Il Leone d'oro alla carriera quest'anno è stato assegnato a William Friedkin, uno degli esponenti di punta della cosidetta New Hollywood degli anni settanta che aveva come altre punte di diamante autori come Coppola, Hopper, Scorsese, De Palma, Lucas e Spielberg, cioè il fior fiore degli autori americani formatosi tra la factory di Roger Corman e la gavetta televisiva. Autori che hanno avuto la capacità di imporsi all'interno delle majors hollywoodiane, cercando di ottenere, riuscendoci, malgrado gli alti e bassi della loro carriera, uno status di autore indiscusso.
William Friedkin è un regista che si è formato nel campo dei documentari, cifra molto riconoscibile nei suoi lavori. Ha ottenuto molto agli inizi della sua carriera attraverso un percorso che ha bruciato letteralmente le tappe fino all'Oscar di "The French Connection" (Il braccio violento della legge) nel 1971, dando vigore e una spinta propulsiva fortissima per tutto il genere poliziesco, sia a livello cinematografico che a livello televisivo. Un genere, quello poliziesco, che grazie proprio a questa pellicola ha visto conoscere uno dei suoi migliori decenni in assoluto per qualità e quantità di film.
Certamente senza questo film i filoni polizieschi e poliziotteschi italiani forse non sarebbero nemmeno esistiti.
Cosa dire poi dell'horror? L'importanza de L'esorcista è innegabile.
Sull'industria hollywoodiana si può dire tutto ed il contrario di tutto, ma va dato atto che quando sentono odore di soldi, le majors diventano molto sensibili e osservare come piccole pellicole a basso costo come La notte dei morti viventi, Non aprite quella porta o L'ultima casa a sinistra, tanto per fare degli esempi, ottenevano incassi stupefacenti, si è agito di conseguenza e "L'esorcista" è stata la pellicola che ha sdoganato defintivamente il genere horror, confinato fino a quel momento nel panorama indipendente, per sbarcare in pompa magna nella serie A dell'industria cinematografica.
Un regista di successo fino a quel momento, forse il più in ascesa dopo Francis Ford Coppola se consideriamo quel decennio. Poi venne "Sorcerer", Il salario della paura e per Friedkin cambiò tutto, come una punizione per quell'ascesa da molti considerata irresistibile e prematura.
Non è stato un caso la scelta de "Il salario della paura" come pellicola per celebrare il premio al regista americano. Più volte Friedkin ha ribadito il profondo legame affettivo verso questo suo film così sfortunato. Uno spartiacque che purtroppo ha costituito un declino altrettanto irreversibile come la sua ascesa. Intendiamoci, un declino puramente commerciale perché la qualità di molte sue pellicole successive raggiunge livelli straordinari.
Lavori controversi e maledetti come Cruising, le nuove frontiere del poliziesco nel capolavoro Vivere e morire a Los Angeles, lavori letteralmente ripensati (la duplice versione di Rampage), pellicole sottovalutate come Regole d'onore e di estrazione teatrale (Bug e Killer Joe), rappresentano il curriculum di un autore dalla classe cristallina che ha lasciato la sua impronta anche nella sfortuna, come appunto con "Il salario della paura", che ha usufruito nell'occasione della Mostra di Venezia di un ottimo restauro che ha potenziato a livelli straordinari il comparto sonoro. Gli applausi sinceri di fine proiezione ha leggermente emozionato Friedkin, probabilmente il giusto riconoscimento ad un'opera così bistrattata.
Sembra inspiegabile ai giorni nostri come un film del genere sia stato un fallimento commerciale. Il remake di "Vite vendute" di Clouzot riesce ad essere all'altezza di quel capolavoro, senza tuttavia superarlo.
E' improntato verso una rappresentazione realistica che regala squallore, degrado e azione. Basti pensare alla traversata sul ponte di corde sospeso, con maltempo e camion carichi di nitroglicerina, su come si può costruire una scena carica di tensione.
Realismo si è detto, ma anche squarci visionari quasi lunari e irreali nell'ultima tappa del viaggio di Scanlon/Scheider che la colonna sonora dei Tangerine Dream valorizza in maniera straordinaria.
Scanlon, ultimo sopravvissuto di quattro uomini, il laido Rabal, la fisicità di Amidou e il pragmatismo di Cremer. Quattro uomini dal Destino già segnato, quattro uomini già morti prima di morire.
Probabilmente la mancanza di una vera e propria star (al posto di Scheider ci doveva essere Steve McQueen) è la ragione più plausibile del fallimento del film e allo stesso tempo ha segnato in negativo il prosieguo della carriera di Friedkin.
Piccola nota a margine: la scorsa edizione della mostra fu proiettato nell'ambito del Leone d'oro alla carriera a Francesco Rosi, Il caso Mattei. A distanza di un anno questo film è uscito in dvd? Ma neanche a pensarci, ed è un film italiano...
Anche Il salario della paura non è mai apparsi sugli scaffali di vendita in dvd o blu-ray. Solo i pochi fortunati che hanno visto il film alla Mostra avranno avuto il privilegio di vederlo? In teoria se un film italiano dal nome blasonato come "Il Caso Mattei" ha avuto un destino simile, figuriamoci per una pellicola straniera.
Mi raccomando, ricordatevi che la pirateria è un reato.
Innanzitutto un trailer (spiacente, ma è solo in nippo senza sub):
Una domanda che potrebbe sorgere spontanea è "Si vedrà mai questo miniserial in Italia?". Alquanto improbabile a meno di miracoli dell'ultima ora causati da improvviso impazzimento di qualche canale digitale che di punto in bianco vuole rischiare con un prodotto simile. Qui non siamo di fronte a personaggi famosi come Lynch (Twin Peaks) o Von Trier (The Kingdom), che solo con il loro nome unito alla qualità del prodotto possono garantire il cosidetto "rientro" da tale investimento.
Kyoshi Kurosawa non è certo un esimio sconosciuto, ma se usciamo dall'ambito prettamente cinefilo e in fondo neanche da quello, se si conosce poco o nulla del cinema orientale, ci troviamo un lavoro che avrà una distribuzione pressoché nulla a livello televisivo.
Di cinema non se ne parla proprio, considerata la durata considerevole di quattro ore e mezza (cinque ore circa quella televisiva) e decisamente anticommerciale a livello distributivo. Rischiare per un prodotto con una durata simile e spettacoli giornalieri ovviamente molto limitati, perdipiù per una pellicola orientale, è impensabile.
In vita mia ho imparato che non bisogna mai stupirsi di nulla, quindi sarei piacevolmente sorpreso se un distributore rischiasse i propri soldi per Shokuzai aka Penance (titolo internazionale per aiutare gli utenti). Non stupitevi però se al tizio in questione verrà applicato successivamente un TSO seduta stante.
Kyoshi Kurosawa con Shokuzai dimostra che se un regista ha talento e qualità lo può dimostrare anche in campo televisivo. La televisione non corrompe un bravo regista, anzi riesce ad essere ugualmente malleabile allo scopo prefissato senza snaturare le caratteristiche o le tematiche a lui collegate. Ed è questo anche il caso di Shokuzai.
Kurosawa è noto in Italia soprattutto per i J-horror come Kairo o lavori molto raffinati come Cure o Tokyo sonata. Shokuzai non si mostra come un lavoro a sè stante della carriera di questo regista, bensì molto coerente con la sua filmografia.
Shokuzai è il dramma esistenziale di cinque vite, cinque donne segnate da una tragedia, un peso opprimente che viene perpetrato nel tempo che annulla la vita di ciascuna di esse e le condanna ad una solitudine in cui lo squilibrio fra la colpa e il castigo rende l'espiazione un percorso doloroso ed angosciante. Kurosawa depura dalla componente horror questo suo lavoro televisivo arrivando all'essenza stessa del suo cinema, ai lati oscuri e nascosti dell'animo umano.
Questo è il link per leggere lo speciale, se siete interessati.
Storicamente l'Academy ha la tendenza a premiare la stessa opera per i premi più importanti, cioè l'Oscar al miglior film e alla miglior regia sono spesso andati ad un unico film. Non sono mancate eccezioni, tuttavia, e l'ultimo caso di premio "disgiunto" risale al 2006, quando l'oscar al miglior film andò a Crash di Paul Haggis, mentre quello alla miglior regia ad Ang Lee per Brokeback Mountain. Prima del 2006 era accaduto due volte, se consideriamo solo il primo decennio di questo secolo: nel 2001 con "Il Gladiatore" (film) e Soderbergh (regista di "Traffic") e nel 2003 con Chicago (film) e Polanski ( regia per Il pianista). Dopo il 2006, non più, avendo l'Academy ripreso la tendenza ad attribuire le principali statuette alla stessa opera.
Potrebbe essere l'anno buono per riproporre un premio disgiunto?
Vediamo le rose dei candidati:
MIGLIOR FILM
"Zero Dark Thirty"
"Amour"
"Vita di Pi"
"Lincoln"
"Django Unchained"
"Argo"
"Beasts of the Southern Wild"
"Silver Linings Playbook"
"Les Misérables"
MIGLIOR REGIA
Michael Haneke per "Amour"
Benh Zeitlin per "Beasts of Southern Wild"
Ang Lee per "Vita di Pi"
Steven Spielberg per "Lincoln"
David O. Russell per "Silver Linings Playbook"
Se il premio rimanesse congiunto bisognerebbe quindi escludere a priori Django Unchained, Argo, Les Miserables e Zero dark thirty.
C'è lo Spielberg di Lincoln che di oscar però ne ha già vinti. Ang Lee con Vita di Pi è sulla falsariga di Spielberg, non tanto per i numeri quanto per l'aver ha già vinto l'oscar come miglior regista e come miglior film, sia pure straniero, con La tigre e il dragone.
Da tenere conto che solo Eastwood ha saputo fare per due volte l'accoppiata film/regia dagli anni novanta ad oggi (Gli spietati e Million dollar baby). E potevano essere tre, se Gran torino non fosse stato escluso dalle cinquine dopo aver fatto incetta ai Golden Globe.
In gara anche gli outsider. Haneke su tutti. Il cineasta austriaco si trova nelle stesse condizioni di Benigni con La vita è bella come nomination, perlomeno quelle più importanti. Difficile quindi che torni a mani vuote e L'oscar come miglior film straniero dovrebbe essere in teoria una formalità. Meno facile il discorso delle categorie assolute, perché premiare Amour significherebbe sfatare un tabù, l'ultimo dell'Academy, cioè quello di premiare come miglior film una pellicola straniera. The artist l'ha sfatato in parte, essendo un film muto, ma per Haneke la storia è ben diversa: un film straniero, non parlato in lingua inglese; una vittoria del genere sarebbe un miracolo e in fondo queste nomination sono una sorta di riparazione al fatto che un capolavoro come Il nastro bianco rimase scandalosamente a bocca asciutta.
Il lato positivo e Re della terra selvaggia sono delle vere incognite, e costituirebbero una gran bella sorpresa in caso di vittoria.
Certamente nel caso di due pellicole differenti per miglior film e regia i giochi si complicherebbero ulteriormente, perché le carte andrebbero a mischiarsi con combinazioni imprevedibili. Ma per vostra fortuna io qui mi fermo, ma se volete esprimere la vostra, fate pure.
Ben "c'ho solo 'na faccia" Affleck. Sulle sue capacità recitative molti hanno mostrato più di una perplessità, che non sono mai svanite malgrado una Coppa Volpi vinta al Festival di Venezia per Hollywoodland. Forse un po' generosa, ma tutto sommato rimane probabilmente la sua migliore intepretazione della carriera.
Altro discorso, opposto al Ben Affleck davanti alla macchina da presa, è il Ben Affleck dietro la macchina da presa. Con Argo, che rappresenta il suo film più compiuto, egli è bravissimo nelle vesti di sceneggiatore, di regista e finalmente anche di attore (in questo caso perfettamente funzionale al ruolo di agente segreto, quindi meno lascia trasparire espressioni sul viso meglio è). Bravura che quest'anno ad Affleck è valsa la candidatura all'Oscar sia per la sceneggiatura (già vinto nel 1998 insieme all'amico Matt Damon per Will Hunting) che nella categoria di “miglior film”.
Argo in questo suo richiamo al cinema (fanta)politico degli anni settanta, che ha sfornato delle signore pellicole, potrebbe rappresentare il giusto compromesso che non farebbe certo gridare allo scandalo una sua eventuale vittoria. Un film molto teso e coivolgente che offre inoltre una riuscita miscela fra storia e fiction, sulla capacità del cinema di far sognare e ingannare.
Un film che unisce un intrattenimento intelligente e non poche stoccate ad un certo modo di fare politica estera del governo americano.
Da considerare inoltre che ha fatto trovare d'accordo sia la critica che il pubblico, cosa non da poco e tutt'altro che frequente. Forse il compromesso è troppo soddisfacente (ammesso che lo sia) per premiarlo?
Rispettivamente classe '31 e classe '29, Paolo e Vittorio Taviani si possono certamente definire registi con una onorata carriera alle spalle. Certo non sono i primi nomi che vengono in mente in un'ipotetica classifica dei migliori cineasti italiani di sempre, ma è indubbio che la loro carriera non è stata avara di soddisfazioni, in primis la Palma d'oro a Cannes per Padre padrone.
Ad ottant'anni suonati dopo una carriera di tutto rispetto, cosa ti combinano? A dispetto di chi li considerava "bolliti" (e anche chi scrive ci si mette, facendo pubblica ammenda), lasciano la classica pellicola per passare al digitale e con una troupe scarna ma perfettamente funzionale all'ambientazione, dirigono quello che probabilmente è stato il miglior film italiano della precedente stagione cinematografica: Cesare deve morire.
Con l'ausilio fondamentale di Fabio Cavalli, vero e proprio tramite tra gli attori carcerati e i Taviani, il carcere di Rebibbia diventa l'immenso palco della tragedia shakespiriana in cui gli orrori del proprio passato sono esorcizzati entrando nei personaggi della piece teatrale e creando una forte empatia tra spettatori e film. Una pellicola che coinvolge e sconvolge. Documentario, teatro e cinema sono fusi in maniera perfetta. Il carcere rimane il luogo di punizione per eccellenza, ma può essere il luogo della redenzione dello spirito umano. La scoperta dell'Arte, assorbirla, può lenire gli orrori di un passato fatto di scelte sbagliate ed errori a volte non più riparabili. Una speranza di rinascita all'interno delle sbarre.
E' notizia di poco tempo fa che Cesare deve morire ha ricevuto tre canditature agli EFA europei (miglior film, miglior regia, miglior montaggio). Altre piccole soddisfazioni per i fratelli di S.Miniato. La concorrenza tuttavia è fortissima, Amour di Haneke in primo luogo, il grosso riscontro perlomeno dal punto di vista commerciale di Quasi amici della coppia Nakache/Toledano, Il sospetto di Vinterberg, Shame di McQueen e l'outsider Barbara di Christian Petzold.
Concorrenza che si ripresenterà insieme ad altri rappresentanti degli altri continenti per ciò che riguarda la successiva notte degli Oscar.
Cesare deve morire è stato scelto per rappresentare i colori italici alla prossima parata di stelle di Los Angeles nella categoria del miglior film straniero. Speranze? Non molte ed in fondo, a livello personale, vado anche di scaramanzia considerato che l'Italia è ancora scottata dall'esperienza negativa di Gomorra, Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes (ad ex aequo con Il Divo di Sorrentino) e dopo aver fatto incetta di premi proprio agli EFA europei. Risultato: Gomorra non è entrato nemmeno nella cinquina finale creando un certo stupore, visti gli altri componenti di quella cinquina.
Con il film dei Taviani è consigliabile volare basso. Arrivare alla vittoria dell'Oscar sarebbe un risultato quasi miracoloso, fare parte della cinquina finale per aggiudicarsi la statuetta sarebbe già un successo.
Certamente con questa pellicola troverebbero pane per i loro denti (e lo era anche per Gomorra) tutti coloro che periodicamente accusano il cinema italiano di eccessivo provincialismo.
Un'accusa che in qualche caso è talmente risibile che, prendendo in esame certa stampa ed esponenti del cinema estero, ci vedono ancora al livello di pizza e mandolino.