il vampiro (1932) regia di Carl Theodor Dreyer Francia, Germania 1932
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il vampiro (1932)

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locandina del film IL VAMPIRO (1932)

Titolo Originale: VAMPYR, L'ETRANGE AVENTURE DE DAVID GRAY

RegiaCarl Theodor Dreyer

InterpretiJulian West, Henriette Gérard, Jan Hieronimko, Maurice Schutz

Durata: h 1.10
NazionalitàFrancia, Germania 1932
Generehorror
Al cinema nel Settembre 1932

•  Altri film di Carl Theodor Dreyer

Trama del film Il vampiro (1932)

Attraverso un libro sul vampirismo David Gray sconfigge una setta di non-morti.

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Voto Visitatori:   8,34 / 10 (31 voti)8,34Grafico
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Voti e commenti su Il vampiro (1932), 31 opinioni inserite

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kafka62  @  20/01/2018 12:00:23
   9½ / 10
Fin dalle prime inquadrature, straordinariamente evocative e stranianti, Il vampiro ha la forma inconfondibile di un sogno. La figura di David Gray, che giunge nottetempo, senza alcun motivo apparente, a una solitaria locanda, sembra infatti vagare in una no man's land che ha la brumosa indefinitezza e la spettrale fantasmaticità del territorio dell'inconscio. Presenze inquietanti e misteriose (il mietitore con il cappellaccio e la falce, il vecchio con il viso deforme), oggetti quotidiani che si caricano di valenze arcane (l'insegna della locanda, il quadro appeso nella stanza di David), inspiegabili visite notturne: siamo, lo si è capito, in pieno clima kafkiano, come è dimostrato anche dalla atemporalità della vicenda, dalla passività del protagonista (che, a parte la liberazione di Gisèle, è costantemente "agito" dagli eventi) e dalla sensazione che ciò che vediamo scorrere sullo schermo, persino le cose più insignificanti, abbiano un significato trascendente e "altro". In nessun altro film, neppure in quelli che si richiamavano esplicitamente allo scrittore praghese, ho più ritrovato un'atmosfera così vicina a quella, onirica e surreale, de Il Castello. Come Kafka, anche Dreyer non distorce la realtà, non la deforma espressionisticamente, ma trae da essa gli aspetti più enigmatici ed occulti attraverso un'apparente fedeltà naturalistica. Sogno e realtà si innestano l'uno nell'altra con grande naturalezza, fino a diventare entità fluide e interscambiabili. Prendiamo ad esempio quella che è la sequenza più bella (e giustamente più celebre) del film. David si addormenta su una panchina e, staccatosi dal suo corpo, immagina di assistere al proprio funerale: rinchiuso in una bara dotata di uno sportelletto di vetro all'altezza del viso, il suo "doppio" può vedere i preparativi di chiusura della cassa, i volti delle persone che si affacciano ad osservarlo, e infine i soffitti, gli alberi e il cielo che scorrono sopra di lui durante il trasporto. Per mezzo di una stupenda invenzione visiva, vale a dire l'utilizzo della macchina da presa in soggettiva (dal punto di vista del personaggio nella bara), Dreyer riesce a costruire una sequenza inimitabile. L'incubo tafofobico richiama alla mente molte inquietanti pagine di Edgar Allan Poe, ma paure e ossessioni dell'inconscio sono presenti un po' in tutto il film: il mietitore con la falce in attesa del traghetto è una chiara immagine della morte, il terrore di perdere il proprio sangue allude a quello, parallelo, di veder scisso il proprio io. Persino il vampiro sembra essere non tanto una presenza esterna e tangibile, quanto l'espressione di una paura che alberga nel profondo dell'animo umano.
Film di ombre, di arcane presenze e di suggestioni, Il vampiro rovescia i codici retorici del genere "draculesco". Anzitutto, il regista danese amplifica i motivi angosciosi presenti nell'ambiente naturale, rifiutando i "facili" artifici della messa in scena: durante l'esplorazione notturna di David Gray, ad esempio, egli suggerisce l'esistenza di una realtà "parallela" governata da leggi ignote per mezzo di immagini di una stupefacente naïvetè, facendo ora apparire incorporee presenze riflesse nelle acque del fiume e sull'erba dei prati, ora proiettando sui muri strane ombre che agiscono indipendentemente dai loro corpi. In secondo luogo, Dreyer rifugge dalle manifestazioni spettacolari dell'orrore e dagli esibizionismi grandguignoleschi di tanta cinematografia "commerciale", relegando persino sullo sfondo il personaggio archetipico del vampiro (qui addirittura impersonato da una vecchia signora). Da ciò discende anche una importante conseguenza sotto il profilo più squisitamente stilistico: ai piani ravvicinati così tipici dei film dell'orrore Dreyer sostituisce frequentemente campi lunghi e totali, i quali provocano un originale senso di estraniazione narrativa senza che per questo si abbia una perdita di pathos: valga per tutte la scena della vampirizzazione di Léone nel parco, ripresa da lontano, a cose ormai concluse, con gli attanti immobili come un gruppo marmoreo di plastica perfezione. Un ulteriore elemento di distacco dalle regole del genere è dato dal predominio del bianco sul nero e dall'uso di una fotografia "crepuscolare". "Ad una delle prime proiezioni di giornalieri, notammo che una delle riprese era grigia. Ci domandammo come mai, fino a che ci rendemmo conto che la cosa dipendeva da una luce sbagliata, che aveva battuto sull'obiettivo. Il produttore del film, l'operatore Rudolph Maté e io riflettemmo sulla ripresa, in relazione allo stile che stavamo cercando. Infine decidemmo che tutto ciò che c'era da fare era ripetere intenzionalmente ogni giorno il piccolo incidente capitato. Di conseguenza, ad ogni ripresa dirigevamo una falsa luce sull'obiettivo, proiettandola attraverso un velo che rinviava la luce alla camera". Dalle parole del regista veniamo così a sapere che un banale incidente di ripresa è stato trasformato da Dreyer in una scelta stilistica radicale: non i chiaroscuri né i contrasti netti di luci e di ombre che avevano caratterizzato fino ad allora l'estetica espressionista, ma al loro posto mezzitondi, sfumature lattiginose e una netta prevalenza di grigi, il tutto ottenuto con l'uso di filtri e di garze davanti all'obiettivo in grado di restituire un magico effetto flou.
Lo stile di Dreyer è estremamente inventivo. Egli è, dopo Murnau, il primo regista a dare alla macchina da presa un ruolo che non sia meramente descrittivo o meccanicamente in funzione dell'azione scenica. La sua cinecamera è sotto tutti gli aspetti un protagonista del film, con i suoi lenti movimenti laterali, le sue soggettive, le sue panoramiche circolari, le sue angolazioni inusuali (ad esempio l'inquadratura dal basso, splendidamente ambigua, della ringhiera con la mano del dottore appoggiata, o quella dall'alto di David, accasciato sul sofà dopo la trasfusione). Piccoli spostamenti introducono nuovi personaggi sulla scena oppure seguono il successivo svolgersi della sequenza senza bisogno di stacchi o ancora creano improvvisi effetti di "suspense" (come nella scena in cui la macchina da presa lascia il letto dove Léone giace malata, si sposta a destra per seguire la nutrice che si affaccenda nello stanzino attiguo, e ritorna infine sul letto per scoprire che la ragazza è scomparsa). L'elaborata e rigorosa maestria dispiegata in alcune sequenze fa quasi gridare al miracolo: quando, ad esempio, David, penetrato nell'edificio abbandonato, spia da una fessura ciò che succede intorno a lui, la camera fa una lunga e ardita carrellata, raggiunge una stanza sopraelevata dove le ombre di una orchestrina e di alcune coppie danzanti si muovono al suono di una polka (e qui vale la pena di segnalare almeno l'uso contrappuntistico del sonoro, che alterna l'allegra canzoncina al sottofondo lugubre e orrorifico), quindi panoramica tutt'intorno e finisce con l'inquadrare al piano di sotto la vecchia signora che intima il silenzio. Lo stile anticonvenzionale e straordinariamente moderno di Dreyer emerge in svariati altri frangenti (dall'abbandono di un automatico e pedissequo sincronismo tra movimenti di macchina e movimenti dei personaggi all'utilizzo del montaggio alternato nel finale, dalla stilizzata bellezza di molte inquadrature – ad esempio l'icastica immagine di Gisèle legata, che ricorda un'altra prigionia, quella di Giovanna d'Arco – all'uso scarno ma inventivo di dialoghi e suoni – contestualmente al quale c'è però anche un importante recupero della parola scritta, non più, o non solo, sotto forma di didascalia, ma, grazie alla trovata del libro sui vampiri, sotto forma di pretesto narrativo), ed è confermato dall'influenza che Il vampiro ha avuto nel corso degli anni su molti grandi cineasti (per fare due soli esempi di citazioni del film dreyeriano, la soggettiva di un personaggio trasportato orizzontalmente è stata utilizzata da Borzage in Addio alle armi, mentre la morte del dottore nel mulino è stata copiata da Peter Weir in Witness). Per il suo fascino impalpabile e arcano ed il grande senso del cinema che trasmette, quello di Dreyer è di gran lunga il miglior film di vampiri mai realizzato, capace di far passare in sott'ordine persino la mediocre recitazione di Julian West, pseudonimo del finanziatore della pellicola, il barone Nicolas de Gunzburg.

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