Nel 2006
Shane Meadows gira quello che insieme a “
Dead man's shoes” è il suo film più riuscito. “
This is England” è infatti l'espressione più sincera e sentita di una poetica cinematografica che delinea gran parte dei tratti distintivi del nuovo linguaggio filmico britannico, di cui Meadows è uno dei massimi esponenti. Quattro anni più tardi, il regista inglese decide per un'incursione nell'universo televisivo, che fortunatamente sta attirando a sé molti registi fino ad ora “confinati” al grande schermo; le virgolette sono d'obbligo ed è anzi necessario precisare: il pensiero di chi scrive è ben lontano dal considerare il cinema riduttivo o addirittura inferiore allo strumento televisivo; è al tempo stesso, tuttavia, particolarmente propenso ad elogiare le potenzialità insite nei prodotti seriali, ancora troppo etichettati come meno significativi, più semplicistici e non in grado di toccare le stesse vette raggiunte e raggiungibili da una classica pellicola cinematografica. Un'etichetta che definire fuori fuoco sarebbe riduttivo. Di esempi se ne potrebbero fare parecchi, ma non è il caso di andare troppo oltre considerando che proprio Meadows ha confermato appena un anno fa l'erroneità della classificazione di cui si sta scrivendo. Nel 2010, infatti, scrive e dirige per la televisione una miniserie in quattro puntate, riprendendo proprio "This is England", capolavoro che non tutti rischierebbero di rovinare ritoccandolo, peraltro non semplicemente con un classico sequel, ma addirittura optando per un diverso registro linguistico. Lui invece pensa bene di provarci e tira fuori una miniserie che non ha assolutamente nulla da invidiare alla quasi omonima pellicola. Potente quanto quest'ultima, “
This is England '86” è senza mezzi termini meravigliosa.
Le basta davvero poco per riportare alla mente e al cuore dello spettatore la parte più emozionale della pellicola; quell'anima viscerale e viva che la rende così riuscita, così credibile e così vera. Un'inquadratura, una frase, un accento, come anche una canzone, una luce o un'espressione; si ritorna all'interno di un'atmosfera, pur essendone usciti ben quattro anni prima, senza sforzo alcuno, anzi meravigliandosi del fatto di esserci riusciti in un lasso di tempo così ristretto: Combo e Shaun in macchina, immersi in quella luce tutta inglese che il cinema di Meadows sembra afferrare con assoluta facilità; appena qualche scambio e “This is England” sembra non essersi mai concluso.
Del resto è quanto accade anche col recente “
This is England '88”, altra miniserie in tre puntate andata in onda lo scorso anno in Inghilterra – presentata anche come seconda stagione della miniserie precedente.
Si apre con tre parentesi senza particolari cornici cinematografiche, una per ognuno dei tre personaggi più significativi: Lol, Woods e Shaun (con Smell). Il vocabolario e l'accento sono già sufficienti a riaprire le porte di un'atmosfera assai familiare; immediatamente dopo parte “
What Difference Does It Make?” dei The Smiths, sulle parole di Margaret Thatcher che annuncia di avere la cura per quel “British Disease” che aveva messo in ginocchio la Gran Bretagna. È la prima di una veloce sequenza di istantanee che delineano gli anni '80 sulle note di una canzone suonata da un gruppo creatosi e scioltosi proprio in quegli anni. Le porte a questo punto più che aperte sono spalancate, diciamo anche scardinate, e ancora una volta ci si ritrova senza quasi accorgersene proprio lì dove Meadows intende portarci.
Niente di nuovo, comunque. Il regista inglese ci tiene particolarmente ad immergere le sue storie in un contesto socio-temporale riconoscibile al fine di dare spessore e credibilità a quanto raccontato. È uno degli aspetti in assoluto più riusciti di “This is England”. La scelta delle brevi sequenze in successione veloce è infatti quanto mai completa. Si passa dalle manifestazioni alla politica, dalla fame nel mondo alla presa di potere di futuri dittatori, dallo sport alla televisione, dai disastri alla vita quotidiana, dalle stragi all'euforia; non si potrebbe, al termine, restare fuori da quegli anni neanche volendo.
Anni di cambiamenti, quindi, che in gran Bretagna si portavano dietro gli strascichi di una crisi che aveva costretto la gente a scendere in piazza, a ricalcolare il proprio futuro come il proprio benessere. Un disagio che si riflette con forza anche in personaggi che ormai si è imparato a conoscere e che Meadows si preoccupa, come si diceva, di tenere ben incollati al contesto. La sequenza d'apertura è già per quel disagio, inquadrato sul volto di Lol, alle prese con i fantasmi di quanto accaduto al termine di “This Is England '86”. I giorni delle bravate, della vita sregolata, delle risse e delle stronzate sono finiti. Lol si sveglia alle 6.07 perché chiamata dalla figlia, Woods alle 7.30 per andare in ufficio, Shaun altrettanto presto per andare al college. Questa volta la miniserie sembra un racconto di formazione tardiva e resa difficile da un malessere o un'insoddisfazione quanto mai presenti. Il distacco dei tre protagonisti, non a caso, dalla vita in cui li abbiamo conosciuti non è solo emotivo ma anche concreto; non li si vede mai con il resto del gruppo, bensì da soli e diretti verso un cambiamento testardamente voluto ma non sentito (Woody), oppure imposto (Lol) o, ancora, né sentito né cercato ma neanche rifiutato (Shaun).
Il cambio di registro lo si avverte chiaramente. La spensieratezza che nonostante tutto si avvertiva in precedenza, questa volta non la si avverte più. I toni, al contrario, si incupiscono notevolmente, tanto che il grigiore britannico diviene anche più grigio. A smorzarli, solo quell'ironia che fortunatamente non viene mai meno. Meadows vuole descrivere l'incertezza ed il disagio non solo come fantasmi ma come presenze reali ed ingombranti; dà loro il volto di Mike, che pur essendo frutto dell'immaginazione di Lol non va via dall'inquadratura quando Lol esce fuori dalla stessa; la telecamera, anzi, resta ferma su di lui, facendo passare un'inquietudine difficile da ignorare.
È proprio la differenza sostanziale nelle atmosfere e nello spirito a rischiare di provocare nello spettatore un'apparente insoddisfazione. 'Apparente' perché in realtà una volta metabolizzata la serie appare assai coerente nel suo trascinare i protagonisti in un passaggio evolutivo fondamentale, che diviene chiaro in una delle frasi più significative pronunciate da Woody nel finale. Al termine, nel bene o nel male, i caratteri appaiono più consapevoli delle loro scelte, più consapevoli di se stessi; sembrano aver accettato i loro trascorsi ed essersi riappacificati con un presente che non non solo non stavano vivendo, ma che stavano addirittura rifiutando nascosti dietro chissà quali aspettative o delusioni.
Il metabolismo rende inoltre evidente quanto bene si adatti lo stile registico di Meadows al volto in parte nuovo di questo ennesimo capitolo. Il malessere e il senso di incompiutezza vengono descritti in maniera perfetta da quel suo sguardo tipicamente viscerale, diretto e potente; asciutto ma senza intenzione alcuna di rinunciare all'uso sistematico delle musiche come di quella fotografia ricercata ma mai eccessiva.
Del “This is England” che conosciamo a questa miniserie non manca nulla, quindi, se non una durata maggiore. Si ha infatti la sensazione che il tutto duri davvero poco e che con qualche altro episodio il risultato sarebbe stato ancor più convincente e a quel punto inattaccabile. Non è un caso che la risoluzione possa apparire per certi versi sbrigativa o comunque compattata fino a rientrare nel minutaggio, e probabilmente lo è; ciononostante la riuscita dello stesso non viene compromessa in nessun modo, grazie e all'aspetto ironico – affidato ad un personaggio, Woody, meravigliosamente a metà tra il credibile e il farsesco - che pochi sanno mischiare al dramma come sa fare Meadows, e ai sempre ottimi dialoghi e, più in generale, alla gestione registico-narrativa che rende Meadows il cineasta che è.
Tra qualche mese dovrebbero iniziare le riprese di “This is England '90”. Il 2013 ha già un punto a suo favore.