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La quinta stagione del secondogenito di Kurt Sutter, creatore di quel capolavoro che è "The Shield", per chi ancora non lo conoscesse, si è da poco conclusa. Le premesse non erano delle migliori, se si considera il finale alquanto debole della quarta, in cui si ha la chiara sensazione che si sia trovato un
escomotage di bassa lega per poter portare avanti una storia che sembrava essere giunta al suo climax. Quella sensazione resta in questi ultimi 13 episodi, tuttavia c'è anche dell'altro. C'è che Sutter con la sua solita maestria è riuscito comunque a metter su un'altra parentesi di tutto rispetto, in cui i personaggi evolvono ulteriormente. Ora non starò qui a scrivere di pro e contro, di se e quanto la quinta stagione sia valida, del fatto che siano state ordinate addirittura altre 2 stagioni, ma vorrei più che altro fare un paio di considerazioni su un aspetto che accomuna "The Shield" E "SOA", su un aspetto che si può quindi attribuire in generale allo stile di Kurt Sutter. Mi riferisco, nello specifico, alla capacità di tirar fuori il marcio dai suoi personaggi, o meglio alla capacità di tirarlo fuori dall'inizio ma di farne sentire il tanfo solo più tardi. Nelle varie stagioni di "The Shield" si tifa per Vic, non si discute. E' il protagonista, lo si vuole veder vincere, lo si vuol far sopravvivere, ci si sofferma solo sugli aspetti più umani che lo rendono degno di comprensione, sparsi intelligentemente qua e là all'interno della sceneggiatura. Verso la fine però succede qualcosa, si alza di colpo un'atmosfera maleodorante, Vic resta il bastardo che è, ma sembra quasi che adesso lo spettatore non si limiti più a prenderne atto, ma ad avvertirne il cattivo odore. Ci si rende conto di non parteggiare più per lui, ma di provare per lui la stessa compassione che si prova per un miserabile che si avvicina giustamente alla fossa che si è scavato. Più in generale anche la storia passa dall'essere avvincente e adrenalinica all'assomigliare più ad una tragedia, senza speranza, a tratti opprimente (la scena di Shane,a tal proposito, resta uno dei punti più alti mai raggiunti dal mezzo televisivo). Anche in questo caso lo si sapeva già da prima, ma solo più tardi, quando lo decide Sutter, lo spettatore comincia ad accusare l'aspetto più nero della storia. Questo è l'elemento in assoluto, parere di chi scrive, più riuscito dell'ultima stagione, che è a sua volta, guarda caso, strepitosa.
Nella quarta stagione di "SOA" Sutter fa la stessa cosa. Comincia a tirar giù le maschere, a spogliare i suoi personaggi, a privarli di quel loro apparire, nonostante tutto, ed è il caso di sottolineare “nonostante tutto”, accattivante. Ogni singolo carattere comincia a mostrare i suoi limiti, a far arrivare dall'altra parte una sensazione non più gradevole come prima. Nella quinta stagione Sutter mette in questo senso la quinta, frantuma la superficie sulla quale si muovono i suoi protagonisti, li lascia lì in caduta libera. Anche l'ombra di una qualche salvezza inizia a svanire. E così quell'odore nauseabondo di cui sopra comincia ad avvertirsi chiaramente anche qui, è lo stesso, Sutter sembra adorarlo, e non si può fare a meno di subirne il fascino, perché usato alla perfezione. L'intera stagione è una discesa inesorabile, un crollo continuo di castelli di carta, di volti che non riescono più a guardarsi allo specchio, che si mostrano con una certa difficoltà sapendo che la loro parte più penosa è ormai all'esterno e sotto gli occhi di tutti. Anche gli atteggiamenti in apparenza altruistici non sembrano più tali, sembra che nessuno faccia più niente se non per sé (stupenda la scena di Tig/Jax/Pope nelle ultime puntate). La solitudine la si respira chiaramente, la si respira ovunque, che sia in una stanza vuota o al tavolo circondato dai membri di SAMCRO.
In questo Sutter sembra infallibile. Riesce come pochi a trasformare la consapevolezza in sensazione, riscrivendola e rendendola realmente tale. Arriva un punto durante i suoi racconti in cui sembra si sia riusciti finalmente ad aprire gli occhi e a guardare il vero volto di ciò che si è avuto davanti per varie stagioni, e non più semplicemente a sapere che è lì. Ovviamente, non poteva Sutter perdere l'occasione di chiudere la stagione con un inno a quanto scritto fino a questo momento: si serve di una versione meravigliosa di “
Sympathy for the Devil” dei Jane's Addiction, di un testo che più adatto non poteva essere e mette su una scena conclusiva che, come al solito, difficilmente sarebbe migliorabile.
"
So if you meet me
Have some courtesy
Have some sympathy, and some taste
Use all your well-learned politesse
Or I'll lay your soul to waste"
Generalmente guardando storie di questo tipo capita di fantasticare un po'. Anche con SOA. Moto, fughe, andrenalina. Al termine della quinta no, non più. "
It ain't fun anymore".
Era difficile riprendere da un finale debole come quello della quarta. Sutter c'è riuscito.
Per notizia, “
Homeland” è un prodotto televisivo assai riuscito. E merita tutte le mie scuse. Prima che uscisse, infatti, ero convinto sarebbe stato qualcosa di visto e rivisto attraverso il quale far leva sul patriottismo della parte più dormiente del popolo statunitense, e più in generale su coloro che non vogliono cose troppo diverse tra loro quando guardano un film, piuttosto che una serie, piuttosto che qualsiasi altra opera di fantasia. Mi riferisco a coloro che chiedono unicamente il cattivo di turno, l'eroe di turno, svariate soluzioni non troppo credibili e una serie di altri personaggi messi lì tanto per riempire spazi vuoti nell'inquadratura. Insomma, in due numeri, “
24”. Se ero così prevenuto, sbagliando, è proprio grazie a quest'ultima serie, amata un po' ovunque ma in realtà pessima. Per niente credibile con i suoi milleduecento colpi di scena a puntata, con un protagonista che da solo sventa praticamente qualsiasi minaccia e che in un solo giorno (24 puntate a stagione, ognuna per ogni ora della giornata) fa quello che farebbero 10 persone in una settimana; con personaggi il cui approfondimento psicologico è perfettamente in linea con la superficie della pianura russa; con uno
split-screen che tuttora, a distanza di anni, mi urta cordialmente i nervi; con una marea di altre sciocchezze che non si può star qui ad elencare, perché è di Homeland che si sta scrivendo, quindi torniamo su Homeland. Anche perché, del resto, ne vale assolutamente la pena, essendo l'esatto contrario del prodotto superficialotto di cui sopra. Gideon "Gidi" Raff, creatore della serie, mette in scena un intreccio incredibilmente maturo nonostante il tema ormai fin troppo abusato per racconti di spessore ben più trascurabile: cerca, riuscendoci, di restare sempre sui binari della credibilità, di fare in modo che quanto raccontato possa apparire agli occhi dello spettatore una realtà possibile, facilitando l'immedesimazione dello stesso. Non che rinunci, però, alla spettacolarità, intendiamoci, né ai ritmi più forsennati tipici del thriller, né tanto meno al colpo di scena, usato con maestria e senza cadere nell'eccesso (tranne forse qualcosa, ma al termine di poco conto), pur non sacrificandone l'aspetto più cinematografico. All'intreccio in sé, poi, si affianca ovviamente anche la messa in scena, che non si potrebbe criticare neanche volendo. A partire dalla fotografia, che ricalca perfettamente gli stati d'animo che sfilano sullo schermo, tutti solitari, tormentati e grigi fin quasi al punto di angosciare. Cosa che, peraltro, già fa la sigla d'apertura con quel suo essere un concentrato di fascino e inquietudine.
E' l'introspezione il punto di forza di Homeland. La storia, pur essendo coinvolgente e accattivante, è al suo servizio, mai il contrario. La gamma emozionale dei personaggi è lì sullo schermo, non resta che osservarla e lasciarsi guidare dalla stessa per comprendere i singoli personaggi e provare empatia nei loro confronti. E non solo fotografia e intreccio, anche la regia si adatta per lo più ai tempi richiesti dall'introspezione, tanto che a venirne fuori è un prodotto maledettamente cosciente del suo volto e che infatti non si perde mai per strada. Solido e maturo. Ah, e interpretato meravigliosamente, anche. Chiunque sostenga il contrario farebbe bene a mettersi in un angolo evitando di pronunciarsi su qualsiasi altra questione.
Damian Lewis, che già fece una discreta impressione in “
The Escapist”, è superbo nella parte di Nicholas Brody.
Claire Danes, poi, nel ruolo di Carrie Mathison rischia di far perdere lucidità allo spettatore come accade al suo personaggio, tanto arriva dall'altra parte dello schermo.
A breve terminerà la seconda stagione, che non ha (almeno fino a qualche puntata dalla fine) niente da invidiare alla prima e che anzi tocca picchi davvero notevoli. Credevo potesse essere godibile, ma non così riuscita. Dovreste vederla.
Pubblicato il 27/11/2012 12:54:51 da
Zero00
La tivù non sempre propone prodotti di basso livello, non sempre è la sorellastra del cinema. Spesso, per la tivù, producono prodotti di tutto rispetto, alcune volte capolavori veri e propri. Certe serie lo dimostrano e lo hanno dimostrato e tra queste ce n'è una molto recente e molto famosa, Game of Thrones, conosciuta in Italia con il titolo Trono di spade.
Game of Thrones è un capolavoro fantasy e se n'è parlato molto negli ultimi tempi. Tanto la critica quanto gli spettatori l'hanno premiata, permettendo alla HBO (Oz, The Sopranos, True Blood) di produrne due stagioni e confermarne una terza in uscita nel 2013.
Trasposizione della collana di romanzi fantasy A Game of Thrones, dello scrittore George R. R. Martin, la prima stagione è andata in onda nel 2011 e la seconda nel 2012, entrambe scritte dalla coppia D.B. Weiss e David Benioff. Bisogna dirlo, sono entrambe spettacolari, un groviglio di trame e sottotrame che corrono su binari paralleli e si intersecano per poi allontanarsi e riavvicinarsi subito dopo.
Non è facile seguire gli avvenimenti che sconvolgono i Sette Regni prima che la lunga estate finisca per lasciare il posto al lungo inverno. Sin dal primo episodio della prima stagione facciamo un po' fatica, noi spettatori, a seguire tutti i personaggi, a ricordare i loro nomi e a riconoscere i buoni dai cattivi. Probabilmente perché, tranne qualche caso isolato, buoni e cattivi si confondono, mutano e prendono il posto l'uno dell'altro. L'ambientazione è quella di un Medioevo molto simile al nostro, in cui miti e leggende sono l'eco di un passato lontano sepolto nella neve e oltre il mare. Storie dimenticate o raccontante da vecchie dame di compagnia o spiritati consiglieri ultracentenari. Eppure quei miti e quelle leggende sembrano non essersi dimenticati del sud, del mondo civile, e lo rincorrono celati nell'ombra.
Il fantasy, in Trono di Spade, è un accidente che episodio dopo episodio prende forma divenendo sempre più fondamentale ai fini della storia. E' l'aspetto fantasy a introdurci nella serie, con una sequenza bellissima che mostra i propri debiti nei confronti di tanto cinema horror. Poi viene lasciato dietro le quinte (con qualche breve comparsata) fino al bellissimo finale di prima stagione. Ed è in quel momento che capiamo quale sia la dimensione originaria di una storia che non rinuncia mai a uno pseudo realismo visivo, tra sangue, escrementi e intrighi di corte. Non ci sono solo draghi, giganti e immortali, ma esseri umani che lottano per il potere e per la gloria, animati da vendetta, onore e ambizione. Nella seconda serie l'elemento fantasy è più presente ma mai invasivo, non fa altro che dare al progetto un impronta surreale e ne moltiplica il fascino mitologico.
Un'epopea epica intrisa di ironia e romanticismo, che non lascia nulla all'immaginazione tra corpi nudi e squartati, cavalli decapitati e scene di sesso lesbico tra prostitute. Qualcuno potrebbe trovare delle similitudini con altri prodotti televisivi attuali (Spartacus?) ma Game of Thrones è diverso e quando finisce lascia un vuoto incolmabile nello stomaco. Attori e regia sono sopra la media e in fase di scrittura l'impagabile duo Weiss/Bonioff ha dato spessore ai personaggi rendendoli quasi tutti indimenticabili, nel bene e nel male. Ciò che viene raccontato sono storie di vita in un mondo più vicino al nostro che a quello di Dungeons & Dragon o Il Signore degli Anelli. Lentamente, con il passare degli episodi, il groviglio inesplicabili di nomi e volti si dipana e seguire gli eventi diventa più facile, perché l'obbiettivo finale è il trono di spade e attorno a quest'ultimo si focalizza l'attenzione di tutti, di chi è oltremare e di chi è oltre la Barriera.
La verità è che fa sognare. Sì, fa sognare questa serie che ti prende e ti porta in un altro mondo, ti fa sentire la sporcizia e il rumore delle spade e tu ti ritrovi senza accorgertene in un'altra dimensione, che anche se terribile, ingiusta e violenta, è comunque migliore della solita, vecchia routine. Si può stare dalla parte di una qualunque delle casate invischiate in questo gioco al massacro, con i ricchissimi Lannister, gli onorevoli Stark o i guerrieri Baratheon. Si può ammirare il coraggio di Jon Snow membro dei Guardiani della Notte e esploratore di terre selvagge o l'onore di suo padre, Ned Stark. Si può amare alla follia la bellissima Khalesi dai capelli d'argento, Daenerys Targaryen, diretta discendente al trono del Re Folle e regina dei draghi, o ammirare il possente Khal Drogo, suo marito. E, perché no, è facile perdersi nei lunghi monologhi della fiera Cersei Lannister o tra l'arguto umorismo di suo fratello Tyrion, il folletto (il personaggio più riuscito di tutta la serie), allo stesso modo in cui è facile odiare la crudeltà di Joffrey Baratheon. Più penetri la coltre e più ti ritrovi parte del tutto, sei quasi una delle spie di Varys l'eunuco, fino a sentirne la mancanza quando sei costretto ad andar via.
Tratta da una serie letteraria lunghissima, non deve essere stato facile comprimere in 600 minuti per serie tutto quello che viene raccontato sulla copia cartacea. Forse è questo l'unico, misero difetto: comprimendo si finisce sempre per creare una sorta di caos che però, in questo caso, ben si amalgama con quel che viene raccontato. E tra un colpo di scena e l'altro c'è anche il tempo per ridere e commuoversi.
Forse Game of Thrones è una delle serie più cinematografiche mai prodotte. Ricorda molto l'estetica di un certo tipo di cinema tra il peplum e l'epopea. Non a caso a dirigere il nono episodio della seconda serie troviamo una vecchia conoscenza dei cinefili: Neil Marshall.
Ora, in attesa di vedere cosa succederà con la terza stagione prevista per il 2013, non possiamo far altro che rivedere le prime due e continuare a sognare. Perché sognare fa bene e la televisione, certe volte, aiuta a farlo tanto quanto la letteratura e il cinema.
Pubblicato il 21/11/2012 08:36:24 da
The Gaunt
Una web serie attualmente sta avendo un discreto successo in rete:
Kubrick - Una storia porno, che può essere vista comodamente su youtube sul canale The Jackal. Ovviamente si tratta di un piccolo assaggio di tre parti per un totale di circa quaranta minuti. In poche parole quello che può essere definito un pilot televisivo. Interessante è la modalità di approccio, che salta direttamente le forche caudine di produttori e soprattutto distributori, per proporsi direttamente al pubblico e vedere se un certo prodotto può avere o meno riscontro.
Gli indici di ascolto televisivi possono andare a farsi benedire perchè in questa modalità certamente saranno importanti le visualizzazioni e la capacità degli autori di essere esaustivi nei confronti del pubblico. Il contatto diretto con quest'ultimo, fondamentale, elemento è importante perchè ti pone direttamente ad essere messo di fronte ad eventuali critiche negative, come dall'altro lato a ricevere dei suggerimenti preziosi per il miglioramento del prodotto. Vantaggi che comunque compensano gli svantaggi di operazioni di questo tipo.
Perchè Kubrick? Semplicemente un omaggio ad uno dei più grandi cineasti di sempre, che fra i suoi progetti mai realizzati c'era appunto la realizzazione di un film porno in grande stile, con una troupe professionista del cinema "ufficiale" e con un cast di attori che dovevano eseguire le loro performance sessuali senza l'ausilio di professionisti del settore porno.
Si tratta proprio di questo infatti, il porno. Se ne parla, si pratica, si disquisisce in molteplici dibattiti, ma televisione e cinema finora hanno fatto orecchie da mercante nel nostro belpaese. Kubrick – una storia porno non si propone di sdoganare il genere, infatti qui non c'è nulla di porno (non ancora, almeno) ma affrontare una moltitudine di argomenti attraverso uno sguardo inusuale e certamente poco battuto da fiction e cinema italiano.
La storia è molto semplice: tre giovani autori non riescono a trovare fondi per girare dei cortometraggi di impegno sociale, quando all'improvviso ottengono una risposta positiva dai numerosi curriculum inviati. Solo che una volta giunti dal produttore, scoprono che opera nel mondo del porno e gli offre una sostanziosa somma per girare un corto di cinque minuti in 48 ore.
Prende il via una sarabanda di situazioni comiche godibilissime, tra la scelta della location, i provini per la scelta dell'attore maschile (decisamente facile), i provini per l'attrice femminile (decisamente più difficile), la sceneggiatura che deve stare al passo con i tempi ed evitare clichè.
Il formato di questa serie è molto professionale, strizza l'occhio a
Boris, ed offre un cast di attori sconosciuto ma in grado divertire grazie ad una buona caratterizzazione dei personaggi. Un prodotto a cui non manca una certa brillantezza che tiene il livello delle allusioni e dei doppi sensi al minimo consentito e che pone dei buoni spunti di base per trattare temi, come la sessualità in primis, che non sono certo da cestinare. Personalmente non mi è dispiaciuta affatto e dopo queste tre mini-parti, non manca lo "stimolo" per vedere come va a finire.
"Il mondo del porno sta morendo. E' colpa di un virus: si chiama AMATORIALE!"
Nel 2006
Shane Meadows gira quello che insieme a “
Dead man's shoes” è il suo film più riuscito. “
This is England” è infatti l'espressione più sincera e sentita di una poetica cinematografica che delinea gran parte dei tratti distintivi del nuovo linguaggio filmico britannico, di cui Meadows è uno dei massimi esponenti. Quattro anni più tardi, il regista inglese decide per un'incursione nell'universo televisivo, che fortunatamente sta attirando a sé molti registi fino ad ora “confinati” al grande schermo; le virgolette sono d'obbligo ed è anzi necessario precisare: il pensiero di chi scrive è ben lontano dal considerare il cinema riduttivo o addirittura inferiore allo strumento televisivo; è al tempo stesso, tuttavia, particolarmente propenso ad elogiare le potenzialità insite nei prodotti seriali, ancora troppo etichettati come meno significativi, più semplicistici e non in grado di toccare le stesse vette raggiunte e raggiungibili da una classica pellicola cinematografica. Un'etichetta che definire fuori fuoco sarebbe riduttivo. Di esempi se ne potrebbero fare parecchi, ma non è il caso di andare troppo oltre considerando che proprio Meadows ha confermato appena un anno fa l'erroneità della classificazione di cui si sta scrivendo. Nel 2010, infatti, scrive e dirige per la televisione una miniserie in quattro puntate, riprendendo proprio "This is England", capolavoro che non tutti rischierebbero di rovinare ritoccandolo, peraltro non semplicemente con un classico sequel, ma addirittura optando per un diverso registro linguistico. Lui invece pensa bene di provarci e tira fuori una miniserie che non ha assolutamente nulla da invidiare alla quasi omonima pellicola. Potente quanto quest'ultima, “
This is England '86” è senza mezzi termini meravigliosa.
Le basta davvero poco per riportare alla mente e al cuore dello spettatore la parte più emozionale della pellicola; quell'anima viscerale e viva che la rende così riuscita, così credibile e così vera. Un'inquadratura, una frase, un accento, come anche una canzone, una luce o un'espressione; si ritorna all'interno di un'atmosfera, pur essendone usciti ben quattro anni prima, senza sforzo alcuno, anzi meravigliandosi del fatto di esserci riusciti in un lasso di tempo così ristretto: Combo e Shaun in macchina, immersi in quella luce tutta inglese che il cinema di Meadows sembra afferrare con assoluta facilità; appena qualche scambio e “This is England” sembra non essersi mai concluso.
Del resto è quanto accade anche col recente “
This is England '88”, altra miniserie in tre puntate andata in onda lo scorso anno in Inghilterra – presentata anche come seconda stagione della miniserie precedente.
Si apre con tre parentesi senza particolari cornici cinematografiche, una per ognuno dei tre personaggi più significativi: Lol, Woods e Shaun (con Smell). Il vocabolario e l'accento sono già sufficienti a riaprire le porte di un'atmosfera assai familiare; immediatamente dopo parte “
What Difference Does It Make?” dei The Smiths, sulle parole di Margaret Thatcher che annuncia di avere la cura per quel “British Disease” che aveva messo in ginocchio la Gran Bretagna. È la prima di una veloce sequenza di istantanee che delineano gli anni '80 sulle note di una canzone suonata da un gruppo creatosi e scioltosi proprio in quegli anni. Le porte a questo punto più che aperte sono spalancate, diciamo anche scardinate, e ancora una volta ci si ritrova senza quasi accorgersene proprio lì dove Meadows intende portarci.
Niente di nuovo, comunque. Il regista inglese ci tiene particolarmente ad immergere le sue storie in un contesto socio-temporale riconoscibile al fine di dare spessore e credibilità a quanto raccontato. È uno degli aspetti in assoluto più riusciti di “This is England”. La scelta delle brevi sequenze in successione veloce è infatti quanto mai completa. Si passa dalle manifestazioni alla politica, dalla fame nel mondo alla presa di potere di futuri dittatori, dallo sport alla televisione, dai disastri alla vita quotidiana, dalle stragi all'euforia; non si potrebbe, al termine, restare fuori da quegli anni neanche volendo.
Anni di cambiamenti, quindi, che in gran Bretagna si portavano dietro gli strascichi di una crisi che aveva costretto la gente a scendere in piazza, a ricalcolare il proprio futuro come il proprio benessere. Un disagio che si riflette con forza anche in personaggi che ormai si è imparato a conoscere e che Meadows si preoccupa, come si diceva, di tenere ben incollati al contesto. La sequenza d'apertura è già per quel disagio, inquadrato sul volto di Lol, alle prese con i fantasmi di quanto accaduto al termine di “This Is England '86”. I giorni delle bravate, della vita sregolata, delle risse e delle stronzate sono finiti. Lol si sveglia alle 6.07 perché chiamata dalla figlia, Woods alle 7.30 per andare in ufficio, Shaun altrettanto presto per andare al college. Questa volta la miniserie sembra un racconto di formazione tardiva e resa difficile da un malessere o un'insoddisfazione quanto mai presenti. Il distacco dei tre protagonisti, non a caso, dalla vita in cui li abbiamo conosciuti non è solo emotivo ma anche concreto; non li si vede mai con il resto del gruppo, bensì da soli e diretti verso un cambiamento testardamente voluto ma non sentito (Woody), oppure imposto (Lol) o, ancora, né sentito né cercato ma neanche rifiutato (Shaun).
Il cambio di registro lo si avverte chiaramente. La spensieratezza che nonostante tutto si avvertiva in precedenza, questa volta non la si avverte più. I toni, al contrario, si incupiscono notevolmente, tanto che il grigiore britannico diviene anche più grigio. A smorzarli, solo quell'ironia che fortunatamente non viene mai meno. Meadows vuole descrivere l'incertezza ed il disagio non solo come fantasmi ma come presenze reali ed ingombranti; dà loro il volto di Mike, che pur essendo frutto dell'immaginazione di Lol non va via dall'inquadratura quando Lol esce fuori dalla stessa; la telecamera, anzi, resta ferma su di lui, facendo passare un'inquietudine difficile da ignorare.
È proprio la differenza sostanziale nelle atmosfere e nello spirito a rischiare di provocare nello spettatore un'apparente insoddisfazione. 'Apparente' perché in realtà una volta metabolizzata la serie appare assai coerente nel suo trascinare i protagonisti in un passaggio evolutivo fondamentale, che diviene chiaro in una delle frasi più significative pronunciate da Woody nel finale. Al termine, nel bene o nel male, i caratteri appaiono più consapevoli delle loro scelte, più consapevoli di se stessi; sembrano aver accettato i loro trascorsi ed essersi riappacificati con un presente che non non solo non stavano vivendo, ma che stavano addirittura rifiutando nascosti dietro chissà quali aspettative o delusioni.
Il metabolismo rende inoltre evidente quanto bene si adatti lo stile registico di Meadows al volto in parte nuovo di questo ennesimo capitolo. Il malessere e il senso di incompiutezza vengono descritti in maniera perfetta da quel suo sguardo tipicamente viscerale, diretto e potente; asciutto ma senza intenzione alcuna di rinunciare all'uso sistematico delle musiche come di quella fotografia ricercata ma mai eccessiva.
Del “This is England” che conosciamo a questa miniserie non manca nulla, quindi, se non una durata maggiore. Si ha infatti la sensazione che il tutto duri davvero poco e che con qualche altro episodio il risultato sarebbe stato ancor più convincente e a quel punto inattaccabile. Non è un caso che la risoluzione possa apparire per certi versi sbrigativa o comunque compattata fino a rientrare nel minutaggio, e probabilmente lo è; ciononostante la riuscita dello stesso non viene compromessa in nessun modo, grazie e all'aspetto ironico – affidato ad un personaggio, Woody, meravigliosamente a metà tra il credibile e il farsesco - che pochi sanno mischiare al dramma come sa fare Meadows, e ai sempre ottimi dialoghi e, più in generale, alla gestione registico-narrativa che rende Meadows il cineasta che è.
Tra qualche mese dovrebbero iniziare le riprese di “This is England '90”. Il 2013 ha già un punto a suo favore.