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Prima immagine: una pietra miliare indica la città di Tebe.
Il film inizialmente è ambientato nel nord dell'Italia, negli anni '20.
Alla periferia di un paese agricolo, in una casa piccolo borghese, una donna (Silvana Mangano) partorisce un bambino. Con la musica rassicurante del Quartetto delle Dissonanze di Mozart, il volto della madre che allatta il suo bambino fa intuire attraverso le pieghe dello sguardo felicità e preoccupazione. Il padre poi osserva il figlio nella carrozzella, perplesso, contratto da una forte inquietudine.
Sullo sfondo del primo dopoguerra, la mancanza di un affetto vero, la diffidenza intrisa di gelosia, di un padre militare per il figlio appena nato, sembra voler riesumare e confermare la validità della teoria psicanalitica del complesso edipico.
Alla base due intuizioni geniali, una di Sofocle e l'altra di Freud: l'esistenza dell'inconscio e l'azione rimovente dell'Io causa di nevrosi; due grandi idee che sembrano per Pasolini attraversare ogni tempo, indifferenti ai grossi cambiamenti di costume.
La scena poi si sposta dagli anni '20 all'antica Grecia, sul monte Citerone. Il bambino apparso all'inizio del film è legato a un palo, ed è portato a spalle da un servitore di Laio, re di Tebe. L'uomo ha l'incarico di sopprimere il bambino, per rendere nulla una profezia dell'oracolo di Delfi, secondo la quale il figlio di Laio, una volta cresciuto, avrebbe ucciso il proprio padre e si sarebbe congiunto a letto con la propria madre. Al servitore (Francesco Leonetti), però, non sembra giusto uccidere il bambino, e finisce per abbandonarlo nel deserto nella speranza che gli dei lo salvino.
Un anziano pastore, che ha visto la scena, raccoglie con compassione l'innocente, e lo porta, pensando di far cosa gradita, al suo sovrano Pòlibo (Ahmed Belhachmi), re della città di Corinto. Pòlibo, accetta il piccolo, e mostra felice il bambino alla sua consorte Mèrope, la quale decide di adottarlo come figlio: figlio della fortuna, dandogli il nome di Edipo.
Un giorno Edipo (Franco Citti), diventato adulto, si reca nel tempio di Apollo, a Delfi, per fare chiarezza in merito a un sogno che l'ha sconvolto. In quel luogo verrà a conoscenza di un orrendo presagio che lo riguarda da vicino, precisamente lo stesso che tormentava a suo tempo il suo genitore: egli assassinerà suo padre e avrà rapporti sessuali con sua madre.
Annichilito e depresso, Edipo, per raggirare la profezia malefica, non torna a Corinto ma si dirige verso Tebe, quando ad un tratto, lungo una strada polverosa e deserta, incontra un grosso carro trainato da diversi cavalli con sopra re Laio, accompagnato da tre guardie del corpo e dal suo servitore. Edipo rimane in mezzo alla strada, forse perché è solo incuriosito, oppure, a seguito del lungo camminare in solitudine, vuol conversare con gli occupanti del carro. Ma Edipo viene pesantemente insultato e minacciato da Laio, con l'obbligo di spostarsi, pena la morte, Edipo,offeso, non si lascia spaventare e sopprime per legittima difesa uno a uno i componenti della scorta, dopo un lungo ed estenuante inseguimento. Successivamente ritornato nei pressi del carro uccide, ignaro della vera identità, anche il padre Laio che lo aveva offeso. Il servo (Francesco leonetti) di Laio testimone di tutto riesce a fuggire. Giunto a Tebe e cacciata la sfinge nell'abisso, Edipo si unisce in matrimonio con Giocasta (Silvana Mangano) e diventa, per l'impresa compiuta, il nuovo re della città; ma la serena quotidianità della sua vita prende all'improvviso una brusca piega, precisamente quando la peste comincia a contaminare diversi ambienti della città. Allora l'atmosfera di morte che aleggia anche a corte è l'occasione per Edipo d' intraprendere una ricerca della propria verità, qualcosa di sincero e sempre più profondo, anche a rischio che la sua vita assuma via via toni drammatici.
Le successive accuse di torbidità dell'indovino Tiresia (Julian Beck) verso il sovrano, le dichiarazioni del servo che abbandonò Edipo sul Citerone, e la testimonianza del pastore che lo consegnò a Polibo che effetti avranno dunque su Edipo? Riuscirà Edipo a scoprire tutta la propria verità e con essa a ritrovare la pace perduta o la peste si rivelerà una punizione degli dei per la presenza in città di un essere impuro e parricida come lui?
Dopo Uccellacci e uccellini (1966), Pasolini passa per la prima volta dalla poesia-favolistica alla tragedia greca caratterizzata dalla purificazione di una colpa oscura, da una catarsi per desideri peccaminosi.
Il regista poeta prende ispirazione da un'opera famosa di Sofocle, "Edipo re", svolgendo il testo in una direzione temporale infinita, lontana cioè dal tempo dell'orologio, proprio in riferimento a quella che si può definire una caratteristica essenziale dei processi inconsci scoperta da Freud: l'atemporalità del loro modo di apparire, essere e agire.
Pasolini dimostra con una sicurezza narrativa straordinaria (la cui forza è dovuta probabilmente alla sua indole artistica, ad una audacia inventiva senza precedenti nella storia del cinema, al suo genio espressivo, sempre ben supportato da una grande preparazione storico-culturale sulle questioni letterarie e teatrali che traspaiono nei suoi film: proposte a un pubblico sempre più selezionato).
In questo film non si riconoscono codici visivi, inquadrature, tratti di scene, che in qualche modo si rifacciano, anche a grandi linee, a film già usciti vicini a questo genere. L'originalità è assoluta, ed è forse per questo che Pasolini piace molto alla critica cinematografica.
Tutto con Pasolini è nuovo, il modo di recitare degli attori che lui richiama a un rapporto con se stessi autentico, sobrio, scevro da costruzioni troppo idealiste e formali sui personaggi, senza eccessi, vicino a come ciascuno di loro sente direttamente la realtà del vivere artistico e quotidiano, qualcosa di più impregnato di spontaneità e proprio per questo anche più efficace in termini di coinvolgimento verista, psicologico ed empatico con il pubblico.
Ad esempio le scene di combattimento tra Edipo e la scorta di Laio sono tecnicamente semplici, banali, lontane da elaborazioni spettacolari, sofisticate, sono qualcosa che non riguarda più una classica ricerca amplificata dei tempi di articolazione della lotta, capace di suscitare nei modi già ben collaudati dal cinema, suspense, o emozioni moltiplicative incontrollate, psichicamente disparate, legate al gusto sadico derivante dal centellinare le gustosi fasi di un combattimento mortale raffinato. Pasolini con ciò evita di offrire al pubblico una momentanea possibilità di schieramento psicologico nel gioco del combattimento, per non essere costretto poi a portare lo spettatore a una scarica pulsionale banale, convenzionale nel cinema, legata più al sangue fine a se stesso, al botteghino, che al senso chiave complessivo dell'opera.
Tutto nel film è orribilmente familiare, materno, e forse proprio per questo nello stesso tempo più drammatico, culturalmente riuscito nella provocazione, come se l'orrore che si prova stesse proprio nella identificazione con un personaggio che si conosce fin troppo bene, per via di una vicinanza familiare coatta ben salda nella realtà di oggi. E' come se questa emozione negativa fosse in qualche modo favorita da Pasolini, precisamente con il suo modo di far recitare gli attori, che si esprimono in una forma verista richiamante il familiare, e facendo precipitare nel sub inconscio dello spettatore qualcosa che nella sua coscienza viene sconvolto da improvvisi eventi, capaci quest'ultimi di mettere drammaticamente il pubblico davanti a uno specchio ravvicinato per un attimo senza più rimozione, riflettente le immagini della sua inquietudine, del suo inconscio ancora abitato scomodamente da qualche parte dalla mortale questione edipica.
Il film è di fatto un invito a sperimentare in pratica un'analisi freudiana.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 12/09/2011 11.12.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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