Joe è un proletario dall'aria sorridente, uscito dalla sua dipendenza all'alcol per riuscire a non disprezzarsi. Joe si dà da fare con un'energia inesauribile, per la scalcagnata squadra di calcio che allena nel quartiere più disgraziato di Glasgow. La vita sembra farsi più dolce quando Joe incontra Sarah, un'assistente sociale appena un pelo sopra di lui nella scala sociale.
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È il tentativo di redenzione quello che Ken Loach mette in scena con "My Name Is Joe": voltare definitivamente pagina all'alcol, divertirsi in modo sano tramite partite amatoriali di calcio, trovare l'amore in Sarah. Ma, come da tradizione nei film di Loach (anche futuri), è impossibile sfuggire ai dati di realtà, alla propria condizione sociale, "ambientale", al milieu culturale: Joe è un disoccupato che vive tramite un sussidio e con alle spalle seri problemi di alcolismo, per di più in un mondo pericolosamente vicino a micro-gang criminali. Sarah è una piccolo borghese, dipendente pubblica progressista: Loach fa incontrare mondi vicini ma distanti e lo fa con il solito sguardo attento alle contraddizioni umane, esistenziali e sociali di un degradato nord del Regno Unito (sceneggiatura, as usual, di Paul Laverty). L'altruismo, il senso di comunità e umanità pongono però Joe nella condizione di dover fare una scelta che rimette in discussione tutto il suo percorso di uscita dal baratro: ne viene fuori un film che oltre a toccare ed esporre i temi classici a Loach trova anche momenti di rara delicatezza (non proprio usuali per il cineasta inglese) e che inevitabilmete, raccontando la realtà, ne racconta anche l'infinita, plurima, inestricabile tragedia.