default (2018)

A metà tra dramma esistenziale intimista alla Sundance e tentativo di riflessione (geo)politica sulle differenze culturali tra Stati Uniti e Cina. Ne viene fuori un film con alcuni guizzi registici e una bella ricerca delle immagini ma anche costantemente in bilico sul filo della superficialità narrativa.

Film garbato nei toni.
Buona messa in scena e buon cast. Un film non troppo originale, ma una visione discreta che scorre bene.

Film che ispira simpatia nonostante il tema trattato ma che allo stesso tempo annoia a tratti e non emoziona.

Dramedy piuttosto garbata nella sua esposizione dei sentimenti, delicata e sobria nel trattare l'argomento malattia senza rinunciare a una dose di humor, capace di stemperare l'atmosfera grigia che pervade tutto il film.
Buona la regia, discreto il cast.

Nonna petulante tutt'il tempo, la nipote con broncio e gobba anche lei per tutta la durata, in mezzo a queste due protagoniste monodimensionali un dilemma etico mediocre grondant'a profusione retorica melodrammatica.

Mauro Lanari

Il personaggio principale, Billie, vive la tipica contraddizione di ogni immigrato. Nascita e prima infanzia nel paese d'origine, la crescita e la maturazione nel paese d'adozione. Una terra di mezzo indefinita fra culture molto diverse tra loro e la consapevolezza della parziale perdita delle proprie origini cinesi e il non sentirsi parte nel paese d'adozione. La riunione familiare nel paese d'origine è fatto appositamente per ristabilire sia pure in maniera momentanea la propria unità, caratteristica importante perchè attraverso l'unità dei legami di sangue l'individualismo (o l'egoismo individuale) non prevalga sugli interessi del gruppo familiare. La bugia detta a fin di bene non è altro che un'escamotage per la famiglia di farsi carico del peso emotivo di una sentenza di morte. Il nascondere la malattia è ristabilire uno squilibrio e redistribuirlo fra i propri membri ("Se una persona si ammala di cancro, muore. Ma più del cancro, uccide la paura"). Buon film.