"Banshee", secondo la mitologia irlandese e scozzese, è uno spirito femminile che si palesa agli occhi di colui/colei che da essa viene toccato. I suoi occhi sono sempre arrossati dal pianto, si dice, e la sua apparizione è accompagnata da urla e lamenti. La persona che è stata toccata, infatti, è destinata a morire di lì a breve.
"Banshee", è anche il titolo della nuova serie HBO. "Banshee", nello specifico, è il nome della cittadina che ospita un intreccio invero molto adatto ad una scelta simile. E' la storia di uno dei migliori ladri in circolazione, Lucas Hood, che dopo essere stato in galera per 15 anni, decide di sistemarsi nella cittadina di cui sopra, spacciandosi per il nuovo sceriffo. La cittadina, ovvio, non è propriamente pulita, ed è anzi governata ufficiosamente da Kai Proctor, gangster psicotico non abituato a non avere qualcosa sotto controllo. Se si considera, poi, che il passato di Hood non si è certo dimenticato di lui, si capisce bene che il nome dato e alla serie e alla cittadina sia quanto meno indicato. Ed effettivamente dopo appena qualche puntata, ma diciamo anche dopo i primi minuti della prima, se ne ha chiara conferma.
Il pilota si apre con un brano che definire sporco sarebbe un eufemismo. “Fifth of Whiskey” di Verse and Bishop traccia fin da subito le linee guida di un'atmosfera assai rarefatta, tratto principale della serie. Un'atmosfera, per certi versi, anche esasperata, così come alcune scelte di sceneggiatura, che potrebbero in verità far storcere il naso. Un eccesso che però, parere di scrive, può farsi rientrare tranquillamente in quell'aria quasi fumettosa, come suggerisce anche la locandina, capace di imporsi fin dall'inizio. Spesso, infatti, la serie sembra spingere verso espressioni che potrebbero tranquillamente definirsi pulp, con quel suo non evitare ma anzi cercare una violenza anche spettacolare (nel senso proprio del termine), quel non disdegnare affatto l'aspetto sessuale, non centellinandone assolutamente la presenza, e con quell'atteggiamento generale chiaramente autocompiaciuto. Non è un caso che l'intreccio sia popolato di hacker drag-queen a cui sembrerebbe il caso di non dare troppe rogne, di gangster ben al di là di quella che si definirebbe sanità mentale, di scopate occasionali che non ci si preoccupa troppo di non far sembrare messe lì giusto perché in quel momento un paio di tette sballottate qua e là ci stavano bene (con il montaggio che sembra preoccuparsene anche meno), di un protagonista che non sembra farsi troppi problemi a rispondere alla violenza con un livello di violenza ancora maggiore. La terza puntata, a tal proposito, riserva nella parte finale parentesi meravigliose, che scoprono definitivamente il volto del prodotto e dichiarano senza troppe storie che quanto visto fino a quel momento non era solo un modo per aprire col botto ma il preludio, al contrario, alla reale violenza che sarebbe venuta (e che verrà, si spera) in seguito.
Il ritmo, lo si intuisce facilmente, è quanto meno elevato. Non che non ci si preoccupi di approfondire in maniera particolare i personaggi, è solo che l'introspezione è misurata al fine di non intralciare mai troppo l'aspetto più pulp del racconto. Non sia mai che qualche discorso di troppo sull'aspetto umano dei personaggi precluda allo spettatore la possibilità di vedere discrete quantità di sangue e cazzotti. Non sarebbe carino, in effetti. E se Alan Ball non l'ha fatto in “True Blood”, giustamente, non v'è motivo per cui dovrebbe proporlo al contrario in questo caso. Sì, perché Alan Ball è tra i produttori esecutivi della serie, creata invece da due volti abbastanza nuovi nell'ambiente, Jonathan Tropper e David Schickler.
Anche i dialoghi, che potrebbero facilmente scadere in ogni sorta di banalità con un simile soggetto ed un simile sviluppo, tengono bene il passo. Non eccezionali, ma forse neanche necessitano di esserlo, dovendo semplicemente restare fedeli a personaggi che, come si scriveva poc'anzi, non possono vantare chissà quale spessore. L'importante è che non siano un ammasso di frasette idiote anelanti all'essere d'effetto. E fortunatamente non lo sono. Tutt'al più lo sono il giusto.
Quanto appena scritto peraltro, con i dovuti adattamenti, è quanto si potrebbe scrivere delle interpretazioni (grazie a Dio di attori quasi sconosciuti), in particolar modo di quella di Antony Starr, nella parte del protagonista.
Ulteriore prodotto per cervelli spenti, quindi. Ha tutti gli elementi perché continui su livelli assai discreti, benché ne abbia altri, per ora pochi e veniali, come l'inizio del quarto episodio, l'ultimo andato in onda, che laddove dovessero prendere il sopravvento rischierebbero di buttare un po' tutto alle ortiche. E viste le premesse sarebbe davvero un peccato ancor prima che uno spreco, considerato anche il fatto che è già stata ordinata, dopo appena tre episodi, una seconda stagione.
Date un'occhiata al trailer qui sopra, se non altro per ascoltare la fantastica “F.E.A.R.” dei Various Cruelties, e laddove dovesse convincervi, nel guardare le puntate ricordatevi di aspettare la fine dei titoli di coda.
Storicamente l'Academy ha la tendenza a premiare la stessa opera per i premi più importanti, cioè l'Oscar al miglior film e alla miglior regia sono spesso andati ad un unico film. Non sono mancate eccezioni, tuttavia, e l'ultimo caso di premio "disgiunto" risale al 2006, quando l'oscar al miglior film andò a Crash di Paul Haggis, mentre quello alla miglior regia ad Ang Lee per Brokeback Mountain. Prima del 2006 era accaduto due volte, se consideriamo solo il primo decennio di questo secolo: nel 2001 con "Il Gladiatore" (film) e Soderbergh (regista di "Traffic") e nel 2003 con Chicago (film) e Polanski ( regia per Il pianista). Dopo il 2006, non più, avendo l'Academy ripreso la tendenza ad attribuire le principali statuette alla stessa opera.
Potrebbe essere l'anno buono per riproporre un premio disgiunto?
Vediamo le rose dei candidati:
MIGLIOR FILM
"Zero Dark Thirty"
"Amour"
"Vita di Pi"
"Lincoln"
"Django Unchained"
"Argo"
"Beasts of the Southern Wild"
"Silver Linings Playbook"
"Les Misérables"
MIGLIOR REGIA
Michael Haneke per "Amour"
Benh Zeitlin per "Beasts of Southern Wild"
Ang Lee per "Vita di Pi"
Steven Spielberg per "Lincoln"
David O. Russell per "Silver Linings Playbook"
Se il premio rimanesse congiunto bisognerebbe quindi escludere a priori Django Unchained, Argo, Les Miserables e Zero dark thirty.
C'è lo Spielberg di Lincoln che di oscar però ne ha già vinti. Ang Lee con Vita di Pi è sulla falsariga di Spielberg, non tanto per i numeri quanto per l'aver ha già vinto l'oscar come miglior regista e come miglior film, sia pure straniero, con La tigre e il dragone.
Da tenere conto che solo Eastwood ha saputo fare per due volte l'accoppiata film/regia dagli anni novanta ad oggi (Gli spietati e Million dollar baby). E potevano essere tre, se Gran torino non fosse stato escluso dalle cinquine dopo aver fatto incetta ai Golden Globe.
In gara anche gli outsider. Haneke su tutti. Il cineasta austriaco si trova nelle stesse condizioni di Benigni con La vita è bella come nomination, perlomeno quelle più importanti. Difficile quindi che torni a mani vuote e L'oscar come miglior film straniero dovrebbe essere in teoria una formalità. Meno facile il discorso delle categorie assolute, perché premiare Amour significherebbe sfatare un tabù, l'ultimo dell'Academy, cioè quello di premiare come miglior film una pellicola straniera. The artist l'ha sfatato in parte, essendo un film muto, ma per Haneke la storia è ben diversa: un film straniero, non parlato in lingua inglese; una vittoria del genere sarebbe un miracolo e in fondo queste nomination sono una sorta di riparazione al fatto che un capolavoro come Il nastro bianco rimase scandalosamente a bocca asciutta.
Il lato positivo e Re della terra selvaggia sono delle vere incognite, e costituirebbero una gran bella sorpresa in caso di vittoria.
Certamente nel caso di due pellicole differenti per miglior film e regia i giochi si complicherebbero ulteriormente, perché le carte andrebbero a mischiarsi con combinazioni imprevedibili. Ma per vostra fortuna io qui mi fermo, ma se volete esprimere la vostra, fate pure.
Ben "c'ho solo 'na faccia" Affleck. Sulle sue capacità recitative molti hanno mostrato più di una perplessità, che non sono mai svanite malgrado una Coppa Volpi vinta al Festival di Venezia per Hollywoodland. Forse un po' generosa, ma tutto sommato rimane probabilmente la sua migliore intepretazione della carriera.
Altro discorso, opposto al Ben Affleck davanti alla macchina da presa, è il Ben Affleck dietro la macchina da presa. Con Argo, che rappresenta il suo film più compiuto, egli è bravissimo nelle vesti di sceneggiatore, di regista e finalmente anche di attore (in questo caso perfettamente funzionale al ruolo di agente segreto, quindi meno lascia trasparire espressioni sul viso meglio è). Bravura che quest'anno ad Affleck è valsa la candidatura all'Oscar sia per la sceneggiatura (già vinto nel 1998 insieme all'amico Matt Damon per Will Hunting) che nella categoria di “miglior film”.
Argo in questo suo richiamo al cinema (fanta)politico degli anni settanta, che ha sfornato delle signore pellicole, potrebbe rappresentare il giusto compromesso che non farebbe certo gridare allo scandalo una sua eventuale vittoria. Un film molto teso e coivolgente che offre inoltre una riuscita miscela fra storia e fiction, sulla capacità del cinema di far sognare e ingannare.
Un film che unisce un intrattenimento intelligente e non poche stoccate ad un certo modo di fare politica estera del governo americano.
Da considerare inoltre che ha fatto trovare d'accordo sia la critica che il pubblico, cosa non da poco e tutt'altro che frequente. Forse il compromesso è troppo soddisfacente (ammesso che lo sia) per premiarlo?
Ci hanno provato in molti a fissare sul grande schermo quella ricerca del tempo perduto che fu la fortuna di Proust nella letteratura. Non si può dire che l'operazione sia semplice e i casi si contano sulle dita di una mano.
Resta da vedere quante dita debbano alzarsi per Heimat di Edgar Reitz: tre? Quattro? Uno solo?
Forse quest'ultima opzione.
Heimat è famoso per essere (stato) uno dei film più lunghi della storia del cinema, nonché progetto
ambiziosissimo che vuole riscrivere la storia e la memoria collettiva della Germania. Edgar Reitz, colui che ha concepito e costruito materialmente questa idea, ha quindi dato vita nel 1984 all'uscita del primo Heimat: undici episodi, quasi 16 ore di cinema. Un grande successo mondiale e televisivo anche se vale la pena ricordare che siamo lontanissimi dalle serie tv attuali: la forma è quella del cinema.
Con molta lentezza e passione ho deciso di realizzare uno speciale sul progetto di Reitz che mi ha da sempre appassionato. È appena uscita quella che dovrebbe essere la prima parte mentre le restanti due parti sono ancora in lavorazione. Lo speciale è incline più ad una semplice recensione sulla trama e i fatti che del contesto storico vero e proprio.
Ma se non avete mai visto Heimat oppure volete approfondire, chissà, magari qualche spunto interessante potreste trarlo lo stesso.
Reitz intanto non si ferma e gira un altro Heimat a quanto pare, ambientato stavolta nell'800.
Cliccando su questo LINK potrete trovare lo speciale al film. Buona lettura.
Parliamo per un secondo dell'85a cerimonia degli Oscar che si terra' al Dolby Theatre di Los Angeles il prossimo 24 febbraio. Quest'ultima edizione sara' presentata da Seth MacFarlane, classe 1973, attore comico, sceneggiatore, regista , doppiatore e soprattutto creatore di serie televisive di successo come I Griffin, American Dad! e the Cleveland Show. La precedente premiazione era stata condotta da Billy Crystal, dopo il repentino abbandono del prescelto Eddy Murphy. Purtroppo, quella del 2012, e' stata segnalata da tutti i fan della cerimonia e dell'attore come una delle più sottotono degli ultimi anni. Io effettivamente l'ho guardata interamente in diretta e non mi sono addormentata solamente poiché ai tempi soffrivo d'insonnia. I momenti morti sono stati parecchi, nonostante non siano mancati passaggi toccanti o divertenti. Quest'anno l'augurio e' che il tutto si svolga in maniera più leggera e piacevole. Un pensiero pero' anche in questo 2013 già mi attanaglia la mente e mi fa presagire che alcuni momenti morti ci saranno e riguarderanno le esibizioni sul palco della cinquina delle canzoni candidate alla conquista dell'ambita statuetta. In effetti ho sempre trovato piuttosto pesanti durante questo tipo di premiazione, che diciamolo in Italia e' trasmessa ad un orario da fuori di testa e dura più di "Cloud Atlas", le esibizioni di queste canzoni, anche perché spesso non ricordo che appartengano ad una determinata colonna sonora. Tali emozioni non totalmente positive già si palesano come cronaca di una noia annunciata. Non so se qualcuno ha ascoltato la canzone di Bombay Jayashri "Pi's lullaby" (da Vita di Pi), beh io l'ho fatto e sbadiglio fin d'ora al pensiero; poi c'e' "Skyfall" di Adele, certamente carina e orecchiabile, ma che ormai, sfruttata in svariate pubblicità e cantata in troppi talent show, e' finita col divenire irritante. Vogliamo poi parlare della vivacità e del brio che ci regalerà la performance di "Before my time" interpretata da Scarlett Johansson e Joshua Bell? In ritmo davvero trascinante ed irresistibile. Tralascio i Miserabili che comunque e' un musical e in rari casi recenti le canzoni estrapolate da questo tipo di contesto filmico rendono quanto ci si aspetterebbe. Quello che proprio non mi spiego e' la candidatura di "Everybody needs a best friend" cantata da Norah Jones in "Ted", ai danni della fantastica "La canzoncina del temporale-il Rimbombamico", sempre da "Ted". Quest'ultima, almeno, avrebbe provocato un moto sopra i nostri divani e soprattutto lo sprint per giungere alla fine della cerimonia quando si assegnano i premi solitamente più attesi. Incrociamo le dita e prepariamo tanto caffè!