Recensione il grinta (1969) regia di Henry Hathaway USA 1969
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Recensione il grinta (1969)

Voto Visitatori:   7,14 / 10 (21 voti)7,14Grafico
Voto Recensore:   7,50 / 10  7,50
Miglior attore protagonista (John Wayne)
VINCITORE DI 1 PREMIO OSCAR:
Miglior attore protagonista (John Wayne)
Miglior attore in un film drammatico (John Wayne)
VINCITORE DI 1 PREMIO GOLDEN GLOBE:
Miglior attore in un film drammatico (John Wayne)
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locandina del film IL GRINTA (1969)

Immagine tratta dal film IL GRINTA (1969)

Immagine tratta dal film IL GRINTA (1969)

Immagine tratta dal film IL GRINTA (1969)

Immagine tratta dal film IL GRINTA (1969)

Immagine tratta dal film IL GRINTA (1969)
 

"Prima i sorrisi, poi le bugie. Per ultimi gli spari"
Stephen King - I Lupi del Calla

Nell'immaginario e nella cultura cinematografica di un cinefilo medio il nome de "Il Grinta" è quasi sicuramente noto. Questo perché oltre a essere il titolo di un western di fine anni '70, è anche quello del recente remake (o semplicemente di una versione alternativa dello stesso romanzo di Charles Portis) firmato Coen Brothers. il film del '69 infatti non avrebbe apparentemente motivo di essere ricordato con tanta lucidità, essendo in tutto e per tutto un western convenzionale.

La giovane ragazzina Mattie Ross (Kim Darby) ha perso il padre per mano di un masnadiero di nome Tom Chaney. Constatata l'indolenza delle autorità competenti a risolvere il caso, decide dunque di occuparsene da sola ingaggiando lo sceriffo federale più micidiale degli Stati Uniti nord-occidentali, ovvero Reuben J. "Rooster" Copburn (John Wayne), detto per l'appunto "True Grit", che potrebbe tradursi con "Vero Coraggio" e adattato sapientemente in italiano "Il Grinta".
Copburn è però uomo grossolano e scorbutico, dedito al bere, senza famiglia (se non si fa eccezione per l'amico cinese e un bel gattone di nome "Generale Lee"), decisamente sovrappeso, attaccato al guadagno e per giunta orbato da un occhio. Mattie non è però donna incline alla resa e si convince del fatto che dietro a tutto questo disagio ci sia un vero uomo, implacabile e giusto, nonché coraggioso come pochi. Mattie vuole vedere Chaney impiccato e vuole essere lei stessa, con l'aiuto dello sceriffo, a catturarlo. Ma Chaney è scappato in territorio indiano e si è unito alla banda di uno scaltro e imprendibile bandito di nome Ned Pepper (Robert Duvall).
Una volta convinto (previo lauto guadagno) Copburn a intraprendere la missione, si presenta in città un ranger texano, di nome La Boeuf, anch'egli sulle tracce di Chaney per via di un conto in sospeso nello stato del Texas. La Boeuf, vanesio e arrogante (ma in definitiva buono e coraggioso), si affianca alla improbabile coppia per prendere il fuorilegge. Entrati in territorio indiano, dopo varie peripezie, sparatorie, uccisioni, ma anche schermaglie verbali e divertenti siparietti tra i tre protagonisti, insieme alla sua banda Chaney sarà finalmente ucciso (per mano della stessa Mattie con la gigantesca pistola del padre, la quale tuttavia rischierà di morire per il morso di un serpente). Tra Copburn e Mattie nascerà una bella amicizia, La Boeuf troverà invece la morte salvando i suoi due compagni di viaggio.

Come si può constatare, lo svolgimento di questo western crepuscolare è piuttosto ordinario. L'unico elemento di novità e freschezza sta nella figura di Mattie, bambina-grande indomita e determinata come un generale d'altri tempi. Ma a ben vedere anche "Il Grinta" non si presenta come uno stereotipato cowboy da spaghetti western venuto male, bensì come un personaggio autentico e carismatico, di quelli che rimangono nell'immaginario di ognuno di noi per la grandezza della sua presenza.

Henry Hathaway, un valente regista americano attivo fino agli anni '70 ("Rommel - la volpe del deserto", "Niagara"), firma con questo uno dei suoi ultimi film. E probabilmente uno dei più riusciti, dato anche il successo di pubblico e di critica.
Più che concentrarsi sulla profondità psicologica dei personaggi, il cineasta dedica la maggior parte del film a lunghe carrellate sugli splendidi (e a dire il vero un po' finti) paesaggi del West, propendendo per una fotografia di colori caldi e solari che ne accentua la spettacolarità e la gloriosa dimensione senza tempo di tale rigoglio naturale.
Non mancano, anche se tardano un po' a venire (e a qui si ricollega la citazione iniziale), le scene di guerriglia e di sparatorie, di cui va ricordata soprattutto quella finale: John Wayne, lungi dall'essere ridicolo nei suoi troppi chili e anni di peso (è anzi uno degli elementi che più accresce la nostra stima e il di lui fascino), prendendo tra i denti le briglie e brandendo pistola e fucile nelle due mani libere si scaglia (da vero pistolero) furiosamente contro i quattro uomini di Pepper, in una radura che sembra proprio essere nata allo scopo. La sua cavalcata selvaggia lo rende degno del suo nome e ci restituisce intatto quel senso di grandezza che solo il genere western ha saputo dare.
Menzione d'onore a Robert Duvall che compare in poche scene, ma che offre da solo un'ottima prova, scolpendo sul suo rigido volto la differenza che intercorre fra lui (uomo d'onore, anche se fuori dalla legge) e il losco figuro Chaney, un semplice e volgare assassino. Questo è uno dei tipici snodi concettuali del genere ed è proprio la scelta dei volti a renderne atto.

L'indagine psicologica però non manca, ma si concentra in uno spazio circoscritto: la scena con Moon (interpretato da un giovane Dennis Hopper) e Quincy, ovvero quella al casolare abbandonato. Lo si può definire il momento più lirico del film, nonché quello più violento.
Quincy, spietato e zoticone, si contrappone (ritorna questo dualismo di caratteri, come in effetti potrebbe essere quello fra Grinta e Le Boeuf, anche se non in modo così netto, essendo essi "i buoni") al povero Moon, un'anima persa nella durezza del West. La morte di Moon è un'inevitabile ripresa di alcune commuoventi scene de "Il Buono, Il Brutto e Il Cattivo", uscito solo tre anni prima.
Tuttavia forse è l'unica scena girata in notturno (con il consueto effetto notte del western) la più significativa al fine introspettivo. In essa si rivela la bella umanità dei due protagonisti, con un amabile e sincero dialogo che ha del surreale se si pensa all'età di Mattie. Probabile che ciò sia una forzatura, ma il personaggio ne esce vestito di una dimensione migliore e più spirituale. Ma è soprattutto il Grinta a mostrare il suo volto più scoperto: basta l'intelligenza di un "tu non hai famiglia vero? A parte il cinese e quel gattone?" per rivelare la dolente umanità crepuscolare del vecchio sceriffo. "Chi il Generale? Oh ma quello non è mica mio. I gatti non hanno padroni".

John Wayne vinse il suo unico Oscar (e un Golden Globe) proprio grazie a questo simpatico, particolare, gigioneggiante, ma coraggioso personaggio; John Wayne, ossia uno degli attori che più ha contribuito a rendere questo genere (e il Cinema) grande. L'ambita statuetta suona a questo punto quasi come un premio alla carriera. Non che "True Grit" sia la sua migliore prova, ma di sicuro una delle più amate e ricordate (e il film non fu esente da un sèguito nel '75, che vede il protagonista affiancato dalla divina Katharine Hepburn). John Wayne, con la sua simpatia, la sua andatura, le sue battute un po' ingenue ma folgoranti ha impersonato il Western e il suo Oscar è dunque più che meritato.

Non è compito di questa recensione parlare anche del grandissimo remake dei Coen, ma di sicuro un commento finale è d'obbligo.
Cosa è cambiato dal 1969 al 2010? Tutto. È curioso che i due registi americani abbiano voluto realizzare tale progetto, essendo ormai il western un genere pressoché abbandonato. Eppure il film dei Coen è in tutto e per tutto fedele a questo filone, a questa estetica, pur capovolgendo la struttura della pellicola di provenienza. I personaggi sono infatti attraversati da un'inquietudine esistenziale sconosciuta al precedente, le scene sono per la maggiore immerse in una serica notte di sogno, e i protagonisti di questa assurda vicenda di fuga e di caccia ne escono estremamente colpiti e segnati. Il Grinta di Hathaway terminava con una sequenza particolare (sulla tomba del padre, Mattie e Rooster si danno l'arrivederci: "Qualche volta vienilo a trovare questo vecchio ciccione!", anche se non manca un commento particolare e suggestivo, quasi sussurrato da Mattie: "Vorrei che tu riposassi vicino a me Rooster"), ma che rivelava ancora una fede incrollabile nella formularità ormai consolidata degli schemi del genere (e in questo risiede forse il fascino senza tempo del film, ma anche la stucchevole convenzionalità che pervade l'intera opera).
In quello dei Coen tutto, dalle ambientazioni ai caratteri, riporta a una dimensione essenzialmente interiore, come se il western avesse cambiato volto e funzione, come se ci si fosse dimenticati del glorioso passato di questa grande fetta di Cinema. L'opera dei Coen si configura dunque come un requiem per un Film Western. Ci cattura con la sua spettrale malinconia ironica, con tutta la sua potenza devozionale a un genere dall'immenso trascorso, di cui forse Il Grinta di John Wayne e Henry Hathaway è uno dei più significativi fautori.

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Recensione a cura di Terry Malloy - aggiornata al 16/04/2012 16.24.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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