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Uscito nel 1960 con un paese in pieno boom economico e quindi alle prese con una crescente circolazione di autovetture sulle strade, il film vuole giocare principalmente sul nuovo corso italiano e non a caso è diretto da Luigi Zampa, uno dei maestri della satira all'italiana.
Si ironizza sul codice della strada e su alcune imposizioni (il triangolo ad esempio) ritenute inutili o addirittura dannose, ma è presa di mira anche l'arroganza che caratterizza gli uomini in divisa, la mala abitudine delle raccomandazioni, vizio atavico tutto italiano che prende piede in virtù del connubio Chiesa-Stato particolarmente forte in quel primo quindicennio della cosiddetta Prima Repubblica.
La storia ruota intorno a un disoccupato di lungo corso (Alberto Sordi) che grazie alla solita raccomandazione ecclesiastica riesce a ottenere un posto come vigile urbano. Zelante e immediatamente preda della "sindrome da divisa", il neovigile finirà ben presto per cacciarsi nei guai e finire in una situazione più grande di lui.
Protagonista a tutto tondo capace di passare con disinvoltura dalla comicità gigionesca e cialtrona alla denuncia sociale "tout court", Alberto Sordi, è appena quarantenne ma già divo riconosciuto, in stato di grazia e alcune delle scene recitate - sia quelle con la brava Marisa Merlini sua consorte cinematografica, che quelle al fianco della bella Sylva Koscina - sono a pieno diritto entrate nella storia del nostro cinema.
A completare l'opera vi sono poi i soliti caratteristi spesso affiancati ad Albertone in quegli anni, insieme a Vittorio De Sica, assolutamente perfetto, con la sua aria a metà tra lo svagato e il cinico, ormai consacrato attore leggero fin dai tempi di "Pane, amore e fantasia" e spesso affiancato a Sordi anche in molte pellicole di là da venire.
"Il vigile" si ispira ad una storia vera, ed è anche una storia di sopraffazione piuttosto amara che causò non pochi problemi a regista e attori in un'Italia repubblicana e democratica ma particolarmente sensibile alla satira contraria e pertanto piuttosto adusa a ricorrere all'arma della censura.
La Chiesa, braccio destro dei poteri forti di allora, completava spesso l'opera non esitando a bollare come "scandalosa" una pellicola che lasciava intravedere un millimetro di più del dovuto o che trattava un argomento considerato lascivo o sconveniente.
Bravissimo, con un'aria sorprendente da consumato adulto, l'allora bambino Franco Di Trocchio, nel ruolo del figlio di Sordi. E' lui che "provoca" una delle battute più celebri e chiacchierate (all'epoca) del film in cui si fa accenno alla necessità di piegarsi ai potenti che hanno sempre ragione. Il Bambino reclama che questa è un'ingiustizia e allora il nonno, interpretato dal mitico Carlo Pisacane, (il Capannelle de "I soliti ignoti") risponde amaramente che alle ingiustizie è meglio che ci si abitui da piccolo alle perché da grande non ci si abitua più.
Peccato che come molti ragazzini prodigio, soprattutto se di umili origini, terminata la fanciullezza abbia deciso di optare per un'attività più prosaica (il gestore di una macelleria).
Un plauso agli sceneggiatori che seppero fronteggiare con classe i feroci attacchi del governo di allora (primo tra tutti l'immancabile Giulio Andreotti croce e delizia per chi lavorava nel mondo del cinema in quel periodo) riuscendo a confezionare una pellicola intramontabile, da vedere anche per capire meglio la storia del nostro Paese.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 06/09/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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