Recensione le colline hanno gli occhi regia di Alexandre Aja USA 2006
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Recensione le colline hanno gli occhi (2006)

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locandina del film LE COLLINE HANNO GLI OCCHI

Immagine tratta dal film LE COLLINE HANNO GLI OCCHI

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Da molti anni a questa parte le case di produzione americane impongono al pubblico, e nel contempo subiscono, quella che sta diventando la dittatura dei remake. Nel passato lo aveva già fatto il grande Alfred Hitchcock, rielaborando un suo stesso lavoro ("L'uomo che sapeva troppo"). In quello stesso periodo Howard Hawks, altro grande regista ed autore, a distanza di pochi anni dalla realizzazione di un capolavoro come "Un dollaro d'onore" (Rio Bravo, 1959) ne dirige un rifacimento in chiave più ironica "El Dorado" (1967). Poco tempo dopo, John Carpenter s'ispirerà all'originale di Hawks per mettere alla luce "Distretto 13 - Le brigate della morte", di cui a sua volta è stato girato l'ennesimo remake. E si potrebbe andare avanti per pagine e pagine intere.
Pur accantonando i sopraccitati grandi autori, che hanno avuto il vezzo di dirigere una seconda volta le loro stesse opere, negli ultimi decenni la pratica del remake si è imposta con quella stessa puntuale e sgradevole prepotenza con cui uno stato impone le tasse. Si è passati da remake eccellenti e fedeli di film geniali ("Scarface" di H. Hawks, 1930-32, "Scarface" di B. De Palma, 1983) a rifacimenti "fotocopia" assolutamente inutili come lo "Psycho" realizzato da Gus Van Sant nel 1998.
Fra tutti i generi cinematografici quello che ha subito maggiormente la disgustosa pratica del remake tanto inutile, quanto nocivo all'immagine del film originale, è stato il genere Horror. La cosa viene giustificata con le migliorie tecniche nella fotografia, nel digitale, nel trucco eccetera, che consentono di riprendere storie classiche e di dotarle di un maggiore impatto visivo.

Ecco, questo non è il caso di "Le colline hanno gli occhi". Il film del giovane regista parigino, Alexandre Aja, è sì il remake dell'omonima pellicola diretta nel 1977 da Wes Craven, che qui ritroviamo come produttore, ma va oltre. Aja, insieme col sodale Greg Levasseur, ha riscritto la sceneggiatura di Craven introducendo alcuni nuovi elementi e cercando di strutturare meglio la storia. Non si tratta del solito revival del gusto anni settanta, bensì di una rielaborazione in chiave moderna della storia, che risulta ampliata e più articolata.
"Le colline hanno gli occhi" più che un remake sembra essere un lifting dell'opera originale. È come se Craven si fosse affidato ad Aja, alla stregua di una vecchia beghina che nella serie televisiva Nip/Tuck si affida al bisturi del dottor Troy. E in questo caso il regista ha preso la consegna, ha tagliato e ricostruito, ha liftato e rimodellato, ha gonfiato labbra, tette e glutei, rifinito il naso ed alzato gli zigomi. Così, elementi che nella prima versione erano sottintesi o meramente accennati, prendono corpo, quasi come se il film di Craven fosse stato un semplice scheletro a cui bisognava aggiungere organi, muscoli e pelle. Il risultato è una pellicola più sviluppata, ampliata e ingigantita, ripulita specialmente sul piano visivo, ma come spesso accade nella chirurgia estetica, ci si trova di fronte a una menzogna, ad un involucro scevro di contenuto narrativo. E con ciò non si fa affatto riferimento ai contenuti metaforici e sociali, ripresi pari pari dalla versione del '77 e, anch'essi, ampliati: una società che produce mostri e deve pagarne le conseguenze, la distruzione della famiglia piccolo borghese, la riscoperta della bestialità umana eccetera eccetera.
Alexandre Aja ci sa fare con la macchina da presa. Ci offre delle soggettive interessanti e delle discrete panoramiche, che sanno trasmettere perfettamente la percezione del deserto come una prigione a cielo aperto. Sa ben giocare con l'alternanza fra riprese di profondità e piani improvvisamente ravvicinati.
La ricostruzione del villaggio prefabbricato per i test nucleari, popolato da manichini - che sono decisamente più inquietanti e spaventevoli dei cannibali mutanti - è forse l'introduzione più riuscita. I suoi interni permetto al regista di giocare con riprese in controluce e di trasmettere sensazioni claustrofobiche che sono le dirette antagoniste di quell'agorafobia prodotta del deserto.
Una bella confezione, ma niente di più! Ed è qui che cominciano le dolenti note.

Primo difetto assoluto è la sceneggiatura. I dialoghi sono insulsi e a tratti ridicoli. Ci troviamo di fronte alla famiglia americana piccolo borghese, in cui la figlia adolescente sembra non avere nessuna migliore manifestazione della propria ribellione se non quella di pronunziare qualche parolaccia davanti ai genitori.
Famiglia piccolo borghese, dunque, ma anche famiglia di lesionati mentali. Viaggiano scomodamente (affermano infatti che sulla roulotte ci sono tre posti letto, ma loro sono in sette... gli altri quattro quindi dormiranno in macchina?) in mezzo al deserto con una neonata, con pappagalli e con due cani, che nemmeno a dirlo si chiamano Beauty e Beast.
Il ragazzino, Bobby, manifesta la medesima capacità espressiva e formula le medesime imprecazioni sia quando si schiaccia un dito col martello, sia quando rinviene uno dei suoi cani eviscerato. Pacchiano anche il fatto che non lo racconti poi alla famiglia per timore di spaventarli.
Noioso il cliché del vecchio gestore della stazione di servizio che, in eterna combutta con i "mostri", procaccia loro le vittime col classico accordo: a voi la ciccia, a me soldi e preziosi. Poi, in uno di quei rari momenti di lucidità, che solo una bottiglia di whisky può regalare ad una mente bacata come la sua, si fa assalire dai complessi di colpa e si fa esplodere la faccia con una fucilata liberandoci dalla sua logora presenza stantia.
Che dire poi del padre ex poliziotto in pensione? Dopo aver assistito al suicidio del benzinaio e sentendosi minacciato da un voce teatralmente ridicola, è capace solo di sparare all'orizzonte senza un bersaglio, di dare le spalle all'unico cespuglio presente in tutto il deserto e di farsi poi catturare come l'ultimo dei dilettanti. Su di lui sorge spontanea una domanda: come diavolo ha fatto un poliziotto così incapace ad arrivare vivo al pensionamento? Indubbiamente sarebbe stato più opportuno, visto anche l'intento di metafora sociale, dare a quest'uomo una professione più borghese, che avrebbe spiegato meglio questa sua completa inettitudine davanti ad una situazione di pericolo estremo.
Più interessante l'intrusione dei cannibali, con finalità di stupro e di massacro, all'interno della roulotte. Forse la migliore delle sequenze realizzate da Aja, ma, ahimè, "Funny games" è stato realizzato da Haneke nel 1997 e qui siamo decisamente lontani sia da quella violenza, sia da quel pathos, sia da quell'ironia.

Arriviamo ora al nostro eroe americano piccolo borghese democratico pacifista occhialuto inoffensivo: il nostro Doug.
Dopo un incidente, camminando in mezzo al deserto e senza copertura per i telefoni cellulari, il nostro eroe s'imbatte in un cratere adibito a cimitero di veicoli familiari. Tutti questi, proprio come la sua stessa autovettura, hanno le gomme trinciate e in più presentano tracce di sangue, simbolo evidente di aggressione. E lui che fa? Prende un peluche e un paio di racchette e torna con un sorriso un po' meravigliato, ma divertito ed ebete, dalla propria famiglia come per dire "guardate che cosa ho trovato".
E dopo aver visto bruciare vivo il suocero, aver assistito all'assassinio di sua moglie e al rapimento di sua figlia, parte per recuperare la piccola, armato di mazza da baseball, annunciando ai cannibali il proprio intento con la ricetrasmittente che ha sottratto loro. Il nostro Doug raggiunge il massimo della sua espressività quando, entrando nella miniera abbandonata, domanda al cane: "Che posto è questo?".
Peccato che in quel momento il simpatico muso di Beast, in assoluto il miglior attore del film, non venga inquadrato dal nostro Aja. Sicuramente il cucciolone avrà guardato con sgomento l'eroe demopacificoborghese, e se gli fosse stato concesso il dono della parola avrebbe detto: "Ammazza quanto sei cretino!". Poco più tardi, quando il geniale Doug lo rinchiude in una macchina per proseguire da solo, il nostro saggio Beast avrebbe detto: "fammi trovare subito una via d'uscita. Qui, se non ci penso io, siamo del gatto!". E i fatti che seguono naturalmente gli avrebbero dato ragione.
Pacchiana poi la resistenza di Doug a tutti i colpi e a tutte le violenze subite. Una volta nei film horror si trovava il mostro che per quanto tu lo picchiassi, bastonassi, bruciassi, accoltellassi, lo prendessi a sprangate e a fucilate, si rialzava sempre inesorabilmente in piedi. Qui i ruoli sono invertiti. Il nostro Doug, figlio illegittimo e non riconosciuto di Highlander, mostra una resistenza da far invidia a Superman e da farci simpatizzare con quei poveri mutanti cannibali, che portati all'estrema esasperazione arrivano a sbattergli disperatamente la faccia per terra, regalando a noi pubblico qualche istante di puro godimento.

Alexandre Aja, come accennato sopra, nel suo gonfiare e siliconare la pellicola alla stregua del miglior dottor Troy, ne ha anche amplificato i contenuti sociali rendendoli la tematica centrale e dominante, ma perdendo quell'ironia della sceneggiatura originale che ne fece un film di culto citato in altre opere cinematografiche (ad esempio in "Evil Dead" (La Casa) di Raimi si vede una locandina de "Le colline hanno gli occhi" del '77).
Aja esalta soprattutto l'incontro-scontro fra la famiglia americana piccolo borghese, bigotta reazionaria e forcaiola, con il suo doppelganger, la famiglia mutante crudele e mostruosa che vuole fagocitare letteralmente la sua antagonista, che è simbolo di quella società malata che l'ha prodotta. Fra armi simboliche, come la mazza da baseball e la stessa bandiera americana, ascoltiamo anche l'inno statunitense distorto, cantato dal mutante Big Brain (tristemente ispirato ad una fotografia di denuncia diffusa da Greenpeace negli anni ottanta), all'interno dell'abitazione del villaggio sperimentale dove si svolgeranno le scene clou delle scontro fra i due archetipi sociali personificati da Doug e dai cannibali. Anche qui protagonista assoluto ritornerà il nostro amatissimo Beast.
Peccato che Aja stravolga completamente quello che era il messaggio sociale della pellicola originale. Infatti il processo di asservimento psicologico alla violenza che dovrebbe trasformare il nostro Doug da piccolo borghese tranquillo e pacifico in una fiera assetata di sangue, in realtà fa di lui un eroe pronto ad affrontare i cattivissimi e disgustosi mostri per riavere sua figlia. Decisamente inappropriate e fuori luogo le musiche trionfali che inneggiano alla vittoria dell'eroe americano. A dir poco disgustosa la scena di Doug con la bambina in braccio e il nostro amatissimo e povero Beast portato al guinzaglio. Più che alla disfatta della famiglia borghese qui si assiste all'elogio della sua unione e riunione. È vero che Aja facendo saltare in aria la roulotte ha voluto simboleggiare, la distruzione della casa e quindi della famiglia, ma anche questa esplosione è semplicemente finalizzata all'uccisione di un mostro. Il risultato è che la famiglia americana, contrariamente a quanto ha scritto Joyce Carol Oates nell'omonimo libro, è forte e capace di rinunciare al benessere pur di salvaguardare la propria unione... come non ci si stancherà di ripetere: un totale stravolgimento dei contenuti.

A questo si deve aggiungere che il film, basandosi molto sull'impatto visivo, non crea particolare tensione e lo sbadiglio è sempre dietro l'angolo.
Alcuni commenti e critiche entusiaste raccontano di una suspense che non c'è e di una violenza e di una brutalità che non sono affatto così eclatanti. Le scelte del regista sono evidenti: non si tratta di un thriller e, dall'ottica della tensione narrativa, nemmeno di un film horror; è un film truculento che segue il filone gore. Tuttavia anche da un punto di vista dello splatter, Aja avrebbe potuto indugiare assai di più. Il film è immediato e diretto, tende ad enfatizzare la violenza, senza considerare che può essere mille volte più angosciante l'immagine di uno schermo nero, accompagnata dalle urla della donna torturata, come ad esempio in "Tesis", il primo film di Alejandro Amenabar, rispetto ad una qualsiasi scena di "Le colline hanno gli occhi".
Molti hanno utilizzato la parola "disturbante", in questo caso però siamo sul limitare del ridicolo. Per restare nell'ambito del cannibalismo, per chi cercasse film disturbanti si suggerisce di vedere "Mangiati vivi" e "Cannibal ferox" di Umberto Lenzi oppure "Cannibal holocaust" e "Inferno in diretta" di Ruggero Deodato.

Alexandre Aja si è confermato un buon regista. Ha tecnica e fantasia visiva. La sua regia è curata e ben strutturata. Sono interessanti anche le sequenze iniziali che alternano le esplosioni nucleari, che con i loro funghi atomici trasmettono un senso di leggerezza e, al contempo, di una violenza tanto definitiva quanto risolutiva, alle immagini (vere e non effetto di radiazioni, ma conseguenza del diserbante chimico noto come Agente Arancio utilizzato durante la guerra del Vietnam) delle deformazioni prodotte dalle radiazioni.
Purtroppo "Le colline hanno gli occhi" non è un bel film e a parer di chi scrive la visione è sconsigliata.
Ritornando al discorso generale sui remake, sembra che questi siano un fio da pagare per tutti quegli autori stranieri che desiderano approdare ad Hollywood. Ma anche qui si distingue l'intelligenza e la scaltrezza dei differenti autori. Per esempio Mathieu Kassovitz, quando sbarcò in America, diresse il film "Gothika", che giocando con tutti i cliché del genere horror, si dimostrò comunque un opera originale e fantasiosa.
L'invito è pertanto quello di abbandonare questa perturbante pratica necrofila di rifare film, anche recentissimi, e di cominciare a scrivere qualcosa di nuovo, dando lavoro a tanti giovani aspiranti sceneggiatori, che pur non avendo mezzi spesso dimostrano di avere molte più idee.

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 08/09/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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