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L'uomo è intimamente dilaniato da profonde dicotomie. Ad un tempo buono e cattivo, onesto e furfante, vigliacco e coraggioso è attratto unitamente dal sacro e dal profano, dallo spirito e dalla carne. Ogni scelta "manichea" tra gli estremi opposti, tra il bene e il male, rappresenta comunque una diminutio, per il destino del singolo, che lo fa soffrire di carenze. E anche quando, come nel caso di mistici, profeti od eremiti, la spiritualità dovrebbe fornire le più elevate e sublimi gratificazioni, il patimento della carne, il flagellamento e l'auto punizione diventano causa di inibizioni e di indicibili sofferenze, anche se non riconosciute.
Non tutte le scuole di pensiero, però, inneggiano alla sofferenza come valore in sé, predicando invece un sereno distacco dalle passioni, come nel pensiero stoico ed epicureo, provenienti dal lontano Oriente; o come nel pensiero del Tao e nelle filosofie "laiche" confuciane e buddiste.
C'è poi ancora un'altra impostazione, di taglio più edonistico, che, lungi dal cercare di allontanarci dalle passioni, ci inclinerebbe al godimento dei vari piaceri, se pure in proporzioni variabili e diverse. Purtroppo per noi, invece, in Occidente siamo stati allevati ad una scuola di rigido moralismo, fondata sulla mortificazione della carne, sul rinvio della gratificazione e sul senso di colpa, classici del pensiero cristiano; con possibilità di redenzione attraverso la confessione, per i cattolici, ma, ancor peggio, con una severissima etica di autoresponsabilizzazione sempre immanente nel mondo protestante.
Da cui i segni evidenti di gravissime nevrosi, che inseguono tutti noi dall'alba al tramonto della nostra vita: dove godere è peccato, e il piacere cede sempre il passo al dovere, con una perenne mortificazione dei sensi e della nostra stessa fisiologia, soprattutto in chiave erotico-sessuale.
Il grande merito di aver cercato di ridare all'uomo l'originale integrità "fisico-sensuale", va, in Occidente, alla psicologia, soprattutto freudiana; laica e pragmatica, nel portare l'individuo a ritrovare e ad accettare le pulsioni profonde del suo inconscio, recuperando genericamente il diritto a "stare bene" e senza sensi di colpa.
Questo tipo di vicenda potrebbe raccontarsi in vari modi, dal dramma borghese alla commedia, dalla tragedia alla farsa. O magari anche in chiave favolistica e simbolica, come nel caso del film anglo-americano "Chocolat", dove una coppia madre-figlia arriva inopinatamente a seminare scompiglio in un piccolo paese arretrato e bigotto, aprendo un negozietto di dolciumi. Gli abitanti, abituati da sempre a mortificanti rinunce, scoprono un po' per volta le delizie del palato, ma, ancor più, a degustarne senza provare rimorsi e sensi di colpa. Mamma e figlia, emblematicamente in viaggio da sempre, e incapaci di mettere radici, choccano il paese con le loro dolci proposte, destando negli abitanti una superiore consapevolezza del loro diritto al piacere. Ciò facendo, ovviamente, incontrano pesanti ostilità presso il potere costituito delle istituzioni, Sindaco e Chiesa locale; che dovranno però capitolare dopo avere personalmente sperimentato le lusinghe del piacere. Per estensione, poi, la vicenda si allarga, nel caso della splendida mamma (Juliette Binoche) anche ad incontri sessuali ed amorosi, con un giovane nomade vocazionale (Johnny Depp), che incarna per l'appunto l'anelito di libertà insito in tutti noi, di fronte alle costrizioni moralistiche.
Il tutto a lieto fine, come in una favola bella, dove, volendo, potremmo dire che la figura della Binoche rappresenti la metafora della nuova morale laica della psicologia, vincente sull'oscurantismo del pensiero religioso tradizionale. Il che, in effetti, finisce per risultare fin troppo didascalico e un po'semplicistico, come in tante fiabe da bambini. Peccato per un film dove, invece, non mancano momenti di toccante poeticità nel tratteggio dei personaggi, e nella pittorica di insieme dell'affascinante negozietto, coi suoi prelibatissimi dolci.
Manca forse al film un tocco di maggiore realismo e di garbata ironia, del tipo impiegato, ad esempio, nella produzione più leggera del maestro Bergman, conterraneo del regista di Chocolat, Lasse Halstrom.
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 22/03/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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