai non si mostra come un lavoro a sè stante della carriera di questo regista, bensì molto coerente con la sua filmografia.
Shokuzai è il dramma esistenziale di cinque vite, cinque donne segnate da una tragedia, un peso opprimente che viene perpetrato nel tempo che annulla la vita di ciascuna di esse e le condanna ad una solitudine in cui lo squilibrio fra la colpa e il castigo rende l'espiazione un percorso doloroso ed angosciante. Kurosawa depura dalla componente horror questo suo lavoro televisivo arrivando all'essenza stessa del suo cinema, ai lati oscuri e nascosti dell'animo umano.
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