Pubblicato il 20/09/2012 09:11:20 da
cash
Allora, ricapitolando; metto tutto per iscritto, così magari ci capisco qualcosa.
Dunque, l'isola è, per motivi ignoti, il centro d'equilibrio del bene e del male. Per motivi ignoti si sposta nello spazio e nel tempo, ma per motivi ignoti è raggiungibile un po' da tutti e quando pare e piace. Per tornarci, per motivi ignoti, a volte bisogna ricreare le condizioni iniziali in cui si era giunti; ma a volte, sempre per motivi ignoti, basta atterrarci in mezzo a cavallo di un'onda, rompendo una statua che per motivi ignoti ha un piede con quattro dita ed è lì da chissà quanto. In quest'isola, per motivi ignoti, c'è una non ben precisata fonte di luce. Che a volte, per motivi ignoti, trasforma la gente in una succursale della
Marlboro, e a volte, per motivi ignoti, no. Ad ogni modo questa fonte è protetta da un, appunto, protettore, che deve proteggerla da non si sa bene cosa. Mentre tutto procede tranquillamente, un deficiente di nome Jacob, il cui stato di handicap mentale è noto financo alla madre (quella finta; quella vera è morta, anche se per motivi ignoti poi ricompare, dice una stronzata e se ne va), getta il fratello nella luce (dopo che gli era stato raccomandato di non far avvicinare nessuno alla fonte) trasformandolo per motivi ignoti nel male assoluto, solo un po' fumè, e si sa, il fumo uccide. Per motivi ignoti questo fumo non può attraversare l'isola nemmeno per andare sull'
Hydra, e per motivi ignoti non può attraversare i campi magnetici creati dalle colonne, salvo poi capire dopo 50 anni che le si può prendere a calci. Sull'isola vige un complicato sistema di regole: 13000 leggi e leggine in corpo 4, che per motivi ignoti ciascuno si fa e poi disfa a piacimento. Dato che Jacob è deficiente e decide che non può seccare il fratello da solo, chiama a sé una nutrita serie di poveri sfigati che magari volevano essere richiamati da serial degni tipo, che so, "
Friends", "
Big Bang Theory", "
How i met your mother"... Per secoli Jacob spera, per motivi ignoti, che i naufraghi possano uccidere suo fratello. Che, per inciso, non fa male a nessuno; semplicemente si difende da un fratello rincoglionito dalla salsedine che lo vuole
kaput. Come? cercando di portare scompiglio negli stessi richiamati, in modo che corrompano e uccidano a loro volta, per motivi ignoti. Un povero schiavo con
eyeliner e istruzione zero, in 3 secondi fa capire al povero Jacob (che però ce la mette davvero tutta) che magari anche lui si può formare una sua squadra. Comincia così a segnarsi sulla roccia dei nomi a caso, affinché non solo possa tramandare il ruolo di difensore del convento, ma anche nella speranza di trovare qualcuno che possa immolarsi per asfaltare
Camel light. Perché lui ha deciso che non può, ha paura; ritardato sì, coglione no. Ogni tanto, sbirciando da un faro messo lì per motivi ignoti, si fa i cazzi degli altri seguendoli nelle più intime fasi della loro vita. Jack lo scopre, esce di cranio e spacca tutto. Per motivi ignoti non solo Jacob non si incazza, ma dice che è contento. Questo però è spiegabile con il suo avanzato stato di ritardo mentale. Naufrago per naufrago, Jacob chiama a sé quelli che diventeranno gli uomini che creeranno la
Dharma. Questi sono un gruppo di imbecilli che per motivi ignoti fanno esperimenti su poveri conigli, giraffe, squali e orsi polari. Per motivi ignoti danno da premere ad un povero deficiente un tasto ogni 108 minuti, altrimenti qualcosa, per motivi ignoti, succede. Tutto questo per arginare una falla avvenuta nel lontano 1977, data nella quale un insieme di poveri esseri toccati da Jacob ma non dalla saggezza, decidono che per salvarsi da non si sa bene chi o cosa devono far detonare una bomba atomica sull'isola. Lo fanno, e qualcosa accade, anche se non si capisce bene cosa. Fatto sta che l'incidente, per motivi ignoti, ha generato una serie di imprecisati scazzi che cambierà un pochetto la storia della
Dharma. Non solo nel fatto di costringere la gente a premere un pulsante (per motivi ignoti non può essere fatto automaticamente), ma anche di cercare di capire il perché la gente lì, per motivi ignoti, non nasca. Trotterellando da pirla in pirla, nell'isola naufraga Desmond, un figo della madonna capitato in un gruppo di ciarlatani capitanati da un dottore rincretinito che non ha mai capito una mazza di nulla e da un pelato che per motivi ignoti un po' cammina e un po' no. Con lui anche una sorta di bambino nero che fa il veggente e attira gli uccelli a sé (come Jenna Jameson, che però non è nell'isola) e che poi per motivi ignoti viene rapito da un gruppo di finti straccioni, che poi per motivi ignoti lo rilasciano e non se ne sa più nulla. C'è anche una biondina molto figa con un pancione tanto così; viene rapita, un tossico bassista si incazza, la siringano con qualcosa e viene, per motivi ignoti, rilasciata. Partorisce, ma su questo bambino, per motivi ignoti, gravano le più fosche leggende; qualcuno dice che deve nascere sull'isola, qualcuno dice che non deve nascere lì. In pratica, per motivi ignoti, nessuno sa un cazzo e tutti parlano. Come fa Des a ritrovarsi con 'sti spremipolli? Semplice; mentre uccide uno sull'isola, dimentica di premere il pulsante per tempo. Lo fa con ritardo, e l'aereo casca. Ma non era Jacob a chiamarli tutti? Certo, ha agito attraverso Des. E 'sti cazzi, li devi per forza far arrivare con un crash aereo, uccidendo il 70% dei passeggeri? Un ritardato. Poi accadono varie cose non chiarissime, tipo un cavallo nero che si vuol fare Kate, un uccello che chiama Hurley, cibi che vengono rilasciati da non si sa chi e roba simile. Poi arriva uno di nome Ben, che per anni ha creduto di lavorare per Jacob e invece ha lavorato per il fratello cattivo. Per motivi ignoti, Jacob non gliel'ha mai detto. Ben, rimasto molto male, gira una ruota ghiacciata e torna a casa. Desmond gira una chiave e non si sa bene dove finisca; per motivi ignoti, vede e stravede tutto. Solo che poi non se lo ricorda, salvo quando l'irrimediabile sta per compiersi. Dopo essere tornato a casa, Jack, dopo un solo giorno, si rompe il cazzo e si droga. Dopodiché asfalta le palle a tutti, sostenendo che devono, per motivi ignoti, ritornare sull'isola (NB: alla fine un motivo personale per tornare c'è, ma è appunto una cazzata). Tornano sull'isola aiutati dalla mamma rinco di un fisico teorico, morto ucciso dalla stessa madre per uno scambio di persona avvenuto molti anni prima. Solo che cannano tempo; l'isola li sballottola qui e lì, finché non si ritrovano in una comunità di Hippies dediti all'amore di gruppo. Scopriamo che tra di loro c'è John Lennon. Per motivi ignoti, Sayd muore, però poi resuscita. Per motivi ignoti, non è più quello di prima. Ora, io non sono mai morto, ma credo che una certa perplessità una volta tornati in vita ci può pure stare. Infatti più tardi tutti lo capiscono e infatti non se lo cagano più. Il capo del tempio dice di essere l'unico in grado di salvare il mondo, e dopo 5 minuti viene accoppato dal fumo più incazzato che mai. Per motivi ignoti, Jacob (che è stato ammazzato da Ben, e lo capisco) non dice nulla ai suoi candidati. Dopo esserci chiesti il perché, a tre puntate dalla fine scopriamo il motivo: non sa un cazzo manco lui. E manco il fratello; solo che questi è sveglio, e capisce che da lì è meglio andarsene, anche perché sull'isola ci si rompe discretamente le palle. Ma, per motivi ignoti, non può se non ammazza tutti i candidati. E che gli frega a lui se un altro guardiano poi rimane lo stesso? Allora succede qualcosa; Jacob fa bere una pozione magica a Jack che diventa molto più fico, anche se non si capisce bene in cosa. Per motivi ignoti, tutti sanno che Des è fondamentale in quanto unico essere sulla terra a resistere ad un elettrostimolatore per bovini da 50000 volts. Tutti sanno che è molto importante per fare qualcosa, ma siccome nessuno sa bene cosa; allora lo pigliano e lo lanciano nella grotta di luce. Lì Des vede un tappo. Lo toglie e apre lo scarico; l'isola, per motivi ignoti, pare distruggersi mentre il fumo diventa mortale. Jack si fa comunque dare un sacco di botte e una coltellata, poi manda un
sms a Kate che arriva e spara al finto Locke. Ah già, perché nel frattempo il fumo, per motivi ignoti, era diventato Locke. Il povero fratello di Jacob muore, senza sapere perché, percome e soprattutto senza che si capisca perché non dovesse lasciare l'isola. 2000 anni di casini per cosa? Per Jacob, il prototipo del perfetto deficiente. Jack capisce all'improvviso, per motivi ignoti, che deve buttarsi pure lui nella grotta; lo fa, trova il tappo e lo rimette al suo posto. La luce esce di nuovo, Hurley beve l'acqua e diventa il nuovo guardiano, alcuni rattoppano un aereo e fuggono. Jack compare dov'era comparso il fratello dell'Imbecille. Per motivi ignoti, si reca morente dove la prima volta si era svegliato. Arriva un cane e gli piscia addosso. Segue scenetta di loro che si ritrovano nell'anticamera del paradiso. Si salutano, si aprono le porte dell'Eden e inizia la prima puntata di "
Settimo cielo".
Capita, in un paese come il nostro, che gli attacchi alla cultura vengano perpetrati sempre più spesso dietro una risata, che può essere quella del capo del governo o dell'uomo da bar (in almeno un caso la figura è coincisa) e che nasconde quel subdolo pregiudizio secondo il quale il mestiere artistico non produce nulla e ruba nelle tasche della gente che lavora.
"
Con la cultura non si mangia" è uno dei motti del populismo che dilaga a ondate più o meno decennali in Italia, un populismo pericoloso che sta prendendo piede anche in quel settore che proprio con l'ingegno artistico e creativo dovrebbe arricchirsi di più, la televisione. Succede allora che Sky (non era la televisione dalle belle pubblicità? E cosa sono queste se non frutto dell'ingegno creativo?) mandi in onda uno spot ricamato su alcuni stanchi cliché che negli ultimi anni però hanno colpito a morte la nostra cultura.
I protagonisti di questo spot si calano nelle vesti degli intellettuali da macchietta mentre un loro amico amante dei cinepanettoni sembra essere quello più normale, l'unico di cui fidarsi. Ne ridono, e tutto finisce a tarallucci e vino. Segue poi una serie delle migliori immagini prese dai nostri amati film di Natale che fanno gelare il sangue, e scopriamo così che se infilzi un tacchino con una forchetta può essere che dal culo della povera bestia cucinata esca uno dei due "
Fichi d'India" (il più brutto dei due,
of course). Così con alcune battute di malcelato disprezzo
Kiarostami, Stockhausen e Beckett finiscono per diventare barbosissimi e sorpassati autori appartenenti a un vecchio passato polveroso fatto di barbe e maglioni a collo alto.
Lo spot è agghiacciante sotto certi aspetti, e propaga un'ignoranza che sinceramente ha rotto i coglioni.
La verità è che è stato proprio il "ridici su" a portarci verso il baratro, allo sdoganamento dell'ignoranza come carattere identitario del paese, per questo si dice "si ce lo meritiamo", ma non ci meritiamo un c***o, perché è una punizione che non cura i colpevoli e abbatte i meritevoli. Ci ritroviamo allora a dover commentare l'ennesimo Giovanni Veronesi senza pudore, proprio lui, la firma dei peggiori film italiani di questi ultimi vent'anni, che spara a zero, da povero provinciale qual è, su
Kim Ki-duk senza averne neppure mai visto i film, o a sentire da qualsiasi bocca la battuta decontestualizzata di Fantozzi su "
La corazzata Potëmkin", usata come scusa per la propria pigrizia mentale. Ma è una scusa, solo questo. Perché se mai queste persone provassero a leggerlo Beckett, forse scoprirebbero quante cose ha da dire sulla vita, e certo non esplode il culo ad aprire un libro, e potrebbero anche provare a vederlo il film di Ėjzenštejn, dura anche poco, potrebbe addirittura arrivargli la bellezza di quella storia possente e di quelle immagini che anticipavano, per struttura narrativa e stilistica, il cinema del futuro. Dai, che per i rutti e le scoregge c'è sempre tempo. Non hanno già abbastanza spazio questi prodotti? C'è veramente bisogno di sdoganarli? No, non c'è, perché già dominano il mercato nascondendosi dietro l'alibi dell'incomprensione da parte della critica e della cultura cosiddetta "alta". Un trucco, certamente, una regione in cui conviene stare per avvalersi dell'etichetta "di e per il popolo". Mi dispiace, cari Veronesi, Brizzi, De Sica, ma non siete di nicchia. Voi siete il potere. E il potere non fa mai ridere.
L'arte può essere fastidiosa per il potere, lo sappiamo bene, pensiamo ai casi recenti delle "
Pussy Riot" in Russia che pur senza fare della vera arte sono state umiliate e imprigionate come i peggiori criminali per un canzoncina anti-Putin (sarà che lui stesso è uno dei peggiori criminali del mondo?), o ancora in Bielorussia dove il gruppo teatrale "
Belarus Free Theatre" ha subìto le peggiori angherie per i loro innovativi spettacoli teatrali in favore del libero pensiero. Guarda caso, Berlusconi, Putin e Lukashenko si stimano molto.
Ma quando lo stesso morbo infetta anche le abitudini di uno dei popoli che con l'arte ci ha fatto la propria fortuna, non viene da chiedersi seriamente cosa sia successo?
Siccome si parla sempre di soldi, dal momento che sull'oggettività del bello nell'arte contemporanea ancora si discute e che l'utilità della stessa non è sempre istantanea, proviamo a metterla sul piano economico allora. Pensiamo, dunque, come il settore dello spettacolo e tutto quello che vi è collegato in Italia fornisce lavoro a 250mila persone, pensiamo come una recente mostra romana su Caravaggio abbia fatto guadagnare al Comune della capitale circa 35 milioni di euro o come l'Auditorium "
Parco della Musica" sempre nella stessa città, con la sua sempre crescente offerta artistica, sia una delle pochissime istituzioni pubbliche in attivo.
Ehi! Cosa è successo? Vuoi vedere che questi artisti brutti e puzzoni fanno riempire le tasche dell'unica cosa che sembra interessare veramente, i soldi? E vuoi vedere che investire sulla cultura rende anche felici le persone?
Rubo brevemente un pezzo illuminante pubblicato qualche giorno fa da un ottimo sito di informazione cinematografica e non solo,
fantasymagazine.it, a proposito del nuovo film di Peter Jackon, "
The Hobbit". Ecco cosa viene scritto: "
...già da ora si può affermare che la produzione dello Hobbit è uno straordinario successo economico per il paese. L'industria cinematografica e televisiva della Nuova Zelanda è cresciuta costantemente negli ultimi 5 anni, muovendo circa 3.23 miliardi di dollari nel solo 2011, anno in cui il contributo del settore al prodotto interno lordo nazionale (GDP) è stato di 2.78 miliardi, ovvero l'1.4% del totale. Tutte queste cifre si traducono poi in 21.315 posti di lavoro."
Avete letto? Già, 21.315 posti di lavoro. Accidenti, potrei trovare lavoro anche io da quelle parti!
Noi però continuiamo a distruggere ciò per cui siamo ancora ben visti all'estero, ovvero il nostro intero patrimonio culturale, memoria storica compresa.
Senza addentrarci nel discorso sulle tristi condizioni in cui versano i nostri beni culturali e archeologici, e rimanendo nel nostro campo, si può tranquillamente affermare che siamo in uno stato d'emergenza da cui si rischia di non tornare più indietro, sentiamo l'urgenza di aprire un discorso serio, teso ad aprire qualche occhio, su ciò che viene definito "intellettuale". Intellettuale significa qualcosa o qualcuno che fa riferimento all'intelletto, alla capacità di ragionare ed esprimere pensieri articolati. Se siamo minimamente evoluti e non vogliamo perdere anche l'uso del pollice opponibile, perché in questo povero paese continuiamo a usare questo aggettivo come un'offesa, da dedicare a qualcosa di estremamente noioso e saccente, da abbattere e denigrare, come limitante della propria libertà?
È proprio questo il punto, l'ignoranza non è libertà, essere stupidi non equivale a essere se stessi, come viene fatto credere. Non c'è purezza in questo, non c'è verità. C'è solo menzogna. Una grande enorme menzogna.
In questo caso la colpa è di tanti, non solo di chi comanda, è di chi produce e di chi riceve, c'entra l'accettazione, a volte compiaciuta, a volte rassegnata, di un degrado che potrebbe essere curato, crisi o non crisi. Proprio questa crisi, usata come scusa per la povertà di spirito, dovrebbe semmai insegnare a fare di più, a cambiare, a non continuare con lo stesso comportamento lassista che non tiene conto del fatto che ciò che non si fa oggi tornerà a tormentarci in futuro, in modi e dimensioni ben più opprimenti.
Non sapendo trovare una via di mezzo si rimane sempre degli estremisti rabbiosi, in una guerra degli stupidi che non finirà mai.
Si, ridiamo, certo. Perché no. Se solo quelle battute facessero ridere.
Pubblicato il 18/09/2012 09:21:10 da
foxycleo
Venerdì 14 settembre 2012 è uscita l'ennesima commedia che tratta la tematica della gravidanza. Infatti a soli due mesi dalla programmazione nelle sale italiane di “
Travolti dalla cicogna” di Remì Benzacon, tratto dal romanzo “
Lieto Evento”, appare “
Che cosa aspettarsi quando si aspetta”, tratto dall'omonima guida per diventare genitori. Certo questi sono solo i più recenti tra i titoli che trattano tale tema, infatti negli ultimi anni quella di parlare di gravidanza con toni da commedia più o meno leggera e più o meno divertente sembra essere diventata una moda. Con uno sguardo al recente passato affiora alla memoria la storia di Alison raccontata in “
Molto incinta” di Judd Apatow; e come non ricordare, scavando ancora un po',“
Juno”, commedia brillante del 2007 premiata con un Oscar alla sceneggiatura . Ancora, “
Nine Months”, la saga dei “
Senti chi parla” e via discorrendo. Insomma, l'atto della nascita sembra riuscire ad alimentare da tempo e ultimamente sempre più la fantasia di sceneggiatori e registi. Ma il pubblico avverte realmente il bisogno di recarsi in sala per sentire isterismi, grida e pianti di gioia o dolore? Certo ogni film è diverso dall'altro e i tagli registici sono distinguibili ma il tema sembra essere abusato, benché di tanto in tanto prodotti validi riescano a distinguersi dalla massa come i succitati “
Juno” e “
Travolti dalla cicogna”. Sarà così anche per “
Cosa aspettarsi quando si aspetta”?
Pubblicato il 17/09/2012 09:06:13 da
elio91
Probabile che abbiate sentito parlare di “
Six Feet Under” come di uno degli show
HBO più famosi ed interessanti degli anni 2000. E se si dovesse fare una classifica ipotetica delle migliori serie tv degli ultimi anni ormai concluse molti non avrebbero problemi ad inserire nella stessa, insieme all'immancabile “
I Soprano”, proprio
”SFU”. E non avrebbero poi tutti i torti.
Le storie raccontate in 5 stagioni per un totale di 63 episodi (iniziata nel 2001 e finita nel 2005) sono quelle di morte quotidiana che capitano alla famiglia Fisher, impresari funebri. Quando la morte entra in casa tua ogni giorno non può mai essere solo business, e i Fisher si troveranno ogni puntata a fare i conti con situazioni di straordinaria quotidianità e di ordinaria morte. Quasi un’ora a puntata serve per rendere giustizia alla mole di personaggi che si avvicendano in cinque stagioni grandiose, in cui i punti fissi restano sempre David, Nate e Claire Fisher insieme alla loro madre Ruth. Senza dimenticare il “fantasma” di Nathaniel, loro padre, che giusto per dare un tono definitivo alla serie muore nei primi minuti dell’episodio pilota a causa di un incidente col suo carro funebre, o Brenda e Keith, fidanzati “eterni” rispettivamente di Nate e David. Senza dimenticare un altro familiare aggiunto alla grande famiglia, Federico Diaz, un vero e proprio “artista” restauratore, di cadaveri, però.
Che la serie tv faccia sul serio anche se con
humor pesantissimo si capisce subito, come se l’ideatore principale Alan Ball (lo sceneggiatore di “
American Beauty” e poi di “
True Blood”) volesse sfondare tutti i tabù o le controversie che fino a quel momento in tv non sembravano poter entrare, specie poi in maniera cosi esplicita e dissacrante. Il melodramma di una serie televisiva viene in tal modo esasperato come in un film alla Almodovar: le regole sono le stesse, con ogni puntata che affronta argomenti come il tradimento, l’omosessualità, la droga, la malattia, la famiglia, la religione e la mercificazione della morte, tutti però esplicitati in maniera drastica e visionaria. All’acido fenico. Straordinari poi sono i
trip mentali che vediamo sullo schermo, sogni che prendono forma in tutti i modi possibili: omicidi solo immaginati (per fortuna, già ce ne sono troppi di morti), catarsi soltanto sognate, desideri. E poi c’è ovviamente la morte, inevitabile quando i protagonisti sono dei becchini, sviscerata in tutte le sue forme sempre senza didattismo sterile. Lo
humor nero a volte è cosi tangibile e spietato che può risultare addirittura indigesto, anche se si attenua a partire dalla seconda stagione lasciando più spazio al dramma vero e proprio - cosa che qualcuno potrebbe avvertire come un difetto. Ed è grandioso vedere che nello “schema” per cui ogni puntata sembra avere gli stessi punti di riferimento, improvvisamente c’è un brusco cambio di rotta, anche se solo per un episodio, dove ci si concentra totalmente solo su un personaggio e davvero “
tutto può succedere” (è il caso dell’incredibile “
That’s My Dog” tradotto in italiano con il banalissimo “
La Valle della Morte”, puntata controversa che considero uno dei capolavori assoluti di queste cinque stagioni).
Gli sconvolgimenti familiari sono all’ordine del giorno, tanto nei rapporti d’amore quanto nel business; si veda Ruth, per esempio, che a seguito della morte del marito si ritrova prima vedova inconsolabile, poi madre che fa di tutto per nascondere i suoi scheletri (o amanti) ai figli, proposito destinato a fallire, e alla fine della prima stagione donna matura che sembra aver trovato un proprio equilibrio personale. Un percorso di crescita ciclico che va avanti di stagione in stagione, e che investe ogni personaggio. Nell’elenco dei tormentati non può non essere citato allora David, omosessuale “nascosto” che dietro l’inappuntabile completo nero e il lavoro sui cadaveri nasconde desideri e speranze che sono forse tra le più dirompenti in famiglia Fisher, la qual cosa si capisce però non subito ma con il lento avanzare degli episodi; difatti è Nate il figliol prodigo, il ribelle rientrante ma che maturo non è ancora (e che forse maturo non diventa mai) che già dal nome pare destinato a rilevare il posto che fu del padre in “ditta”. E infine c’è Claire, la più piccola, la più ribelle. Ciò che colpisce di “
SFU” è anche una trama che se risulta quasi autoconclusiva nella prima stagione, dalla seconda in poi comincia ad allargarsi verso orizzonti ben più vasti. Dei personaggi di contorno rimangono o comunque si rifaranno vedere improvvisamente, con un’aderenza alla realtà stupefacente (il Caso è sempre dietro l’angolo e si lega strettamente alla morte), altri personaggi che sembrano aver già detto tutto verranno messi da parte. Ci si concentrerà sull’evoluzione o involuzione della famiglia Fisher, spesso e volentieri in burrasca e altre volte unita nella/e tragedie come nei lieti eventi. Ed è ottimo il modo in cui sceneggiatori e registi lavorano assieme allo sviluppo di una trama che, tra pochissimi bassi e quasi sempre alti, trova ampio respiro allungandosi per più stagioni. La sensazione, fortissima, è che Alan Ball faccia crescere le sue “creature” provandole con tutte le esperienze che una vita può riservare, le faccia raggiungere uno stato di benessere o presunta evoluzione (tanto che sembra di vivere con loro accadimenti reali, non realistici), e poi fa crollare improvvisamente, senza preavviso, con la forza di un’onda, tutta la disillusione e la crisi sulle loro spalle; e devono ricominciare daccapo a ricostruirsi, pezzo dopo pezzo. Evoluzioni che sorprendono perché mettendo a confronto (primo nome a caso) il David della prima stagione con quello della quinta ed ultima stagione, sembra di vedere due persone totalmente differenti, seppur legate da un percorso di dolore e crescita che ha portato al cambiamento (quasi) totale. Dal tormento di essere omosessuale alla voglia di costruire una vita di coppia con l’uomo che ama, alla risoluzione di attacchi di panico e paure ancestrali che andranno poi ricondotte, ancora una volta, al fatidico primo episodio: ciò che si capisce è che la morte di Nathaniel cosi brusca ha portato non solo sconquassamenti nella famiglia Fisher, ma l'ha anche sconvolta e turbata. Le 5 stagioni, anche se potrebbe sembrare “mascherato” dai tanti accadimenti e dalle altre tante morti, sono un'elaborazione del lutto che va a collimare con l’elaborazione di un altro lutto, simile al primo in tutto e per tutto. Ma adesso i Fisher saranno pronti.
E dovrebbe esserlo anche lo spettatore, perché in un clima in cui la morte è l'unica costante, la sensazione tangibile e angosciante è che uno dei personaggi che tanto hai imparato ad amare per i suoi difetti, le sue virtù, il suo carattere possa esserti strappato via all’improvviso. Di qui il fascino al tempo stesso coinvolgente ed inquietante della serie. E a nulla vale il rivedere questi morti sotto forma di “fantasmi” o epifanie joyciane, in quanto è praticamente acclarato che le visioni dell’aldilà siano frutto di pensieri e desideri del vivente. La morte è definitiva anche in questo caso, l’aldilà resta una meta intangibile, troppo lontana da raggiungere se non attraverso un'elaborazione mentale su come vorremmo fosse dopo la morte. Ma tutto sta nelle mani del vivente, il resto è ambiguità.
E dopo 5 stagioni “
Six Feet Under” giunge al termine (benché gli ascolti avrebbero potuto giustificarne un prosieguo. Scelta saggia e coerente), e lo fa nella maniera più struggente, più tragica, eppure liberatoria. Pur non svelando per ovvi motivi quanto accade, si consiglia di tenere a mente nel guardarlo che se Alan Ball ha creato questa serie è stato come per esorcizzare la morte improvvisa della sorella. Non sarà quindi una sorpresa se proprio la sorellina di casa Fisher, Claire, acquisterà via via un’importanza preponderante, lei cosi giovane che ha tutta la vita (e tutte le morti) davanti. E visto che anche voi in fondo non avete molto tempo, o magari avete tutto il tempo del mondo, fareste bene a dare un’occhiata a
Six Feet Under. Non vi dico che potrà cambiarvi la vita, e figurarsi se vi potrà far smettere di aver paura della morte. Ma magari, chissà, il vostro approccio alla più grande e tremenda paura, quella del distacco definitivo, cambierà.
Nel caso qualcuno ancora non se ne fosse reso conto, è bene specificare che “
True Blood” è senza dubbio alcuno una delle migliori serie televisive in circolazione. E' vero, non riesce nel corso delle varie stagioni a mantenere sempre degli standard invidiabili (del resto a riuscirci è stato fino ad ora un numero davvero esiguo di prodotti televisivi), ma è altrettanto vero che con l'ultima stagione andata in onda, la quinta, Alan Ball dimostra che la sua seconda creatura ancora riesce a scalpitare, offrendo un intrattenimento assai difficile da trovare altrove. Sì, perché quello offerto da “
True Blood” non è affatto di facile realizzazione come potrebbe sembrare: è quello totalmente privo di fastidiose riflessioni sul senso della vita, privo di particolare spessore, oltreché, come è giusto che sia in questi casi, di un'accurata introspezione. In altri termini, è l'eccesso che non ha bisogno di giustificare se stesso, il ritmo elevato che non ha bisogno di essere preceduto da una struttura narrativa solida: è l'antitesi dell'impegno.
Non è di facile realizzazione, si scriveva. Sì, perché in assenza di spessore e ricercatezza il rischio di trasformare il tutto in un baraccone privo di fascino, grondante di cliché, banale e ben poco divertente è appena dietro l'angolo, e forse anche meno lontano. Si rende necessaria una certa maestria per tenere in piedi uno script simile e il creatore di “
Six Feet Under”, ergo un uomo ben lungi dall'essere un incapace, a quanto pare ne ha da vendere. Punta sull'ironia e sull'autoironia, rende il prodotto cosciente della sua identità e gli permette di non prendersi mai troppo sul serio. Questo aspetto è assolutamente fondamentale, imprescindibile, senza il quale “
True Blood” si sarebbe risolto in un prodotto fotocopia dei vari “
Twilight” che infestano schermi cinematografici e televisivi. Ovvio, vi sono altri aspetti che differenziano i due tipi di prodotti, ma l'autoironia è, parere di scrive, la principale discriminate. E la quinta stagione sembra rendersene ulteriormente conto; è il motivo per cui la frase che
Eric pronuncia in una delle prime puntate stampa sulle labbra dello spettatore un sorriso che non andrà via fino al termine della stagione: esce dal container nel quale aveva prima discusso e poi fatto sesso sfrenato con sua sorella, si abbottona i pantaloni e rivolgendosi a
Bill con visibile autocompiacimento dice “
We fight like siblings, but we f**k like champions”. In questa frase c'è più o meno tutto lo spirito di "
True Blood", a metà tra ironia, per l'appunto, e fascino “
da due lire”. Tutti i caratteri, non a caso, si distinguono con uscite dello stesso tipo, e in questa quinta stagione si pensa bene di aggiungere qualcosa come altri dieci personaggi, tutti quanto meno sopra le righe (i membri dell'Autorità). Inoltre c'è
Russel Edginton, vecchia conoscenza, che illumina la scena come pochi; sarebbe sufficiente il suo volto che sbuca di fianco a quello della sposina intenta a cantare per il suo neo-marito a giustificare la messa in onda di questa ennesima stagione.
A non venir meno in questo quinto appuntamento è chiaramente anche l'eccesso, che proprio grazie al non prendersi sul serio di cui sopra può non preoccuparsi di porsi limite alcuno, nei dialoghi come negli snodi narrativi. E' così che la serie basata sui romanzi della
Harris tira fuori un bimbetto di svariate centinaia di anni che parla di massacri e guerre, un
night club gestito da fate, vampiri affetti da fanatismo religioso, maledizioni, mostri di fumo (non quello di “
Lost”, fortunatamente) e via discorrendo. Tutti eccessi che se non gestiti con la stessa accortezza avrebbero portato alla noia nel giro di qualche puntata, ma che invece in “
True Blood” coinvolgono al punto di divorare puntata dopo puntata in attesa di quello che già si sa essere un finale ancora più eccessivo di quanto visto fino ad allora. Puntualmente, infatti, il finale si rivelerà tale, forse anche più di quanto ci si aspettasse.
E poi di colpo la quinta stagione riesce anche ad emozionare. Peraltro grazie a due dei personaggi più idioti dell'intera serie. La scena Di
Hoyt e
Jason con
Jess, nel bar, è insospettabilmente potente e conferisce una serietà al tutto che chiaramente svanirà in men che non si dica, ma che restituisce comunque una ulteriore piacevole sensazione, seppur del tutto distante dall'animo "cazzeggione" del prodotto. Scena, oltretutto, nella quale vengono fuori doti attoriali di tutto rispetto, che invero, forse proprio per l'assenza di scene particolarmente profonde, non viene mai fuori con tale forza. Tranne nel caso, è doveroso sottolinearlo, di attori come
Denis O'Hare, magnificamente sopra le righe nell'interpretare
Russel Edginton: quel suo “
I'd love to come to dinner” contornato dall'espressione riportata nell'immagine che segue fa bene all'anima.
Oltre all'anima a trarre giovamento da questi altri 12 episodi è ovviamente anche l'organo cerebrale, che può riposarsi abbandonandosi all'oblio e godendo di una leggerezza che riuscirebbe ad anestetizzare anche i neuroni del più accanito pensatore. Neuroni che si risveglierebbero, peraltro, solo per contare i giorni che li separano dai prossimi 12 episodi, grazie al finale di cui si scriveva, capace in tre secondi di spalancare le porte ad uno script potenzialmente tanto
trash quanto adrenalinico.
(Il pezzo è presente anche sul blog dell'autore: http://houndolcettoentra.blogspot.it/)