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Lucien Cordier, apatico tutore della legge in un remoto e sperduto angolo dell'Africa coloniale, è puntualmente sbeffeggiato dalla moglie Huguette, stanca di un simile straccione di marito e sfacciatamente attaccata al presunto fratello Nono, col quale giace impudicamente davanti agli occhi del coniuge peraltro immunizzato dalla più profonda indifferenza. In strada, fra la ressa delle persone, Lucien viene ugualmente irriso dai due tenutari del bordello, Le Péron e Leonelli, che lo scherniscono in ogni modo trattandolo come un burattino. Anche nell'ufficio del principale, il sergente Chavasson, responsabile del capoluogo, Cordier è oggetto di disonorevoli dileggi. Solo la graziosa Rose, moglie del brutale negriero Mercaillou, sembra prendersi cura di lui concedendogli senza difficoltà il proprio corpo delizioso. Almeno fino all'arrivo della nuova maestra, Anne, altrettanto graziosa ma non tanto cinicamente amorale come Rose, eppure anche lei inspiegabilmente attratta da quest'individuo che nasconde dietro la propria codardia soltanto una forma di universale disillusione. Il loro incontro fortuito sul treno dà luogo a un'intesa inaspettata, dietro la quale si indovina in lei l'intenzione ferma di penetrare oltre la scorza di pusillanimità di Cordier, in verità tutt'altro che spregevole e incolto. Quando lei, all'arrivo, gli regala "Vol de nuit" di Saint-Exupéry, lui fa spallucce e più avanti le dirà di non riuscire a leggerlo, ma lei non potrà fare a meno di insistere nel ridestare quella coscienza rimasta troppo a lungo sopita ma non del tutto annullata. E il risveglio si rivela fin troppo repentino e ravvicinato nel tempo.
Il primo atto d'autocoscienza è l'uccisione a bruciapelo dei due protettori, i primi della lista di persecutori che Lucien s'è mentalmente preparato con una lungimiranza strategica stupefacente.
Poi di seguito elimina il negriero marito di Rose e il servitore Vendredi, e via via si vendica di tutti coloro che lo avevano maltrattato, sentendosi sempre più pervaso da uno spirito di missione giustizialista. Anne intuisce quanto di irresponsabilmente messianico si agiti in quest'uomo dall'aria innocua, anzi contrita, quest'uomo che addirittura la respinge poiché si sente sudicio di fronte a lei, di un sudiciume intimamente connesso con la propria mediocrità. Lo illumina una consapevolezza di sé che sconfina in una sorta di chiaroveggenza medianica: la stessa che gli suggerisce di armare preventivamente la mano di Rose che poi utilizzerà contro sua moglie e Nono. Nulla ormai può più distogliere Cordier dall'idea di essere l'eletto di Dio per ripulire se non la Terra almeno quella contrada dai farabutti che la popolano. È lui a scrivere di notte sulla lavagna della scuola: "Il Signore mi ha ordinato di colpire Le Péron, Leonelli, Mercaillou e Vendredi. Io non ero completamente d'accordo. Gesù Cristo".
Quando, la mattina dopo, Anne vede il messaggio, cerca di coprirlo invitando gli alunni a cantare la Marsigliese. La strada pare ora spianata per congiungersi con Anne, colei che tutto sa e che nulla mai dirà, colei che ha compreso sino in fondo il significato della rivolta di Lucien e che lo ama per questo. Ma lui non è disponibile, ha ancora troppo "lavoro" da sbrigare per potersi dire libero e disposto a condividere la vita con lei. E all'obiezione di lei: "Ma non hai paura?", lui può rispondere: "I morti non hanno paura, e io sono morto da tanto tempo".
Con l'aiuto del ritrovato Aurenche dalla penna perfida e dall'immaginazione osé, Bernard Tavernier rilegge uno stralunato romanzo noir dell'americano Jim Thompson, "Pop. 1280" (n. 1000 nella serie "Carré Noir" di Gallimard), in chiave di puro surrealismo francese, tra Céline e Queneau. Thompson è già di per sé un autore oltranzista nel denso pastiche linguistico della sua prosa e oltraggioso nell'invenzione di personaggi irrimediabilmente out. Ma il Tavernier di "Coup de torchon" ci mette del suo a complicare una già fittissima ragnatela di pertinenze, spiazzando del tutto il nucleo originario del racconto e spostando l'azione dal profondo sud degli USA contemporanei a uno sperduto villaggio dell'Africa francese del 1938.
Siamo all'inizio del film: soggettiva su dei bambini neri africani affamati che rimestano il cibo nella sabbia, controcampo su uno stanco e disperato Lucien Cordier armato di pistola che li fissa immobile, poi la soggettiva segue un volo di avvoltoi fino all'inquadratura del sole in piena eclisse, infine scende la notte, che tutto avvolge in un'atmosfera rarefatta e angusta. Dopo aver indugiato sul nostro protagonista in procinto di svegliarsi, la macchina da presa ci presenta Bourkassa Ourbangui, lo sperduto paesino del Senegal con le milleduecentottanta anime del titolo del romanzo di Thompson: siamo situati nell'Africa occidentale francese, alla vigilia della seconda guerra mondiale, immersi in una natura dai colori metafisici e inquietanti che l'iperrealismo della fotografia sospende in uno spazio-tempo allusivo e metastorico, in un eterno ritorno dell'identico niente di buono, tra espressioni e implosioni di ogni forma vitale. Come annunciato da alcuni passanti per strada, è cominciata la fine del mondo, ma è cominciata già da sempre in una coincidenza tra l'alfa e l'omega, e si è già avviata anche la tragedia personale del protagonista. Cordier, capo della polizia francese di Bourkassa, è un vinto che sopravvive a se stesso e alla situazione.
Incassa, non reagisce, fa finta di non vedere e ripete ostinatamente: "Ho dei pensieri, delle preoccupazioni... Allora ho cominciato a riflettere, ho riflettuto e a forza di riflettere, finalmente, ho preso una decisione: ho deciso che non sapevo cosa fare...".
"Orribile campione della specie umana", come lo definisce Thompson, Cordier ha una coscienza, sorniona ma lucida e radicale, della realtà.
È un cavaliere senza macchia privato della principessa da salvare e relegato a testimone impotente di un male che si diffonde già la mattina attraverso il fetore delle latrine, per poi corrodere dentro nel buio. Di fronte a tale gravità, che richiederebbe un intervento all'altezza di un Salvatore, l'unico escamotage che la natura consegna è "il dormire e il mangiare". In particolare il gastronomico, con la parodistica urgenza del cibo, è un tema del film debordante, che asfissia la giornata dei personaggi anche negli intermezzi di maggior tensione, i quali "sono costretti" a tavola, per colazioni o pranzi o tè o aperitivi o comunque sedute che paiono indilazionabili, in qualsiasi circostanza, anche la più delicata: dopo un delitto, o un funerale, o tra un litigio e l'altro, o durante una stessa sparatoria, avvicinandoli al parossismo culinario esistenziale di Ferreri. Non c'è nulla da stimare, non c'è niente per cui valga la pena vivere, ma solo da aspettare che questo mondo avvolto dalla morte vada nella completa rovina e nel minor tempo possibile. Però, come un miraggio, la principessa arriva e, come un giglio immacolato sbocciato all'improvviso tra i rovi e le serpi, si materializza nei panni di una giovane maestra francese: Anne. È il momento di muoversi, ribellarsi e riabilitare sé stessi e il mondo fino a innalzarlo al livello di tale purezza. Ma come agire? Lucien, dando ascolto alla propria invigorita voce interiore, si sente investito da una missione assoluta, iniziando così un cammino dove tutto è messo sottosopra, tutto oscilla tra logica e follia e, in una sorta di delirio spirituale, si proclama il nuovo Ges\ù Cristo. Ma si tratta pur sempre di un Cristo impietoso e depresso, monco nelle sue qualità, più vicino all'indole di un'umanità agonizzante che a quella divina. Non esistono soluzioni nuove a cui aggrapparsi, l'unica chance è di far collassare le leggi selvagge della natura umana. Così, dopo l'ennesima umiliazione, Lucien applica in modo rigoroso, diligente, scrupoloso il suggerimento dell'autorità laica di restituire duplicato il male subito, sorta di "lex talionis" al quadrato, mentre dall'autorità religiosa apprende la lezione dell'amore verso il prossimo. Dopo aver saggiato il valore morale delle sue vittime ("Non è perché io metto la tentazione a portata di mano che bisogna forzatamente lasciarsi tentare", "Io mi arrangio soltanto perché la gente si mostra tale quale è"...), puntualmente le elimina in nome dell'amore e di Dio.
La morte sembra essere l'unica reale alleata dell'umanità e l'unica soluzione efficace nel teatrino tragico: "Uccidere è un dovere civico, un atto di carità". Ma il compito che egli si è prefisso si rivela alla fine utopico, titanico quanto impossibile: "Non ne posso più di essere il solo a espiare unicamente per aver fatto quello che la gente voleva che facessi e che non ha il coraggio di fare". Perciò, dopo un improbabile ballo con Anne, nell'atmosfera paradisiaca di una piazza addobbata a festa per l'entrata in guerra, di fronte al moltiplicarsi dei bambini nella sequenza finale, cioè alla reduplicazione incontrollabile e inarrestabile della vita malefica così com'è, un Lucien ormai fiaccato getta la spugna e non sa più cosa fare, se dirigere la pistola verso i bambini oppure verso se stesso, in un'"impasse" apparentemente definitiva.
Mauro Lanari
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Recensione a cura di Hal Dullea - aggiornata al 02/07/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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