Recensione il labirinto del fauno regia di Guillermo del Toro Messico, Spagna, USA 2006
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Recensione il labirinto del fauno (2006)

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locandina del film IL LABIRINTO DEL FAUNO

Immagine tratta dal film IL LABIRINTO DEL FAUNO

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Che il cinema non sia più in grado di entusiasmare le folle non è un mistero. Ovvio, di giudizio generale si parla; le eccezioni esistono, ma non creano la norma. Piuttosto la eludono, creando i presupposti per nuovi spunti di riflessioni. Il danno principale che ha posto il cinema in lenta e crescente agonia è senza dubbio la coincidenza di produzione e distribuzione, e il figlio illegittimo di questo amplesso incestuoso è lo spostamento del target del cinema stesso: non si soddisfa più lo spettatore ma la casa di distribuzione. Si potrebbe obiettare che si distribuisce ciò che il pubblico chiede, ma è anche vero che la costrizione della visione ad agenda unica lascia ben poco spazio alla scelta. Quando 9 sale su 2 proiettano lo stesso film, relegando a ghetto i cosiddetti film d'essai (che fino a 10 anni fa erano la norma, altro che essai) è ben logico parlare di creazione del consenso di gusto cinematografico che passivamente si subisce. La logica dell'incasso facile e della previsione del successo che arride sempre e comunque (e col minor sforzo possibile) è il fiero vessillo del remake, i cui tempi di latenza fra originale e copia si fan sempre più sottili, tanto da non rendere remota un'epoca in cui il remake uscirà contemporaneamente all'originale.
Chiaro, l'eccezione si fa strada anche in quest'ultima categoria, ormai genere a se stante; si veda "The departed". Ma lì c'è un conclamato autore, non un pischello qualsiasi.

Tornando al centro nevralgico della questione, perché il cinema non appassiona più? A nostro giudizio lo spostamento d'asse verso il gradimento unico delle Major ha privato i cineautori della componente imprescindibile per eccellenza: l'ambizione per il proprio operato, che nasce direttamente dalla passione infusa. Si può immaginare un'opera (in qualunque campo artistico variamente inteso) che trasudi pathos, quando il principio generante è nato all'insegna della totale mancanza di passione verso l'oggetto creato? Eppure qualcuno si fa strada nel conformismo che pialla il consenso e appiattisce il senso critico ed estetico dello spettatore. Qualcuno resiste, ostinandosi con fresca caparbietà a presentare opere che abbiano come interlocutore privilegiato i sentimenti degli spettatori più che le tasche dei produttori.

Guillermo Del Toro è una di queste eccezioni, benché incostante e fino a qualche tempo fa ancora piuttosto acerbo. Non nasconde di aver servito Hollywood con qualche film alimentare ("Blade 2"), ma con orgoglio rifiuta la direzione del terzo "Harry Potter", anche se al suo posto gira "Hellboy", opera non proprio riuscita. Ma il progetto di Del Toro è chiaramente un altro: la qualità non si discute, carta canta. Qual è questo progetto? E' presto detto; una trilogia sulla Spagna e i suoi orrori, inaugurata nel 2001 con "La spina del diavolo" e che terminerà prossimamente con "3993", presumibilmente ambientato in una Spagna contemporanea con l'ombra del franchismo che di tanto in tanto oscura qualche coscienza. Nel mezzo sta "Il labirinto del fauno", ancora sul franchismo. Del resto Franco è stata la macchia nera del popolo spagnolo, nessuna sorpresa che si tenti oggi di affrontare, per chiuderlo, tale discorso.

La trama è molto semplice, come semplice e scarna è la fabula e l'intreccio delle fiabe; siamo nella Spagna del '44, neutrale in guerra ma oppressa dal generale Franco, portatore ideologico del più bieco fascismo intransigente ed illogico. La figura che incarna tale irragionevole autorità è il capitano Vidal, che, arroccato nella sua guarnigione di uomini che non si fanno troppe domande, desidera eliminare ogni traccia di resistenza presente nelle colline circostanti. Vidal ha preso in moglie la bella Carmen, da cui aspetta un figlio, e che a sua volta ha già una figlia nata da un precedente marito ormai defunto. Ofelia è il suo nome, figura di considerevole pregnanza, dal momento in cui sposta l'asse narrativo dal realismo degli avvenimenti a quello psicanalitico-cognitivo, nel tentativo di rileggere la sua angoscia in chiave fantastica.

Durante la visione del film si assiste ad una vera e propria dicotomia, una scissione del meccanismo narrativo che con certosina perizia separa i tragici avvenimenti che fanno capo al racconto INTORNO alla guerra con l'approdo a considerazioni SULLA guerra. Se la prima modalità di visione è narrativamente realistica e attinente alle quotidiane vicissitudini, la seconda è non solo il completamento della prima, ma ne tesse il giudizio critico su cui Del Toro insiste sin dal primo "La spina del diavolo". Ovvero non una semplice enunciazione di cronache che ne condannino in modo netto e superficiale la morale, ma la riflessione che dal microcosmo della guerra si eleva a macrocosmo della tragedia; da dramma personale a universale. E il grido di angoscia non nasce più da protagonisti ormai condannati dalla storia o da oppositori dalla cui parte si staglia il "bene assoluto", ma dalla categoria da cui nasce speranza, ovvero quella dei bambini. Un punto di vista scevro da considerazioni ideologiche (che pur pesano e incidono), per questo forse più genuino e sincero, con passione avulsa da qualunque finalità che non sia una pretesa a vivere in un mondo in cui prosperare sereni. Ne "La spina del diavolo" si assisteva al riscatto di alcuni ragazzi coesi contro l'assurdità della natura umana quando la guerra le permette le peggiori nefandezze. Ne "Il labirinto del fauno" l'indiscussa protagonista è Ofelia, che è sola, senza la compagnia di ragazzine della sua età con cui condividere il dolore. A quell'età, la mente è fervida abbastanza da creare alleati (?) fittizi, in assenza di quelli reali. E Del Toro ci guida attraverso meravigliose (anche nell'accezione etimologica del termine) sequenze tra l'onirico e il fantasy, in Cui Ofelia è nominata principessa dal fauno Pan, misteriosa figura che la guida attraverso tre misteriose prove che la renderebbero principessa a tutti gli effetti. Sono sequenze la cui descrizione ne sminuirebbe il valore visionario e poetico, consigliandoci quindi di astenerci dalla narrazione.
Ma almeno che ci sia concesso di ricordare la scena del banchetto, con Ofelia che non deve risvegliare la mostruosa creatura dormiente. E'una sequenza davvero forte, caricata emotivamente quasi ai limiti del sopportabile; e l'oscurità del film stesso fa si che le aspettative dello spettatore non siamo mai troppo rinfrancate.

Perché, va detto, "Il labirinto del fauno" è un film crudo, in cui i semi della speranza poco attecchiscono. La fredda morsa della mietitrice è sempre pronta ad abbattersi su tutti, così come lo è il contesto guerrafondaio che fa da scenografia al film. Parlare del finale sarebbe tabù; non si potrebbe, non si dovrebbe. Ma a chi facesse paragoni con "Big Fish" vorremmo ricordare che mentre quest' ultimo costruiva una storia a sè col solo intento di trascinare a commozione lo spettatore (quasi ad indicargli il momento esatto in cui sfoderare la lacrima retrattile), "Il labirinto del fauno" porta le sequenze fantastiche in un altro livello assolutamente indispensabile alla decodificazione della morale ultima del film, facendole assurgere a livello di metasequenze utili non solo allo svolgersi della trama, ma costruendone il senso ultimo. In sostanza, uno spaventoso urlo di una bambina che grida contro una realtà che non capisce e che non accetta; urlo che si trasfigura in applausi di gioia nelle ultime sequenze, in cui il fantastico vince sulla beffa che la realtà porta in seno fin dall'eternità. Il riscatto, in extremis, di un mondo immaginario sconfitto dall'assurdità della guerra, ma destinato a perdurare in eterno nel cristallizzarsi negli ultimi istanti di vita ci ciascuno. Se dopo ci sia un ulteriore redenzione è indifferente; l'importante è quello scatto, quel fermoimmagine che diventa immortale nel momento stesso del trapasso. Si è molto insistito circa il clima cupo e fosco, che regala poca speranza e dona molte insoddisfazioni.

Giova ripetere: "Il labirinto del fauno" è un film che fa paura, ma non come potrebbe farlo nel senso di un horror (che non è manco di striscio). Paura carica di angoscia che potremmo azzardare "positiva", data la sua finalità non solo tesa a soddisfare lo stomaco ma anche la mente. E'curioso constatare come parecchi spettatori siano stati fuorviati, nel giudizio, dalla presunta difficile collocazione "di genere" del film; a nostro avviso non ha senso perdersi in discussioni para-semiotiche volte a determinare l'appartenenza ad una categoria, ma volendo accontentare la sete di classificazione imperante crediamo che "Il labirinto del fauno" non sia altro che una fiaba. E le fiabe fan paura, devono far paura, educando il destinatario attraverso gesta e miti archetipici propri del meccanismo della fiaba, così da aiutare l'ingresso del piccolo ascoltatore in quella che è la logica della sua cultura di appartenenza, dominata da riti e liturgie derivando appunto dalle figure volutamente stereotipate della fiaba. Del Toro va oltre e sovrappone le categorie dell'infanzia con quelle della coscienza adulta e responsabile: un sublime sincretismo di intenti che stordisce e ammalia lo spettatore, cancellando la sua età anagrafica e regalandogli la visione di un affresco di rara bellezza e pregnanza significante.

Registicamente, il passo avanti rispetto a "La spina del diavolo" è evidente. Del Toro ci stupisce non solo con le già citate sequenze fantastiche, ma anche con la costruzione di alcuni climax che saremmo gentili a definire violenti. Era dai tempi di "Irreversibile" che non si vedeva una sequenza in cui un personaggio (Vidal) spacca il naso a un presunto membro della resistenza con tanta ferocia. Ma ciò che fa riflettere è come la visione del cinema del 2000, pur tra i suoi mille difetti, stia recuperando un senso di anticensura, nettamente in contrasto con i poveri anni '90. E'con una certa soddisfazione che Del Toro ci mostra in dettaglio Vidal che si ricuce la bocca tranciata da una lama, in un bel sorriso chirurgico degno del miglior Kakihara. Il giovane regista (che somiglia in maniera impressionante a Peter Jackson) non solo ritrova una coerenza di stile un po'altalenante nelle precedenti prove, ma conquista un'unità logico-narrativa che è propria dei migliori autori. Ne "La spina del diavolo" il connubio tra cruda realtà e intermezzo horror (che definiremmo pedagogico) non era davvero riuscito, a scapito dell'equilibrio e dell'intreccio. In quel film la vicenda soprannaturale dei ragazzi sembrava un "a parte" che il regista aveva concesso per accontentare un po' tutti. Ne "Il labirinto del fauno" l'armonia degli incastri è di una tale dolcezza espositiva da non far nemmeno accorgere lo spettatore del costante slittamento tra reale e immaginario, come in una sinestesia in cui non si riesce a percepire l'inizio e la fine di una data categoria sintagmatica. E' tutto talmente posato che non si rilevano salti, né bruschi né più o meno tranquilli, in questo film. La vicenda scorre senza sosta, tra fosche atmosfere, fallaci speranze e intermezzi che sembrano usciti da qualche quadro di Goya verso la sua inevitabile fine (che è davvero una "fine", non ammette repliche né ripensamenti). E ci sentiamo infinitamente sollevati, non solo per la qualità del film, ma perché per una volta ci capita di assistere all'enunciazione di uomo come noi piuttosto che di una major che il cui unico fine è di ricordarci cosa siamo in grado di fare con gli effetti speciali digitali. Sarà anche per questo che Del Toro ha affidato le sue creature al lattice e non a qualche bit. A volte il vintage trionfa anche su schermo.

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Recensione a cura di cash - aggiornata al 01/12/2006

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