A giudicare dai film premiati alla 70esima edizione della mostra del cinema di Venezia - sempre a ridosso del Festival di Roma - la giuria di Bertolucci ha voluto gratificare un nuovo cinema Italiano, con un atteggiamento che a qualcuno è parso uno smacco narcisista, per diverse ragioni.
Il cast completo di Sacro GRA, di Gianfranco Rosi
Come sappiamo, ha vinto un documentario,
Sacro GRA, certamente non privo di meriti e guarda caso "stranamente" acclamato dalla stampa internazionale presente al Festival. Dopo tanto clamore per il tardivo riconoscimento del cinema italiano di genere i giurati hanno premiato una tipologia di cinema che, pur partendo da un realismo popolare - cfr.
Comizi d'amore di Pasolini - si allontana in modo preponderante dal consenso uniforme degli spettatori.
Ma in realtà qui si premia una certa unicità stilistica, diciamo "narrativa", lasciando da parte l'apoteosi pletorica di pubblico e critica di fronte ai cosiddetti film-tributo da Festival. In verità i film di genere, se vogliamo, un ruolo marginale in questa edizione del Festival l'hanno avuto. È il caso di
Wolf Creek 2 di Greg McLean, dell'orientale
Rigor Mortis di Juno Mak, horror in salsa Polanskiana, del gustoso remake nipponico "The unforgiven" di Lee Sangall, del controverso di Kim Ki-Duk, dell'iconoclasta
Why don't you play in hell? di Sono Sion, perfino dell'italiano
Zoran, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto.
L'impressione generale però è che anche tra gli addetti ai lavori l'improvviso interesse - dopo anni di repulsione anche ideologica - per la filmografia di Mario Bava, Vittorio Cottafavi o Jess Franco stia scemando. Diciamo allora che una certa stagione si è inaugurata con Tarantino e i suoi feticci cinefili, e magari si omologa tutta nel suo diffuso citazionismo.
Immagine tratta da Zoran, il mio nipote scemo
Ma chi conosce bene le mode dei Festival, sa già quanto certe scelte elettive corrispondano a un bisogno evidente del mondo del cinema e dei critici in parte, di esaltare la futura scoperta in attesa di nuove stimolanti "tendenze". E tutto questo per affossare l'ultima moda e crearne subito un'altra. Succede ovunque, anche nel cinema. Chi conosce le fisse maniacali della critica, sa già la fine che hanno fatto i temibili cineasti giapponesi, con il loro formalismo ora rigoroso ora smaccatamente reazionario (...opps, di genere). E che cosa è rimasto del naturalismo sociale del cinema arabo, con quegli specchi comunicativi tipo Antonioni dove il Mereghetti di turno auspicava di rigenerarsi ascoltando la poesia di un microcosmo islamico che, ipocritamente, esaltiamo e combattiamo? E oggi i critici che si affannano a dirci che
Holy motors di Leo Carax è il più grande film dell'anno hanno comunque interiorizzato un'idea di cinema che, partendo dalla sperimentazione, colpisce il "suo" immaginario come prefazione dell'Esperienza: cinema che diventa paradigma ossessivo dell' "Uomo con la macchina da presa".
Per molti è qualcosa di rivoluzionario che a ben vedere respiriamo da un centinaio di anni.
E non a caso autori come Al Pacino o Kitano hanno messo abilmente in risalto l'effimera affettazione o la grandezza concettuale di questi mezzi.
Il documentario vanta però illimitate risorse, a meno che non vengano tradite dalle intenzioni piuttosto generiche di supportarlo a ogni aspetto culturale, popolare, ideologico. La vittoria di "Sacro GRA" sancisce davvero la riconciliazione del cinema verso una ristretta elite o esiste dell'altro? Magari, chissà, un bisogno di nobilitare un cinema italiano altrimenti mediocre e remissivo, omertoso e incapace di graffiare?
Non è un caso che un altro film premiato punti nuovamente sul fronte monolitico della tendenza dei festival, ovvero la massima attenzione riservata alla critica a opere ermetiche o spiazzanti come
Stray dogs di Tsai-Ming Liang.
E al bel film di Rosi è stato affiancato un altro premio per la miglior attrice protagonista di
Via Castellana Bandiera, un'altra opera sul potenziale extra-urbano dei margini delle nostre città.
Altro il risalto dato dai giurati del Festival alla "sensazione". Come il "gruppo di famiglia in un int(f)erno del greco
Miss Violence di Avranas. Un film che ricompensa - o delude, dipende - chi dal cinema pretende sia un certo rigore espressivo sia una forte presa emotiva.
E pertanto sono stati "giustamente" ignorati il classicismo di
Philomena di Frears, il radicalismo docu-fiction di
The unknown known, il concettualismo di
Les terrasses (un Sacro GRA ideologico e acuto girato ad Algeri), o la poetica minimalista e un po' compassata di Philippe Garrell (ormai piu' erede di Sautet che di Godard).
C'è spazio solo per un inno alla vita trapassata (
Still life di Uberto Pasolini), o per meglio dire alla dignità perduta della morte.
La giuria presieduta da Bernardo Bertolucci ha fatto comunque piazza pulita dei meccanismi settoriali svelando una macchina di cinema che cerca consensi soprattutto tra gli amanti della tecnica.