cane randagio regia di Akira Kurosawa Giappone 1949
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cane randagio (1949)

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locandina del film CANE RANDAGIO

Titolo Originale: NORA INU

RegiaAkira Kurosawa

InterpretiToshiro Mifune, Takashi Shimura, Ko Kimura, Keiko Awaji

Durata: h 2.02
NazionalitàGiappone 1949
Generedrammatico
Al cinema nel Novembre 1949

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Trama del film Cane randagio

A Tokyo, durante un tragitto su un bus, l'agente di polizia Murakami viene derubato della pistola d'ordinanza; dopo poco tempo la stessa pistola verrà utilizzata per commettere un crimine. L'onore, e quindi il diritto al proprio lavoro e ruolo sociale, sarà salvato solo recuperando l'arma. Comincia un itinerario allucinante alla ricerca del ladro, con la costanza del giusto che supera la fragilità della giovinezza.

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Voto Visitatori:   8,38 / 10 (17 voti)8,38Grafico
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Voti e commenti su Cane randagio, 17 opinioni inserite

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kafka62  @  03/03/2018 15:49:51
   9 / 10
"Darei cento Rashômon per vedere un solo Cane randagio" (Georges Sadoul)

C'è una sequenza, nella seconda parte di "Cane randagio", che a mio parere esemplifica molto bene la grande originalità del cinema di Kurosawa. L'anziano ispettore Sato, in una pausa delle indagini, ha invitato il giovane collega Murakami nella propria abitazione; i due osservano e commentano i numerosi attestati di servizio appesi alla parete, quindi Sato esorta l'ospite a bere con lui qualcosa di fresco, ma, prima di uscire a prendere le bevande, ritorna sui suoi passi, raccoglie un basso tavolino dove sono posati alcuni giocattoli e lo sposta al centro della stanza. La macchina da presa indugia per alcuni, lunghi secondi su questi piccoli oggetti senza importanza (un cavallino a dondolo e un'automobilina), riprendendoli addirittura in primissimo piano, come se fosse stata ipnotizzata dalla loro infantile, stilizzata bellezza. Non c'era nessun motivo d'ordine narrativo o simbolico che obbligasse a soffermarsi su queste figure, le quali potevano essere tranquillamente trascurate senza che la struttura del film avesse a soffrirne, eppure questa inquadratura risulta alla resa dei conti più affascinante ed esteticamente "necessaria" di quelle che la precedono e la seguono. Il fatto è che Kurosawa, disseminando di simili invenzioni visive il percorso narrativo, tutto sommato tradizionale, di "Cane randagio", intende riaffermare prepotentemente la presenza insostituibile del regista dietro la realtà da lui descritta. L'innegabile realismo di fondo della pellicola, del quale parlerò più avanti, è come contraddetto da una marcata impronta di soggettivismo. Nella sequenza del music-hall, ad esempio, assistiamo a uno stupendo saggio di osservazione umana, degno delle più memorabili pagine pabstiane o felliniane: durante un intervallo dello spettacolo, le giovani ballerine si avviano in uno stanzone dove si lasciano cadere a terra, accalcandosi le une sulle altre, per riposare. In questo ammasso bestiale di corpi stanchi, ansanti e sudati, c'è qualcosa di più di un saggio di fenomenologia descrittiva o di un mero preludio all'incontro tra i due investigatori e la ballerina Harumi: c'è una fervida sensibilità, una instancabile curiosità nei confronti degli esseri umani che induce l'autore a mettere per un momento da parte le ragioni dell'intreccio per fermarsi ad osservare, immedesimandovisi, una realtà provocatoriamente inusuale, così come, più o meno negli stessi anni, era dato di vedere nei film del miglior De Sica. Ma se De Sica utilizzava queste digressioni (basta ricordare il risveglio della servetta in "Umberto D.") per affermare la continuità cronologica dell'opera filmica, giungendo quasi a far coincidere il tempo diegetico con il tempo reale, Kurosawa al contrario fa sentire in ogni istante il suo atteggiamento di regista-demiurgo, ora allungando ora restringendo i tempi dell'azione, ora creando tensione ora smorzandola, alternando climax e anticlimax in maniera a tratti geniale (vedi la conclusione del serrato inseguimento tra Murakami e la borseggiatrice, con il poliziotto che si riposa al suono di una malinconica fisarmonica e la magica notte stellata che sembra aprire ai due personaggi insospettati spiragli di felicità).
Pur non potendo nascondere l'esistenza di reciproche influenze (o sarebbe meglio dire corrispondenze) dovute a situazioni storico-sociali analoghe, Kurosawa va ben al di là dell'esperienza neorealistica italiana, non fosse altro che per ragioni di natura strettamente stilistica. L'inconsueta raffinatezza estetica di "Cane randagio" dà infatti della realtà una visione ora impressionista (soprattutto laddove il regista fa uso delle sovrimpressioni) ora addirittura iperrealista (vi è, ad esempio, un grande utilizzo di primi piani e di dettagli, dal vestito bianco gettato a terra al sangue che gocciola sul fiore, i quali hanno l'effetto di isolare, anche a fini simbolici, volti e oggetti dall'ambiente che li circonda), ma non viene neppure disdegnato il ricorso all'inquadratura classica, americana, dal taglio nitido e preciso, esaltato dalla profondità di campo e dalle tonalità chiare della fotografia. Come si è già accennato, il montaggio è molto importante nel dare al film un andamento sincopato, ora incalzante e frenetico (in una sequenza dai rapidi e secchi cambiamenti di inquadratura, Murakami si reca al laboratorio scientifico della polizia per avere informazioni sulla pallottola usata nella sparatoria della sera precedente, quindi si fionda al poligono di tiro per rintracciare un proiettile da lui conficcato nella corteccia di un albero durante un'esercitazione, infine ritorna al laboratorio per ricevere la conferma che le due pallottole sono state sparate dalla stessa pistola), ora sospeso e introspettivo (vedi le lunghe conversazioni tra Murakami e Sato, vere e proprie oasi di riflessione sottratte all'incombere degli eventi).
In certe scene, vi è poi l'interessante elaborazione di un montaggio interno al quadro, il quale genera effetti a scoprire di notevole efficacia: nella migliore di queste, la moglie dell'albergatore, passeggiando su e giù con il figlioletto in braccio, si allontana lentamente dalla macchina da presa, mentre sulla scala, rimasta da sola in primo piano, compaiono ad un tratto i piedi del pericoloso ricercato. Questa sequenza topica, la cui suspense esemplare sembra uscita fuori da un film di Hitchcock (mentre il criminale, messo involontariamente sull'avviso dalle incaute parole della donna, si fa avanti con minacciosa lentezza, Sato non riesce, per una serie di equivoci, a mettersi in contatto telefonico con Murakami, e quando finalmente è in grado di farlo è troppo tardi, e dal ricevitore impugnato dall'amico risuonano solo due colpi di pistola), fa apparentemente rientrare "Cane randagio" nella categoria formale del film poliziesco, ma così come Kurosawa si distingue, per i motivi che abbiamo appena visto, dai cineasti realisti, allo stesso modo egli prende le distanze dai canoni e dagli stilemi del genere. Anzi, sarebbe più corretto parlare di generi, perché il film attraversa, nel suo svolgersi, più di un territorio dell'immaginario cinematografico: il referto sociologico in chiave documentaria, il thriller, il film psicanalitico con risvolti esistenziali. Kurosawa si avvale di questi generi in modo, per così dire, surrettizio, li contamina con la sua personalissima concezione del cinema e realizza un'opera a prima vista ibrida e diseguale, in realtà perfetta nella sua progressione stringente e ineluttabile.
"Cane randagio" inizia con una voce fuori campo che sembra distanziare l'azione su un piano di asettica oggettività: lo spunto, il furto di uno strumento di lavoro (in questo caso la pistola) che interviene a sconvolgere un'esistenza individuale, ha molti punti in comune con quello di "Ladri di biciclette", ma a smorzare il pathos narrativo, e ad accrescere di conseguenza il carattere di mera inchiesta fenomenologica, c'è il fatto che esso è già avvenuto e a noi non rimane che assistere alla sua ricostruzione a posteriori. C'è in questa prima fase una fortissima impressione di realtà. Gli ambienti, dalla stazione di polizia alle strade periferiche di Tokyo, sono ritratti in maniera per nulla stereotipata, mentre il caldo torrido incombe sui personaggi condizionandone i comportamenti: per tutto il film c'è un continuo agitar di ventagli, un affannoso asciugarsi con i fazzoletti le fronti madide di sudore, un onnipresente ronzare di ventilatori in funzione. Non si sottolineerà mai a sufficienza l'importanza, nell'economia globale del film, del clima e delle sue implicazioni metaforiche (l'afa agostana di Tokyo sembra la materializzazione dell'angoscia senza sbocchi e dell'inquietudine spirituale che gravano sui personaggi, mentre la pioggia torrenziale del finale accompagna la catarsi liberatoria). E' però con la lunga sequenza della ricerca della pistola nei bassifondi di Tokyo che Kurosawa raggiunge il culmine di questo atteggiamento documentario: si tratta di dieci minuti di splendido cinema neorealistico (che non a caso hanno fatto parlare di "Cane randagio" come di una sorta di "Tokyo città aperta"), in cui la macchina da presa, mossa forse più dalla curiosità entomologica del regista che dall'ansia del protagonista di ritrovare la sua pistola, si aggira instancabilmente nei sobborghi della capitale, in ambienti equivoci e degradati mai visti prima di allora al cinema. La costruzione sintattica di questa straordinaria "sinfonia dei bassifondi" è molto originale: l'andamento è lento, frammenti apparentemente casuali eppure fortemente significanti di realtà si sedimentano via via gli uni sopra gli altri, mentre il senso del movimento spaziale e temporale è dato dall'alternarsi a singhiozzo delle musiche e delle sovrimpressioni.
Quando Murakami arresta la giovane ricettatrice, inizia la parte propriamente poliziesca del film. Il passaggio dal documentario al thriller comporta da una parte una maggiore strutturazione narrativa, con il ricorso a tutti i topoi del genere (interrogatori, pedinamenti, imboscate e sparatorie, con alcune sequenze memorabili quali l'arresto di Honda alla stadio del baseball), dall'altra genera un considerevole aumento della tensione. Il furto della pistola passa in secondo piano di fronte a un duplice omicidio e la ricerca individuale dell'arma viene sostituita dalla caccia a un colpevole che si rivela di ora in ora più pericoloso. Ciò provoca anche un maggior coinvolgimento emotivo del protagonista. Non c'è più solo il posto di lavoro in pericolo (aspetto che avvicinava Murakami all'Antonio Ricci del film di De Sica) o il rischio di sanzioni disciplinari, ma una vera e propria corresponsabilità negli avvenimenti: l'assassino uccide infatti con la pistola ed i proiettili di Murakami, il quale è anche convinto di avere con il proprio comportamento intempestivo (ha arrestato la ricettatrice proprio quando Yusa era in procinto di restituire la pistola) esacerbato l'animo dell'avversario, trasformandolo da "cane randagio" in "cane rabbioso". Murakami si sforza febbrilmente di calarsi nella misteriosa psicologia di Yusa, al punto che quest'ultimo giunge progressivamente ad assumere i connotati di un doppio simbolico del protagonista ed apparirgli come la sua metà nascosta ed oscura. Dall'incontro con i familiari, l'amico e la fidanzata si apprende che Murakami e Yusa hanno avuto esperienze similari; entrambi hanno fatto la guerra, ad entrambi è stato rubato lo zaino contenente tutti i loro averi ed entrambi si sono trovati di fronte a un fatidico bivio: diventare con fatica e sacrificio un uomo onesto oppure perdersi sulla strada del crimine. L'opposto destino di Murakami e Yusa è però qualcosa che va oltre la schematica dicotomia tra Bene e Male, tipo dottor Jekyll e mister Hide o William Wilson. La caccia all'assassino diventa infatti un graduale processo di autoconoscenza che conduce Murakami a porsi dei fondamentali interrogativi etici. E', questa, la parte più problematica e complessa del film, che si distingue principalmente per la lunga conversazione serale tra Murakami e Sato (impersonati dai due attori-simbolo di Kurosawa, Toshiro Mifune e Takashi Shimura), i quali sostengono due antitetici concetti del Male. Mentre per l'anziano ispettore "il Male è il Male" e come tale deve essere combattuto ed estirpato, perché "molti agnelli possono essere uccisi da un solo lupo", Murakami esprime da parte sua una concezione più problematica, o meglio ancora dostojevskijana, dell'uomo: "Al mondo non ci sono persone cattive – replica a Sato -, solo ambienti cattivi". La differenza che passa tra i due personaggi è la stessa differenza che divide le loro generazioni, quella dei padri, tenacemente legata ai vincoli familiari, alle tradizioni e ai valori immutabili e assoluti di una volta, e quella del dopoguerra, che ha vissuto sulla propria pelle la tragica esperienza bellica ed è cresciuta senza certezze né ideali. Per Kurosawa, il confine tra Bene e Male è quanto mai labile e indistinto, e dietro a ogni criminale si nasconde l'uomo, come i due poliziotti scoprono leggendo il tormentato diario di Yusa, nel quale questi esprime il suo doloroso, inguaribile disagio di vivere.
Essere buoni o cattivi è forse una questione di circostanze più o meno fortuite: il regista trasferisce visivamente questo pensiero nel bellissimo duello finale, in cui i due avversari si rotolano nell'erba, sotto una pioggia scrosciante, fino a che non riusciamo più a distinguere chi è il poliziotto e chi il delinquente. Quando, al termine della lotta, poco distante dai due uomini riversi tra le margherite passa (come in una famosa scena del "Bidone" felliniano) un corteo di bambini che cantano, Yusa sembra rendersi per la prima volta conto della sua situazione di uomo perduto e lancia un lungo urlo straziante: in quel momento, lungi dall'apparirci come un criminale sanguinario, Yusa riesce a commuoverci e a impietosirci quasi quanto il povero marito della donna da lui uccisa. Di fronte a questo dramma umano, ogni schema morale salta o diventa confuso, e la commiserazione si mescola alla ineludibile necessità di far rispettare la legge. Il moralismo di Kurosawa si carica così di valenze straordinariamente moderne, che anticipano di ben dieci anni la nouvelle vague giapponese: il criminale di "Cane randagio" assomiglia infatti ai tanti "insetti umani" di Imamura e di Oshima, anche se, ad essere sinceri, Kurosawa non possiede la carica eversiva e iconoclasta dei suoi più giovani colleghi. Ciononostante, la critica sociale del regista è meno morbida di quanto si possa credere. Tra le righe è possibile tra l'altro leggere una indiretta condanna dell'influenza americana post-bellica, tanto più perniciosa in quanto ha irrimediabilmente invaso tutti i campi della vita sociale (dal modo di vestire allo sport, dalla brillantina al music-hall).
L'importanza maggiore di "Cane randagio" è comunque quella di avere espresso con energia e convinzione la necessità di staccarsi definitivamente dal cinema dei padri e di immergersi nella realtà sgradevole e nascosta, nei bassifondi delle città, pescando tra i trafficanti e i borsisti neri, le prostitute e i piccoli criminali i personaggi naturali dei propri film. Gli occhi di Murakami davanti ai quali scorrono, in sovrimpressione, le immagini inattese di una Tokyo-formicaio umano diventano perciò il simbolo di uno sguardo vergine e puro che il regista e gli spettatori devono adottare per poter affrontare le complesse e urgenti problematiche della società contemporanea, oggi non meno che nell'immediato dopoguerra.

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