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Pubblicato il 06/11/2012 16:00:41 da
peucezia
Allampanato, dall'espressione a metà tra il preoccupato e il malinconico,
Valerio Mastandrea, attore romano della generazione dei quarantenni (e quaranta sono i suoi anni giusto nel 2012), si contraddistingue sin dalla sua apparizione sul grande schermo nell'ormai lontano 1994 per interpretazioni di giovane sfigato, magari simpatico ma sempre poco fortunato.
Gli tocca in sorte filmica una famiglia sui generis e lui, che pure non è il massimo della stabilità, si deve fare in quattro per tenere in piedi la baracca e, poiché la fortuna arride agli audaci, ci riesce quasi sempre!
Se la fidanzata di turno lo ha mollato per un giovane belloccio magari di colore, perché comunque è una progressista, alla fine lui, grazie alla sua espressione mogia, si ritrova nuovamente insieme alla sua bella, quasi a sottolineare quello stellone italico che aiuta chi risica.
Gli anni passano in fretta e da giovane precario o studente o fidanzato incerto Mastandrea, dopo una parentesi in costume alle prese con Napoleone in esilio, è un uomo in crisi, magari docente che non ci crede più, con madre terminale o, ancora, separato con moglie crudelissima che non esita a buttarlo sul lastrico, o serio lavoratore che fatica a tirar su due figli in sostituzione di moglie persa nelle sue cogitazioni. E sempre tocca a lui rimediare ai guai che hanno combinato gli altri pure se lui non se la passa mai troppo bene. E non a caso in teatro è stato un perfetto Rugantino, giovane sbruffone, nullafacente che però si autoaccusa di un delitto mai commesso solo per amore... che romanticone!
Povero Valerio, eroe dei nostri giorni, simbolo di chi arranca ma pure va avanti e riesce a stento a ingranare. Se un giorno lo ritroveremo in un ruolo di uomo ricco, felice e perfetto forse sarà finita anche la sempiterna crisi che attanaglia il povero Stivale italico?
“
Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore” cantava negli anni ’70 Francesco De Gregori.
Un timore che da sempre attanaglia i nostri produttori e registi, i quali, rarissimi casi a parte, quando c’è da andare in campo, non sono mai riusciti a cogliere la vera essenza dello sport nazionale, ovvero il calcio.
Il primo dimenticabile tentativo risale alla fine degli anni ’40 con il misconosciuto “Undici uomini e un pallone”, cui fanno seguito una decade dopo "
Gambe d'oro" (con special guest il mitico
Totò) e “Gli eroi della domenica”, passato non proprio in sordina per la presenza del plurivittorioso c.t. della nazionale Vittorio Pozzo e alcuni giocatori del Milan.
Nel 1970 l’indimenticato
Alberto Sordi è protagonista de "
Il presidente del Borgoroso Footbal Club", pellicola sopravvalutata e forse acclamata più per la fame nazionalpopolare di pellicole sull’argomento.
Risale agli anni ’80 una dei migliori film mai realizzati da queste parti,
Pupi Avati coadiuvato da un grande
Ugo Tognazzi fa centro con "
Ultimo minuto", malinconico ritratto di un presidente che si sporca le mani e si rovina la vita per ottenere il successo.
Da quel momento qualcuno comincia a pensare che non sarebbe male buttarla in farsa, ed ecco allora apparire sugli schermi "
L'arbitro" con
Lando Buzzanca, buon successo di pubblico e discreto di critica.
La massa viene così attratta da filmetti comici senza troppe pretese, in cui la demitizzazione del sacro rito domenicale diventa fenomeno di costume per raccontare di allenatori, calciatori e dirigenti con storie spesso al limite della demenzialità.
Precursori del genere due esperti della parodia, ovvero
Franco Franchi e
Ciccio Ingrassia con "
I due maghi del pallone".
Assurge a vero cult della categoria "
L'allenatore nel pallone" con
Lino Banfi, cui aveva fatto da apripista un paio di anni prima l’altrettanto celebre "
Eccezzziunale...veramente" con
Diego Abatantuono, entrambi oggetto negli anni 2000 di seguiti francamente penosi.
E’ soprattutto negli anni ’80 che pallone di cuoio e risate grossolane vanno a braccetto: "
Paulo Roberto Cotechino-Centravanti di sfondamento", "
Mezzo destro, mezzo sinistro: due calciatori senza pallone" e "
Il tifoso, l'arbitro e il calciatore" ,sono solo i più famosi esempi di pellicole in cui la cornice sportiva è spesso solo pretesto per metter sul piatto battute grevi e torridi nudi delle starlette di turno.
Dopo Avati qualche tentativo di unire la denuncia sociale e pratica sportiva si è intravisto nuovamente sul finire degli anni ’80, con risultati però dimenticabili.
Impossibile non citare lo scult con
Nino D'Angelo avverso alla camorra ne "
Quel ragazzo della curva B".
Non mancano le peripezie dei supporter ad offrire parecchio materiale, "
Ultrà" resta l’esempio più interessante, mentre "
Tifosi" si ricollega al filone demenziale.
Negli ultimi anni il calcio sul grande schermo ha seguito il decadentismo cui il cinema popolare è stato soggetto, con filmacci di incredibile pochezza tipo "
Piede di Dio", "
4-4-2 Il gioco più bello del mondo", "
Ultimo stadio" o "
Tutti all'attacco", pellicole in alcuni casi dirette da registi poco conosciuti e con cast formati da gente che sguazza nel mondo del cinema e della tv senza aver mai mostrato alcun talento.
Singolare notare come la cinematografia italica non abbia mai saputo generare un vero e proprio capolavoro su un argomento vissuto così visceralmente da moltissimi, oggetto di infiniti dibattiti e da sempre in grado di affascinare qualsiasi ceto sociale.
Infine menzione a parte merita "
L'uomo in più" di
Sorrentino con il sempre maiuscolo
Toni Servillo, che pur non polarizzandosi esclusivamente sugli aspetti agonistici riesce per la prima volta a raccontare le dinamiche più spietate di un mondo fino ad allora trattato con poco coraggio e obiettività.
Pubblicato il 01/11/2012 14:07:12 da
L.P.Creare con 300.000 dollari un'icona che sopravvive ancora oggi, che ancora oggi fa paura, che ancora oggi porta la gente al cinema e spinge i produttori a investirci i soldi sopra. Su una maschera. Bianca. Inespressiva. Su una delle forme più pure e astratte del terrore. Michael Myers, The Boogeyman, o L'Ombra della Strega, come venne soprannominato nel doppiaggio italiano, con una scelta una volta tanto non del tutto infelice, se non altro per il suono sinistro che hanno quelle parole. L'Ombra della Strega. Alla tua finestra. E' abbastanza spaventoso, vero?
Il piccolo Myers nel primo e unico film della saga diretto da John Carpenter
Quando
Carpenter si presentò dal produttore Moustapha Akkad con il copione di "The Babysitter Murders" aveva 29 anni. Akkad lo stette a sentire solo perché il giovane regista gli promise che avrebbe girato il film in pochissimo tempo e con un budget ridottissimo. Akkad chiese a Carpenter di cosa parlasse la sua sceneggiatura. E Carpenter, sintetico come sempre, rispose: "Babysitter ammazzate dall'Uomo Nero". Tutto qui. La trama di
Halloween, lo sappiamo tutti, è esile, scheletrica, quasi inesistente. Ci sono le vittime, c'è il killer che prima le pedina e poi inizia a farle fuori una a una. C'è un ragazzino che è cresciuto in un manicomio e che proprio durante la notte delle streghe evade per tornare a casa. E c'è un'adolescente timida e un po' imbranata che con lui si confronta e riesce a sconfiggerlo.
Non era il primo slasher della storia del cinema. Non sarebbe stato l'ultimo. Ma, a differenza dei suoi progenitori, i vari
Black Christmas e
L'allucinante notte di una baby sitter, sposta l'attenzione sull'assassino, sul mostro, e lo trasforma in mito. Halloween è sì
Jamie Lee Curtis nascosta nell'armadio, ma è più di tutto l'incedere lento e inesorabile di Michael, la sua totale mancanza di empatia, il modo in cui continua ad alzarsi ogni volta che viene colpito, un vuoto riempito solo dall'istinto omicida. La maschera più di ogni altra cosa, il volto di William Shatner che diventa un archetipo del Male quello con la emme maiuscola. Perché, anche questo lo sappiamo tutti, Michael non è umano.
Da quell'ottobre 1978, da quel primo, seminale film che in fondo parlava solo di babysitter ammazzate dall'Uomo Nero, la saga di Halloween ha generato sette seguiti, un remake e un sequel del remake. E si sta parlando da qualche anno di ricominciare da capo usando il noto trappolone per gonzi del 3d, che ha già colpito un illustre collega omicida. Halloween che, ripetiamo, costò appena 300.000 dollari, ne incassò sessanta milioni. E regalò a tutti gli appassionati dell'orrore un nuovo eroe, alle cui gesta assistere nei secoli dei secoli e amen. Dato il successo interplanetario del primo film, i produttori decisero di mettere in cantiere il prima possibile un seguito. Dietro
Halloween II: il signore della morte, ci sono ancora Carpenter e Debra Hill, ma entrambi coinvolti nel progetto senza entusiasmo. Carpenter era impegnato altrove e decise di non stare dietro la macchina da presa e di limitarsi alla sceneggiatura. Alla regia venne chiamato
Rick Rosenthal. La produzione, per obbligare Carpenter e la Hill a prender parte all'operazione, minacciò addirittura di agire per vie legali contro di loro, bloccando le riprese di
The fog. Il copione scritto da Carpenter venne rimaneggiato e, a film ormai uscito, il commento secco del regista fu: "Non vale la pena di andarlo a vedere".
Michael Myers in Halloween II
In realtà, Halloween II non è così brutto come le premesse potrebbero far pensare. Per tutta una serie di motivi, magari anche involontari, riesce ad approfondire il personaggio di Michael pur non spogliandolo della sua identità di astrazione maligna. Forse il modo in cui il dottor Loomis (nemesi dell'assassino mascherato) collega la furia omicida di Michael allo Samhain, è un po' troppo spiegata e data in pasto allo spettatore neanche fosse una didascalia. Ma il riferimento ai riti druidici è comunque suggestivo, come anche l'attribuire a Michael la qualifica di mostro dell'inconscio e quindi quasi incorporeo, un fantasma che emerge dal buio e che è sempre più identificabile con la paura stessa. Anche la scelta della location (l'ospedale in cui viene ricoverata Laurie) è interessante e permette a Rosenthal di sbizzarrirsi in sequenze di omicidi estremamente violente, quasi del tutto assenti nel capostipite. Il tasso di gore aumenta in maniera esponenziale, iniziando un percorso che nei vari seguiti sarebbe diventato irreversibile. Halloween II tuttavia riesce a mantenere almeno parte dell'eleganza del suo predecessore ed è ancora un ottimo prodotto di intrattenimento.
Con Michael Myers e il dottor Loomis bruciati entrambi nel fuoco purificatore del finale, era difficile pensare di poter metter mano a un nuovo seguito. E invece, i produttori erano seriamente intenzionati a continuare la saga. Carpenter, che aveva ben altro a cui pensare, propose di realizzare un film ambientato ad Halloween, senza il personaggio di Michael, dato per morto e sepolto, e destinato a diventare una specie di contenitore di ossessioni e paure legate alla notte delle streghe. L'idea iniziale è attribuita a
Joe Dante, mentre a scrivere il copione venne chiamato Nigel Kneale, autore del Quatermass televisivo.
Purtroppo, la sceneggiatura di Kneale non venne mai messa in immagini. Giudicata troppo costosa e quasi impossibile da realizzare, subì tutta una serie di tagli che portarono lo scrittore a ritirare il suo nome dai titoli. I credits ufficiali infatti danno come unico autore il regista
Tommy Lee Wallace.
Halloween III: il signore della notte è forse l'unico caso, all'interno del contesto seriale del cinema horror, di sequel totalmente spurio che tenta di svincolarsi dall'ombra ingombrante della maschera di Michael per dare vita a un nuovo progetto cinematografico. Non solo uno slasher con assassino armato di coltello che insegue fanciulle sempre più disinibite e discinte, ma un horror soprannaturale che parli di Halloween e che ne diventi, in un certo senso, il simbolo. Purtroppo, alle premesse non corrispondono i risultati. Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe uscito fuori se il film fosse stato diretto da Dante (purtroppo impegnato sul set di
Ai confini della realtà) e scritto da Kneale. Ma ci è toccato Tommy Lee Wallace e ce lo dobbiamo tenere, insieme alla bizzarra storia della fabbrica di maschere maledette e del loro malefico creatore.
Non tutto è da buttare: il finale splatter e per niente consolatorio, l'eliminazione del nuovo cattivo che impedisce a prescindere che il film si trasformi in un'ennesima saga, il ruolo della maschera, solo abbozzato nei due film precedenti che qui diventa preponderante. Nonostante un successo al botteghino più che discreto, era evidente che il pubblico non voleva una nuova serie di film ispirati alla festa di Halloween. Il pubblico voleva Michael Myers. E così Akkad pensò bene di resuscitarlo, a ben sei anni di distanza dal terzo capitolo, con
Halloween 4: il ritorno di Michael Myers.
La fabbrica delle maschere in Halloween 3
Halloween IV viene fatto uscire in occasione del decennale del capostipite. L'unica traccia che rimane di Carpenter è il tema musicale portante del film, anche se leggermente modificato rispetto a quello originale. Per il resto, il Maestro non appare neanche più nei titoli, né in produzione né in sceneggiatura. Più che un seguito vero e proprio, il quarto Halloween potrebbe essere un reboot, solo che all'epoca certe brutte parole non le usavano e avevano il buon gusto di non nascondersi dietro a eufemismi per mascherare bieche operazioni commerciali. A dirigere il baraccone di Ognissanti chiamano il regista di servizio
Dwight H. Little che se non altro dimostra di avere un certo gusto nel plagiare movimenti di macchina e inquadrature carpenteriane.
Esordisce
Danielle Harris, ed è forse uno dei pochi motivi validi per vedere questo film. Insieme a uno dei finali più agghiaccianti e perfidi mai concepiti. Due minuti conclusivi in cui il Male trionfa senza lasciare nessuna possibilità di salvezza, in cui un redivivo dottor Loomis, sconfitto in maniera definitiva, non può che contemplare attonito il fallimento di tutta la sua esistenza. La saga avrebbe anche potuto concludersi lì, e sarebbe stato un degno epitaffio su quella incarnazione di pura malvagità fine a se stessa che è la figura di Michael Myers. Con la piccola Jamie, vestita con lo stesso costume che indossava Michael la notte in cui uccise sua sorella, che impugna inespressiva il coltello, si poteva addirittura ipotizzare una rigenerazione del mito dei Myers da un punto di vista femminile (ipotesi anche sfiorata da Rob Zombie nello sciaguratissimo Halloween II del 2009). E invece no. Si mette subito in cantiere un
quinto capitolo, lo si mette in mano a un tizio dal nome esotico,
Dominique Othenin-Girard, si fa guarire Jamie dalla psicosi e si realizza un film che ha dalla sua un'atmosfera ossessiva e soffocante, basato quasi tutto su una persecuzione atroce ai danni di una bambina. La regia di Girard è confusa, ma con dei picchi di creatività fiabesca che evidenziano la morbosità del rapporto vittima/carnefice tra i due personaggi principali.
Le dinamiche tra Michael e Jamie sono forse la cosa più interessante di questo prodotto che per il resto assomiglia a un pessimo seguito di un Venerdì XIII qualunque. Halloween è entrato ormai a far parte della grande famiglia degli slasher anonimi, in cui il body count diventa sempre più elevato e si è solo curiosi di assistere alle dinamiche anatomiche del prossimo omicidio. Lo stesso Michael, con forse il look peggiore di tutta la serie, sembra una marionetta. Cammina un po' claudicante e dinoccolato, una specie di bamboccio tonto che non ha nulla del sinistro carisma che il personaggio aveva in quella ormai lontana notte dell'ottobre 1978.
Sul
sesto capitolo, in cui si va a riesumare il personaggio di Tommy Doyle, si parla di sette, conoscenza druidiche per mettere fuori combattimento Myers appellandosi a energie positive, e altre cose che non sono degne neanche di essere guardate di sbieco tra un cruciverba e l'altro, è meglio stendere una pietosa lapide di marmo e passare oltre.
Nel 1996 un uragano si abbatte sul cinema dell'orrore. Questo uragano si chiama
Scream. A prescindere dal giudizio critico sul film in questione, è evidente che l'opera di
Craven abbia lasciato strascichi (positivi e negativi) a lungo termine. Anche Halloween, che è una delle fonti primarie di ispirazione per Kevin Williamson, sceneggiatore di Scream, viene coinvolto dalla mania citazionista e dal nuovo teen movie. Con l'anniversario dei vent'anni alle porte, ad Akkad viene in mente di richiamare Jamie Lee Curtis a ricoprire il ruolo di Laurie Strode, adesso trasferitasi in California, insegnante in una scuola privata e madre iperprotettiva di un figlio adolescente.
Unico capitolo ambientato fuori da Haddonfield,
Halloween H2O, tenta di portare la saga di Michael Myers all'interno di un contesto più moderno, rilanciando la figura appassita di Michael Myers grazie alla presenza della sua prima, storica antagonista. Discendente diretto della Scream generation, Halloween H20 è un prodotto che autocelebra se stesso in maniera spudorata e, privo com'è di qualunque ambizione, risulta anche divertente e godibile. Il fatto che in cabina di regia ci sia un vecchio mestierante come
Steve Miner, rende l'operazione molto valida da un punto di vista professionale. Lo svecchiamento introdotto dalla sceneggiatura è evidente soprattutto nel personaggio di Laurie: quasi alcolizzata, sessualmente disinibita e dipendente da psicofarmaci, resta comunque l'eroina, il punto di riferimento, e il personaggio positivo per eccellenza del film.
Jamie Lee Curtis ancora una volta in Halloween H2O
Con Michael decapitato dalla sorella Laurie, sembrava davvero che fosse finita. Ma Halloween H20 viene premiato al botteghino, incassando più del previsto e alla Dimension film non si fanno sfuggire l'occasione di continuare a lucrare sui moribondi. Arriva quindi
Halloween: la resurrezione, in cui ritroviamo Jamie Lee Curtis chiusa in un manicomio criminale. L'espediente con cui Myers viene fatto tornare in vita fa ridere polli, galline e pennuti di ogni specie. Ma se non altro ci godiamo l'addio definito alla serie di sua maestà Jamie Lee, uccisa da Michael nei minuti iniziali del film. A quel punto, Halloween - La resurrezione si trasforma in un reality per gonzi, affossato ancora di più dalla presenza di
Busta Rhymes nel ruolo del cinico produttore di un programma televisivo. Tedio, tedio e ancora tedio.
La saga ufficiale finisce qui, con un episodio imbarazzante che è stato rimosso dalle coscienze di chi ci è inciampato sopra per sbaglio, ché solo per sbaglio si può assistere a un tale cumulo di merda. Oppure, se lo si fa consapevolmente, bisogna esser scemi come me. Passano cinque anni (La Resurrezione è del 2002) e, mentre impazza a Hollywood la mania del remake di film horror del passato, il signor
Rob Zombie viene rapito nottetempo dai Weinstein, preso a randellate forti sulla testa, narcotizzato e poi costretto con la forza a girare un rifacimento del primo, glorioso, epico
Halloween. Cosa ci azzecchi Rob Zombie con John Carpenter lo sanno solo i Weinstein. Quella che poteva sembrare una scelta coraggiosa e fuori dagli schemi, ovvero affidare un remake così difficile a un autore con un taglio estremamente personale e diametralmente opposto a quello del Maestro, si rivela invece una devastante arma a doppio taglio. Non per i Weinstein che cadono sempre in piedi. Per il povero Rob Zombie, che gira mezzo film alla sua maniera (prima parte ottima) e l'altra metà in uno stralunato scimmiottamento di Carpenter ma sotto anfetamine, in cui tutti corrono, urlano e dicono parolacce.
L'ultimo Halloween targato Rob Zombie
Non paghi di ciò, i Weinstein acchiappano uno Zombie in delirio di onnipotenza, e sotto minaccia di esser sodomizzato da un cavallo bianco, portato alla briglia da
Sheri Moon, lo costringono a girare il
sequel, ove il terribile incubo equino si incarna nelle visioni di un Michael Myers ormai partito per la tangente che si sogna la mamma vestita come un elfo mentre fa la pubblicità al bagno schiuma Vidal. Il tutto mentre il gore diventa così esasperato da sortire l'effetto di un grottesco carnevale, Laurie Strode bestemmia e come uno scaricatore di porto, Danielle Harris viene macellata ma prima ci mostra le tette, e comunque tutti corrono, urlano e dicono parolacce. Ripresi con la macchina a mano.
Immaginare soltanto quello che combineranno al povero Michael Myers in 3d, sarebbe troppo doloroso. Eppure, nonostante i ripetuti stupri che il personaggio ha subito nel corso dei decenni, la sua maschera bianca che emerge spettrale dal buio, vuota, incapace di pietà, The Shape, la forma essenziale di tutto ciò che temiamo, il non morto condannato a vagare sulla terra sterminando i vivi è sempre lì, alle nostre spalle pronta a colpire. Una forza incontenibile la cui unica volontà è uccidere. E che ogni Halloween che si rispetti, è pronta a tornare a casa. Per salutarci.
Pubblicato il 30/10/2012 08:43:24 da
peucezia
Non se ne può più di questi film demenziali americani parolai dove trionfa l'amicizia finto cameratesca, il sesso a gògò, la droga all'erba e il rock and roll!
L'anno scorso esce un film australiano
TRE UOMINI E UNA PECORA, insulso titolo italiano dell'originale "A few best men" laddove per best man si intende in inglese chi fa da testimone alle nozze (generamente migliore amico o fratello dello sposo)... well, in questo film di stampo più anglosassone la perfettibilità di un matrimonio pseudotradizionale veniva "disturbata" dai poco convenzionali amici del nubendo. Tra gli interpreti, nel ruolo della sorella della sposa, Rebel Wilson, attrice sovrappeso che nella storia faceva di tutto per farsi notare e non al suo meglio...
2012: gli USA che al cinema, come i cinesi per le scarpe, copiano di tutto, per cercare di essere originali ci fanno una versione al femminile: "Bachelorette" che oltre al significato di donna che avrebbe superato la canonica età "da marito" sta più o meno per addio al nubilato "tradotto" da noi
THE WEDDING PARTY: assurdo parto di quasi un'ora e mezza (meno male!) fatto di parole in libertà e tutto quanto di più sconvolgentemente triviale abbia prodotto il cinema americano dai tempi di
PORKY'S e del più "nobile"
ANIMAL HOUSE.
Torna Rebel Wilson in versione meno trasgressiva e Kirsten Dunst, donna in carriera magra, bella e dolorosamente single perde clamorosamente cinquanta punti nel suo borsino personale.
Auspichiamo uno sciopero di massa da parte degli spettatori del globo terracqueo davanti a questo pseudo proposte del cinema stelle e strisce.
E quasi quasi vale più la pena prendere un biglietto per uno dei nostri film italici depressi e depressivi...
Ed anche quest’anno ci siamo: dal 9 al 17 novembre avrà luogo il Festival Internazionale del Film di Roma, il più amato dai Veltroni di tutta Italia.
Quest’edizione si presentava densa di rinnovamento: finalmente si è deciso di svecchiare il Festival, e quindi via Gianluigi Rondi, l’uomo bicentenario, e via Piera Detassis, più attenta all’aspetto patinato che alla sostanza delle cose! Vogliamo volti giovani per un festival giovane, gente fresca, carina e brillante, perché il cinema è anche questo, eppoi in tempi di rottamazione meglio stare al passo.
Spazio ai giovani, dicevamo: giusto quindi che a rimpiazzare Rondi sia quel giovincello di Paolo Ferrari (che era già anziano quando stalkerava giovani casalinghe a colpi di
fustini Dash) e che il posto di Direttore Artistico passi dalla Detassis a quel novellino esordiente di Marco Müller. Ora, io non lo so se questo tizio è lo stesso che quando era Direttore Artistico del Festival di Venezia diceva peste e corna del Festival di Roma perché gli pestava i piedi (magari mi confondo e invece si tratta di un centromediano del Bayern Monaco), ma a sentire le sue ultime dichiarazioni pare che si sia ricreduto e adesso il festival di Roma gli piaccia un casino.
“
Sono andato a ripetere in giro per il mondo che a Roma può nascere un Festival collocato a metà strada tra i grandi eventi di fine estate e gli appuntamenti di metà inverno. Un Festival che si apra anche al mercato e che esista senza intralciare la strada agli altri grandi eventi internazionali”.
Chissà le reazioni in giro per il mondo, quando hanno sentito ‘sta fregnaccia.
Ma dicevamo del programma del Festival. Uno dei Cavalli di battaglia di Müller, quando gli fu affidata la direzione artistica del Festival, era la sicura presenza di
Tarantino e del suo “
Django unchained”. Ovviamente la sua assenza dal programma del Festival ha quindi deluso molto: vuoi vedere che niente niente quella di Müller era la classica sparata a effetto per accalappiare sponsor?
“
In qualche modo Django calcherà il palco dell'Auditorium”, ha dichiarato Müller. “
Tarantino sta organizzando una cosa fantastica. Lo saprete tra dieci giorni”. Mhm, anche questa mi puzza. Io il dialogo Müller-Tarantino me lo immagino così:
“Pronto Quentin, sono Marco!”*
“Marco chi?”
“Marco Müller!”
“Il centromediano?”
“No, quello è mio cugino. Io sono il Direttore Artistico del Festival Internazionale del Film di Roma, e vengo qui ad offrirti l’opportunità di presentarci in anteprima mondiale “Django unchained”!”
“Eli, se è un altro dei tuoi scherzi del cazzo guarda che non è aria, mi stavo ammazzando di risate con “
W la foca” e m’hai interrotto. Ah, a proposito, nel prossimo film ci piazziamo un tricheco”.
“No Quentin, non sono Eli Roth, sono proprio Marco Müller ed io ero serio…Cioè, no, scherzavo, non pretendo proprio proprio che tu presenti a Roma il tuo ultimo film in anteprima, basterebbe anche solo che tu ce lo facessi proiettare…Anche solo il trailer…Insomma un pezzettino…”
“Ma voi non siete quelli che ogni anno proiettano un’anteprima del nuovo film di “
Twilight”?
“Ehm, sì.”
“No.”
“Quentin ti prego, in nome della nostra lunga amicizia, io ‘sta cosa già me la so’ venduta, e poi guarda che io sono mezzo tedesco ma non me la sono mica presa per “
Bastardi senza gloria”, eddai, fammi ‘sto favore!”
“Senti, se ti levi dalle palle in fretta ti mando un cartonato ed una locandina autografata da Franco Nero”.
“Oh grazie sei gentilissimo come al solito!!! Sei sempre un mito per me, pensa che io c’ho la suoneria del cellulare col fischiettio di
Kill Bill! Ciao eh, grandissimo! Grandissimo!”
“Ciao, sì, ciao”.
Ah, dimenticavo. Müller ha avuto un’altra grandissima pensata: da quest’anno in concorso a Roma solo anteprime internazionali. Ora, magari Al Bano si rifiuta di portare a Sanremo un pezzo inedito e secondo Müller
Spielberg o Tarantino dovrebbero portare ad un Festival periferico, nuovo e di rilevanza internazionale pari a zero il loro nuovo film in anteprima internazionale? Ovviamente no. Ed ecco infatti che il programma del Festival è prevalentemente popolato da film di autori sconosciuti o dati per scomparsi, che il film di apertura sia affidato a Bakhtyar Khudojnazarov, autore del pur pregevole “
Luna Papa” datato 1999, e quello di chiusura al regista catalano
Cesc Gay, il cui film più noto è il mediocre “
Krampack”.
Certo qualche motivo d’interesse non manca (ma su 59 film sarebbe abominevole il contrario): ad incuriosire sono soprattutto il ritorno di
Walter Hill con “Bullet to the head”, con
Sylvester Stallone,
Jason Momoa e
Christian Slater, “The Gang of the Jotas”, di Marjane Satrapi (già autrice dell’incantevole
Persepolis) e l’ultimo film di
Takashi Miike (in concorso), “Lesson of the evil”. Poi vabbe’, c’è un film di Roman Coppola, c’è il nuovo
Michele Placido che s’è già beccato bordate di fischi a Taormina, c’è
Larry Clark e c’è
Pappi Corsicato, cui incomprensibilmente qualcuno continua a dare soldi per girare film dopo quella vaccata inguardabile de “
Il seme della discordia”.
Ora, magari mi sbaglio, magari il coraggio di Müller sarà premiato e da questo Festival usciranno fior fior di capolavori che faranno la fortuna del cinema italiano ed internazionale: è possibile, e spero francamente di ricredermi. Però poi se la cosa migliore del Festival rimarrà il cartonato di Tarantino non prendetevela con me: io vi avevo avvisato.