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Long live Californication

Pubblicato il 09/04/2013 10:46:13 da K.S.T.D.E.D.


Ed anche la sesta stagione di “Californication” è andata. I soliti 12 episodi da poco meno di mezz'ora ciascuno che lasciano sempre quel sapore amaro del troppo poco. Ogni stagione va via come niente, con una leggerezza tale che si potrebbe tranquillamente vedersela d'un fiato. Ammetto di averla criticata all'inizio, con un fare anche po' idiota, per un protagonista che al netto del contesto generale appare poco credibile e troppo costruito. Peccato però che tutto il resto, il contesto appunto, sia esattamente identico, puntando su un'esagerazione continua che non si preoccupa mai di rendersi credibile. E, anzi, se sto spendendo queste due righe è proprio per quel carattere fuori di testa che non viene mai meno, e non nell'arco di un'intera stagione ma anche nell'arco della singola puntata. Non è un capolavoro, o una roba che verrà ricordata, né vuole esserlo, tuttavia gli sceneggiatori meritano più di qualche elogio per la capacità di scrivere situazioni sempre allucinanti e provocatorie, proporre dialoghi serrati e ricercati ma sempre indecenti, dare un ritmo alla narrazione che non conosce mai momenti di stanca. Certo, al ritmo contribuiscono fortemente, come è giusto che sia, anche regia e montaggio, di stampo chiaramente videoclipparo, ed hanno quindi i loro meriti, ma ciò che merita più di quanto possa sembrare resta l'inventiva nella scrittura del prodotto. Potrebbe infatti apparire semplice o comunque non meritevole quanto realmente è, perdendosi nel tutto durante la visione e dando per scontata la realtà un po' fuori dagli schemi, tuttavia a mente fredda non si può fare a meno di riflettere sul fatto che ogni singolo personaggio, ogni singola parentesi, ogni singola dinamica è per l'appunto fuori di testa, ma mai esagerata fino ad apparire banale o forzata. Giusto il tempo di abituarsi un attimo alla dimensione proposta, che scorre tutto via così, come se fosse normale. Ideatore della serie e principale sceneggiatore è Tom Kapinos, che ha lavorato incredibilmente come produttore esecutivo e sceneggiatore di “Dawson's Creek”, cosa che se per certi versi, considerata la quantità di indecenza, sesso, droghe ed esagerazioni varie in “Californication”, sembra quanto meno strana, per altri appare giustificata dagli anni di clausura e correttezza adolescenziale nella quale Kapinos sarà stato costretto per anni, dietro i pianti di Dawson sul pontile (e diciamocelo, pure dei nostri)

Bravissimi gli attori, ottime le musiche, funzionali come si scriveva regia e montaggio, ma non ho sinceramente alcuna voglia di parlare di questi aspetti, volevo scrivere giusto queste due stronzate per complimentarmi con l'ideatore della serie e gli sceneggiatori che gli girano attorno. Speriamo duri il più possibile, riesce ad alleggerire 30 minuti della tua giornata come pochi prodotti sanno fare.

Categorie: Serie TV riflessioni sparse, Serie TV sciocchezze

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Restituiamo agli zombie il loro ruolo

Pubblicato il 07/11/2012 08:39:05 da K.S.T.D.E.D.


E poi così, di colpo, dopo 2 stagioni intere, o quasi, una serie che ha mostrato fin a quel momento limiti evidenti e debolezze di vario tipo, generando nello spettatore nient'altro che noia, irritazioni finanche cutanee e rabbia per l'enorme occasione sprecata, dimostra che in realtà non è che non fosse in grado di rendersi valida, semplicemente, forse, non le andava. Ho sempre criticato The Walking Dead con molta convinzione. E con la seconda stagione, poi, ho rincarato la dose ogni volta che me n'è capitata l'occasione. Era infatti diventata una sorta di Beautiful in un mondo zombiano senza zombie. Quest'ultimi erano quasi del tutto spariti e della trama non restavano che le dinamiche interpersonali tra caratteri di dubbio interesse, delineate attraverso dialoghi quanto meno deboli. Sono arrivato ad ipotizzare che lo scopo primo dei creatori fosse invero quello di metter su una critica al mondo odierno tratteggiando gli umani come i veri zombie, e gli zombie come la giusta cura, come coloro che avrebbero risollevato le sorti del mondo a forza di morsi. Si sarebbe spiegato così il perché della ormai quasi totale assenza di uccisioni violente di walkers e il perché della gestione così urticante dei personaggi.
Non abbandono mai una serie che ho cominciato o di cui ho visto più di qualche puntata. Deve sfinirmi sul serio perché io lo faccia. “The Walking Dead” è riuscita nell'impresa. A quattro puntate dalla fine della seconda ho lasciato, non ce la facevo più. Volevo mordere Convulsion-Shane, l'uomo che fa dieci scatti con il capo nel dire una sola frase. Di due parole. Volevo uccidere Rick e le sue pippe un tanto al chilo, la sua mancanza di carattere. Volevo picchiare sua moglie, per evitare di far nascere il bambino che portava in grembo in quel mondo di zombie vivi. Volevo prendere a pedate la testa del vecchio, perché parlava troppo, e quella di Hershel, perché semplicemente era troppo stupido per non morire. Davvero, ero arrivato al limite. Questo mesi addietro. Poi un paio di giorni fa decido di riprendere in mano le ultime 4 puntate della stagione, anche in vista dell'inizio della terza. Son sincero, lo avevo fatto con l'unica intenzione di venire qui a sfogarmi, scrivendone di ogni, e per riderci poi su, insieme. Ed è successo l'impossibile. Gli ultimi episodi mi son piaciuti; intendiamoci, qualche cazzata qua e là c'è sempre, ché altrimenti non sarebbe TWD, ma mi son piaciuti.
In appena 120 minuti la serie dimostra, come scrivevo inizialmente, che in realtà non era incapacità la sua, ma pigrizia o qualcosa di simile. Dimostra, in appena 120 minuti, che le posizioni dei vari personaggi, i loro caratteri non erano poco interessanti o poco credibili, né poco condivisibili e realistici, ma solo sviluppati male, senza la giusta introspezione. Il loro fascino potenziale cadeva sempre più rovinosamente sotto i colpi insistenti di dialoghi banali e di sequenze tutt'altro che efficaci. Ed è così che Rick inizia a tirar fuori un po' di carattere tra la fine della seconda stagione e l'inizio della terza; che il vecchio affianca un po' di pathos (trasmettendo di conseguenza una certa empatia) alle sue solite menate, che diventano pertanto meno menate e più riflessioni circostanziate e funzionali al racconto; che la cartolina un po' "Beautiful" inizia a strapparsi e il confine buoni/cattivi inizia a scemare; che Hershel tira fuori un po' di palle e comincia ad uccidere zombie con frasi ignoranti ma molto fighe tipo “Venite qui!!” manco fosse Rambo; che Carl inizia a smettere di comportarsi come un adulto e comincia finalmente a fare stronzate da bambino che più semplicemente si crede un adulto; che Shane, addirittura, diviene miracolosamente un personaggio di spessore. Dopo essere stato irritante nella sua pochezza per svariate puntate, fa un discreto salto di qualità con la fine della puntata 2x10: neanche 30 secondi, nessun dialogo, solo una serie di ideali campi-controcampi tra Shane e il se stesso riflesso in uno zombie solitario che vaga con un andamento che quasi sembra una ballata triste; il tutto accompagnato dall'ottima “Civilian” degli Wye Oak. La scena è inaspettatamente potente ed è il simbolo della differenza evidente di qualità tra la serie come la conoscevamo e gli ultimi episodi. “E ci voleva tanto?”, vien da chiedersi.



E così la gente comincia a morire seriamente, nel senso che le morti si sentono, perché i personaggi generano ora un minimo di empatia in più. Gli zombie tornano sullo schermo, tornano a mangiare gente, tornano ad essere il nemico anche per lo spettatore. Si accennava in precedenza che non si sta scrivendo affatto della ripresa del secolo, ma è giusto sottolinearla comunque, così come si sottolineano i limiti quando ci sono. La terza stagione è cominciata da poco e sembra avere anch'essa il suo ritmo, sembra essere discretamente godibile. Magari è stato un sussulto lungo qualche puntata, magari no. Speriamo di no.

Torna Supernatural. Lo fa sempre.

Pubblicato il 24/10/2012 08:34:03 da K.S.T.D.E.D.


Un angelo in crisi esistenziale da senso di colpa e i leggendari Leviatani in giro per gli Stati Uniti con lo scopo di trasformare gli statunitensi in cibi succulenti, perché, cito testualmente, “they're fat”. Uno si potrebbe chiedere, tra le altre cose, da dove siano usciti; ma dal Purgatorio, è chiaro. Il Purgatorio, infatti, non solo esiste, ma in determinate circostanze puoi pure entrarci e visitarlo, anche se per farlo devi saper staccare teste e sbudellare gente con coltellacci mica da ridere. Del resto, se nelle precedenti stagioni si era fatta una capatina all'Inferno, e pure una passeggiata in Paradiso, Il Purgatorio non poteva essere off-limits. E infatti non lo è. E' grigio, nel caso ve lo steste chiedendo, tutto grigio. E al suo interno si fa solo a botte.
E quando si combatte, nella vita, non è come nel bagno turco de “La promessa dell'assassino” di Cronenberg, no. Al contrario, è tutto molto più figo. Hai una colonna sonora che ti parte in automatico quando stai per andare a spaccare il culo al cattivo di turno. E non una qualsiasi, una di tutto rispetto. Se per esempio stai per buttarti con una certa cazzutaggine nella fossa dei leoni, “Born to be Wild” degli Steppenwolf viene sparata a tutto volume da casse invisibili ma potentissime piazzate qua e là vicino al luogo dello scontro, e tu ti gasi tantissimo. E vinci. E non è vero che immortale significa che qualcuno o qualcosa non può morire, ma solo che devi ancora scoprire come si fa, magari semplicemente perché non ti è ancora capitato tra le mani Il Verbo di Dio che ti spiega come fare. Perché esiste pure quello, insieme ad una marea di altre cose.
Quella che ti propinano in TV, come quella che vivi tutti i giorni, non è la vita reale; quando muori, esempio come un altro, non è vero che muori, finisci davvero in Paradiso (o altrove a seconda della tua condotta in vita). Non è un'invenzione religiosa; tutti quei sermoni ascoltati in chiesa non sono falsi. O perlomeno non totalmente. Si, perché “Supernatural” ci insegna che anche il Paradiso esiste ma che al suo interno non è poi tutto rosa e fiori, ci sono fazioni di angeli che se le menano di santa ragione. E però è emozionante, no? Se raccontassero tutta la verità io in chiesa infatti ci andrei volentieri. Comunque, dicevo, non muori veramente. Non solo nel senso che vai da qualche altra parte, ma proprio nel senso che se sei abbastanza in gamba dal Paradiso (o Inferno o Purgatorio) puoi uscire e tornare alla tua vita di tutti i giorni, beffando la Morte. Bisogna del resto considerare che la Morte, ci insegna sempre "Supernatural", non è solo un dato di fatto, la Morte è un essere pensante, e come tutti gli esseri pensanti può sbagliare. Se vi interessa, c'ha una Cadillac bianca la Morte, se ne va in giro con quella. Quindi se la vedete sappiate che potreste schiattare da un momento all'altro (vabbè che poi potete tornare...). Ah, altro indizio, quando cammina la Morte va a ralenti, e non perché la rende figa sullo schermo, è proprio perché va a ralenti. Altro mito da sfatare, quest'ultimo: quella del ralenti non è una tecnica da post-produzione, è una capacità che puoi usare quando diventi abbastanza figo, per l'appunto. E immagina che spettacolo se nel mentre ti capita tra le mani il martello di Thor, com'è successo a Sam. Eh, perché esistono anche tutti gli altri dei, ovviamente. Non è che essendoci i principali elementi cristiani allora esiste solo Dio. Nella prossima stagione uno tra Sam e Dean potrebbe finire nel Valhalla, e lì sì che di canzoni rockettare ne partirebbero in quantità industriali. Tipo “Locomotive Breath”, che accompagna il riepilogo ad inizio ottava stagione. Già, ben otto stagioni. E potrebbero essercene altre otto, non preoccupandosi “Supernatural” di qualsivoglia credibilità. L'importante è che si vada avanti tra esagerazioni sempre maggiori, coscienza della propria appartenenza all'intrattenimento più privo di impegno di sempre e fantastiche ambientazioni canadesi. Guardatela, vi aprirà gli occhi su come funziona il mondo, non sarà un libro di fisica a farlo.

Io ho gli anni che ho

Pubblicato il 09/10/2012 08:40:16 da Jellybelly
Allora, sabato 22 settembre 2012 ero all’Ippodromo delle Capannelle a Roma per assistere, tutto emozionato, al concerto dei Radiohead. Che detta così sembra una cosa facile, e invece arrivarci è stata un’impresa, con mezza Roma stipata sull’Appia, scene di panico perché si avvicinava l’inizio del concerto e non c’era un buco libero dove lasciare la macchina per chilometri e chilometri, stazioni dell’Agip prese d’assalto perché quell’ampio spiazzale in effetti è un parcheggio perfetto, e ‘sticazzi se la gente protesta, c’è il concerto dei Radiohead, sta per cominciare, la benzina la metti al Tamoil.

E poi, una volta parcheggiata la macchina, giù a correre a rotta di collo per raggiungere l’Ippodromo, maledicendo tutti i morti del malnato organizzatore dell’evento che ha preferito l’ignobile Ippodromo ad un più comodo Palasport, finché non ho raggiunto i varchi e non sono entrato, sudato e felice, a metà secondo brano in scaletta (“Bloom”, for the records). A quel punto mi giro alla mia sinistra, tutto affannato, e vedo affianco a me una ragazzina piccoletta, biondina, con la treccia ed uno zainetto in spalla che ancheggia tutta convinta sulle note dei Radiohead. “Questa l’ho già vista”, penso. Dopo una seconda occhiata mi rendo conto che è Carolina Crescentini.



Carolina Crescentini! L’unica attrice al mondo che se le dici “Come cagna maledetta sei perfetta” le stai facendo un pertinente complimento sulle sue capacità recitative! Carolina Crescentini. Lì per lì ci sono in realtà rimasto un po’ male: uno la Crescentini se la immagina slanciata torreggiante dal suo metro e settantacinque di vamp del tubo catodico (dalla mia prospettiva chiunque sia alto almeno 1,75 torreggia (forse la mia prospettiva non è granché attendibile (ma mia madre dice che sono bello lo stesso))), e invece ha le dimensioni di una statuetta del presepe un po’ troppo cresciutella.

Dopo questo iniziale attimo di smarrimento, mentre Thom Yorke si lamentava sulle note di “Weird fishes”, la mia mente è stata invasa da ameni ricordi sulla carriera di Carolina Crescentini (che intanto continuava a dimenare la propria capoccetta a ritmo di musica, ma neanche tanto). E così ho ripensato al suo esordio cinematografico con “H2Odio” di Alex Infascelli, il film più brutto della storia del cinema italiano, in cui un gruppo di mentecatte si rifugiava in un’isola deserta per sottoporsi ad una dieta a base di sola acqua salvo poi essere trucidate da una di loro che si incazza abbestia perché le scopre a mangiarsi i buondì invece della Sangemini. Ma non era colpa sua, è che aveva la sindrome del gemello evanescente, diagnosticatale dallo psicanalista Platinette.

Insomma dopo un esordio del genere una avrebbe pure il diritto di deprimersi, e invece Carolina ha perseverato ed ha inanellato un altro paio di cacate tipo “Notte prima degli esami - Oggi” e “Cemento armato”, prima di essere chiamata ad interpretare il ruolo che la consacrerà ad icona: quello di Corinna Negri, la protagonista della meravigliosa prima stagione della serie TV “Boris”.

E’ la svolta della sua carriera: da allora, Carolina Crescentini per tutto il pubblico italiano diventerà la cagna maledetta, etichetta che, va detto, lei non farà nulla per scrollarsi di dosso, perseverando con filmacci orrendi in cui recita in modo approssimativo (a volerle bene), tipo “Generazione 1000 euro” o “Parlami d'amore”.

Epperò che ci volete fare, a me la Crescentini è sempre stata simpatica, e dopo aver visto che le piacciono i Radiohead mi sta ancora più simpatica, ed avendo constatato che è alta un metro e molto entusiasmo la mia simpatia nei suoi confronti è cresciuta ancora di più, perché non dev’essere facile fare la vamp figona se madre natura t’ha fatta piccoletta, eppoi perlomeno lei un bel personaggio è riuscito a regalarcelo, che di questi tempi non è mica poco, dando peraltro prova di una certa dose di autoironia (come peraltro Pietro Sermonti/Stanis La Rochelle, altro cane pazzesco).

E allora viva la Crescentini, che se la ribecco pure da Morrissey a ‘sto giro le chiedo l’autografo.

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