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Se si parla di forza, d’energia, di vitalità, Welles ne è senza dubbio l’incarnazione registica. La è altrettanto la sua presenza come attore; fisica, dirompente, eccezionale. Ma se è vero che un attore personifica spesso se stesso, Welles è prima di tutto uno sconfitto, o almeno finge di esserlo. E Falstaff lo è a tutti gli effetti. Lo è nel suo essere un ladruncolo da quattro soldi, lo è nel far credere d’essere quello che non è, e lo è nel suo rapporto d’amicizia con il principe Harry. Ed è proprio su questo rapporto che si basa la forza struggente di questo film, apparentemente così saldo e profondo, ma infine labile ed illusorio. D’altronde Harry è un principe, mentre Falstaff non è altri che un balordo, un rivoltante grassone, un lurido ammasso di lardo, un’immonda botte di lerciume, un abominevole fagotto di grasso (invento, perché le offese che subisce non le ricordo). Finirà tale. Il suo congedo dal mondo sarà inevitabilmente disperato. E significativa, quando la carcassa (enorme) di Falstaff s’allontana dalla scena, è la parte finale, dove la voce narrante, invece di descrivere il triste epilogo dello sconfitto, narra con enfasi eroica un ultimo compendio alle imprese del nuovo re; Harry. Opera a quanto pare sconosciuta, ma intensa, rozza ma di grande personalità, dove l’arte dell’arrangiarsi, il talento, il ritmo, la teatralità del grande regista sopperiscono ad ogni sorta d’imperfezione tecnica. La sequenza della battaglia è il summa di queste virtù, degna del “Alexander Nevskij” di Ejzenstejn.