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Voto Recensore: | 7,00 / 10 | ||
Anime divise in due. Ci piace rievocare il titolo del secondo lungometraggio di Silvio Soldini ("Un'anima divisa in due", 1993), per indicare uno dei motivi dominanti della sua poetica. L'immaginazione che fa evadere e l'attuale che imprigiona; i desideri di fuga e il senso di libertà frustrato dai condizionamenti della vita quotidiana che ci siamo (più o meno consapevolmente) scelti. Il senso di responsabilità: e il valore aggiunto e/o l'alienazione con cui esso incide sull'esistenza.
Soldini non è un regista di sintesi. I suoi film, più che mai quest'ultimo, restituiscono l'enorme complessità del reale; in essi confluiscono disparati spunti che interagiscono e producono effetti gli uni sugli altri. Nessun evento è figlio solo del caso o solo della scelta: discende invece da una serie di concause, non tutte identificabili a prima vista, e spesso sotterranee.
L'istante in cui la protagonista Anna (Alba Rohrwacher) decide di "proporre un caffè" al capocameriere di un'azienda di catering Domenico (Pierfrancesco Favino) è segnato dalle sagome delle colleghe di Anna, che si affacciano curiose e sfocate sullo sfondo. E non viene detto quanto quelle sagome partecipino alla proposta, semplicemente con l'involontario sollecitare una fantasticheria che solletica.
Anna lavora in una società di assicurazioni, ha uno stipendio modesto e una comune routine. Convive con Alessio (Giuseppe Battiston) – ingenuo, ma solidamente rassicurante – da un tempo sufficiente a cominciare a pensare a un figlio (l'ostacolo, a questa proposta che proviene da lui, sembra dettato da scrupoli di ordine economico, ma nasconde insicurezze e insoddisfazioni, da parte di Anna, che lui non è in grado di sospettare, in una relazione che appare del resto asessuata). Il film si è aperto su di un parto: evento in sé denso di senso e conseguenze, la possibilità del concepimento e della procreazione, con la loro concretezza, lasciano il segno percorrendo sotterraneamente tutto il film.
Domenico, per Anna, è un incontro puramente casuale. E assume su di sé un desiderio irrefrenabile, tanto intimo da risultare all'inizio persino impercettibile. Domenico ha una moglie (Teresa Saponangelo) significativamente più bella di Anna (ché il senso comune della bellezza è assai poco indicativo), due figli piccoli, e fatica ad arrivare a fine mese. I due – l'irreprensibile Anna e il turbato e impreparato Domenico – iniziano una relazione a singhiozzo, tra reticenze e timori, bugie e rancori, in cui la clandestinità amplifica il desiderio. Non sanno praticamente nulla l'una dell'altro: eppure ciò che cercano non è uno sfogo semplicemente sessuale.
Il disegno dei personaggi è quasi scontato in superficie (non così la loro interazione e soprattutto il loro essere - e malessere - profondi). Anna non tarda a innamorarsi, e assume su di sé gran parte della sofferenza di cui il film è intriso. Domenico è più adolescenziale, ha compiuto passi dettati in buona misura dalle circostanze e dalle consuetudini; però non è pronto a mollare responsabilità che pure non ha completamente assunto, e la sua irresolutezza lo confina inesorabilmente nei limiti squallidi del maschio per cui l'ideale sarebbe riuscire a districarsi indefinitamente tra una moglie-dovere e un'amante-vacanza. Ma in realtà sente che vorrebbe evadere anche da questo schema trito e squallido, ci fosse una possibilità. Una possibilità non tanto economica: l'(impossibile) opzione sarebbe quella, infatti, di essere felici sul momento, senza rendere al contempo infelici gli altri, e tra questi i figli innocenti. I sentimenti, gli attriti e i turbamenti del finale discendono tutti da un regalo – un piccolo pesciolino di plastica – che Domenico acquista per la piccola figlia.
Gli interpreti sono encomiabili: la Rohrwacher è ammirevole per intensità, e Favino lo è per capacità mimetiche, anche linguistico- dialettali, in un lavoro "per sottrazione" di entrambi, che, tenuti a briglia stretta, incarnano alla perfezione slanci vitali, ansie ed angosce dei loro personaggi.
"Cosa voglio di più"? Interrogativo senza risposta, figlio di smarrimenti e incertezze contemporanee ma non solo circostanziati al nostro presente, non tanto almeno da non essere riconducibili a una modernità più estesa, in cui le impellenze dell'io e della soddisfazione individuale hanno in partenza il sopravvento (e l'avallo inconscio dello spettatore) sulle istanze e i doveri nei confronti degli altri. La coppia, nello sbandamento generalizzato, è la prima vittima di un trituramento che vede solo vinti, e non vincitori.
Silvio Soldini è ancora noto ai più soprattutto per l'exploit commerciale di una commedia, "Pane e tulipani", intrisa di una sorta di realismo magico, che il pubblico (forte anche della conferma, sia pur meno memorabile, di "Agata e la tempesta") torna ad aspettarsi da lui. Tuttavia, "Pane e tulipani" rappresenta quasi un caso isolato nella sua filmografia, dove invece risaltano i toni del dramma e di una ricognizione del reale attentissima a ogni dettaglio e sfumatura, con un'indomita indole di documentarista, quale d'altronde Soldini non solo è stato in avvio di carriera, ma continua ad essere.
E il suo sguardo, che non ha termini di paragone immediati nel cinema italiano contemporaneo (tranne forse Mazzacurati, per alcuni versi), è più affine all'insegnamento di Ermanno Olmi, mentre resta distante, per esempio, da un Salvatores (tanto per restare in ambito milanese).
Proprio dall'ultimo Salvatores di "Happy family", brillante esercizio di stile condotto in ambito borghese e intriso di convenienti rassicurazioni che carezzano il pubblico per il verso del pelo, quest'ultimo film di Soldini è distantissimo. È interessante il confronto, perché le due opere sono accomunate dall'assenza di distacco e da un senso di compartecipazione che si instaura tra il pubblico e i personaggi. E' tendenza dominante del cinema italiano, d'altronde, quella di creare adesione e intimità, tra i personaggi che si vedono sullo schermo e gli spettatori che in essi sono indotti bene o male a identificarsi. Non sappiamo quanto sia una tendenza che discende esclusivamente da esigenze commerciali, fatto sta che essa penetra al cuore delle personali poetiche degli autori. Soldini non ne è esente. Ma significativa è la differenza rispetto registi come Salvatores, Ozpetek, anche Virzì. Soldini infatti – da esperto documentarista – mantiene, affianco all'adesione emotiva, una acritica distanza "entomologica". Non giudica, non stigmatizza moralisticamente: ma nemmeno approva. Non consente una partecipazione esclusiva. Non parteggia per le ragioni di Anna, o quelle di Domenico. Forse perché le ragioni degli uni e quelle degli altri non possono in alcun modo iscriversi entro i termini limitativi di una semplicistica equazione, pena una semplificazione di quella complessità del reale in tutti i suoi risvolti, che Soldini sa restituire ammirevolmente. È un cinema che mantiene un'intensa presa diretta sulla realtà, registrando anche i più lievi sussulti dei suoi personaggi (che pure ama, e comprende, come pochi): un "sismografo dei sentimenti", come è stato definito.
Poche all'inizio, le ellissi temporali si fanno via via sempre più coraggiose e lievemente spiazzanti, fino a quella del pre-finale (antecedente al weekend esotico), e soprattutto a quella, definitiva, che abbandona a loro stessi i destini dei protagonisti, in un finale aperto, sconsolato e probabilmente ineluttabile. Il film si chiude con noi lì quasi ancora a scorgere di spalle i due avanzare nelle loro vite, ma in una distanza che ce li fa apparire ormai punti lontani, in un percorso prevedibile di coazione a ripetere, oppure di "rientro nei ranghi". Per il regista – ci vien come detto – le possibilità alla fine si equivarrebbero: ciò che è trasgressione oggi, diverrebbe routine domani. In fondo i due personaggi interpretati da Battiston e Favino sono interscambiabili, anche se diametralmente opposti per fisico e carattere: ciò che con uno si acquista quanto a passione travolgente, la si perderebbe in fatto di solidità e sicurezza. È constatazione più che ovvia che nessun essere umano sia predisposto a soddisfare le esigenze di domani alla maniera con cui soddisfa quelle di oggi: da questo punto di vista i rapporti di coppia non sono meno precari del lavoro. Anzi. Sembra piuttosto un discorso di percezioni, in cui il moltiplicarsi di scenari precari fa sì che gli uni amplifichino il disagio innescato dagli altri.
Il dramma che Soldini orchestra è scarnificato della musica, ma non per questo meno intenso (anzi a guadagnarne è l'indole squisitamente visiva, che si apprezza specialmente nei momenti di sospensione, in cui gli sguardi e le soggettive acquistano una grande espressività).
Le vicende sono condizionate, tantissimo, dalla mancanza di denaro. Ma il film è meno "sociale" di quanto sia "esistenziale". Il desiderio di fuga accomuna ricchi e poveri: le divergenze (il terzo matrimonio che può permettersi il capo di Anna) sono probabilmente meno significative di quanto appaiano. Nel comune orizzonte sociale della modernità, il cinema di Soldini ci ha dimostrato che i veri "outsider" (si pensi, ancora una volta, a "Un'anima divisa in due", o anche a "Brucio nel vento") sono rom, immigrati: quanti hanno in definitiva meno da perdere, e molto più da giocarsi. E forse sono anche più felici: come anche è la protagonista di quella fiaba di "Pane e tulipani", la quale in partenza si poteva liberare di tutto ciò di cui – nella vita quotidiana e fuor di fiaba – è molto meno ovvio e "giusto" permettersi di potersi liberare.
Le scene di sesso non sono affatto voyeuristiche o estetizzanti, anzi in esse vengono davvero messe a nudo due passioni che sono tanto più vissute come crisi interiore quanto rispondono nell'immediatezza a un irrefrenabile impulso fisico. Alla potenza del sesso viene dato da Soldini il peso che le spetta, senza giudizio morale e riduttivo.
Senza quelle scene, capiremmo meno cosa succede negli animi di Anna e Domenico: grazie a quelle scene, comprendiamo meglio, e ancor meno possiamo giudicarli. Distacco e partecipazione: in una fusione che forse turba lo spettatore più della lunghezza a prima vista inconcludente di un film che si chiude progressivamente come una prigione, anziché aprire un falso orizzonte di fuga.
Il film, certamente, riposa su alcuni stereotipi se vogliamo abusati, come l'impiegata zelante, il bravo marito lavoratore e imbattibile nel fai-da-te. Ma saranno pure stereotipi, però appartengono come non mai alla realtà: e non costituiscono un limite per il film.
Un limite di "Cosa voglio di più", se vogliamo trovarlo, sta nella provvisorietà di un'analisi che non arriva a farsi sintesi, né lo pretende. Perlomeno, non una sintesi stringente, e che sia paradigmatica.
È piuttosto un cinema, questo di Soldini, che apre, con le sue sfumature, sulla complessità e sulla profondità delle vite, senza chiudersi facilmente su un messaggio "pret-à-porter". Ciò aliena al risultato finale il tocco di classe memorabile del "capolavoro", del film d'autore che lascia lo spettatore con una sola, forte, consapevolezza in più. Ma – e non è da minimizzare – un film così, se ci si entra dentro – lascia maturare tante, piccole, consapevolezze.
È un cinema cui mancherà l'ampio respiro, ma non il merito di saper fuggire a morali di plastica, e a blandizie consolatorie e falsamente riconcilianti.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 14/05/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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