Voto Visitatori: | 5,54 / 10 (57 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 4,50 / 10 | ||
Da parte di molte, forse troppe dive (e divi) del cinema nostrano ed internazionale, vi è spesso un'ostentata manifestazione di autorialità, che spinge ad emanciparsi dai propri colleghi e a tentare di percorrere nuove strade, o meglio, di intraprendere nuove forme di espressione artistica.
Non poteva certo estraniarsi a questo discorso la Dark Lady per eccellenza del cinema italiano, Asia Argento, che in seguito ad una carriera di attrice con risultati altalenanti e a qualche esperienza come aiuto regista di alcuni apprezzati cortometraggi, passò, nell'ormai lontano 2000, dietro la macchina da presa, dirigendo ed interpretando in veste di protagonista il controverso mockumentary (?) "Scarlet Diva".
Alla sua uscita nelle sale, il film venne pesantemente criticato da gran parte degli addetti ai lavori e il pubblico praticamente lo ignorò. Tuttavia si trattava di un'opera coraggiosa, molto probabilmente incompresa - forse anche dalla stessa autrice – che aveva perlomeno il pregio di porsi di fronte agli spettatori in modo non certo usuale e scontato, portando in scena temi scottanti affrontati con durezza e sincerità.
Quattro anni più tardi, la Argento si rimise al lavoro sul controverso romanzo parzialmente autobiografico di J.T. Leroy, traendone spunto per dare vita alla sua seconda fatica dal titolo "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa".
Al centro della vicenda vi è Sarah, una giovane sbandata che vive con il figlioletto di 7 anni in un oblio di disperazione: non ha un lavoro e cerca di tirare avanti prostituendosi e spacciando droga. A seguito delle sue insane scelte precipiterà, insieme al piccolo Jeremiah, in un abisso di follia dal quale sarà difficile, se non impossibile, uscire.
Se "Scarlet Diva" poteva essere inteso come un tentativo di evoluzione artistica, con questa seconda opera l'attrice e regista romana pare tenti già un processo di maturazione, affrontando nuovamente temi forti e drammatici che difficilmente riescono ad essere portati sul grande schermo con successo.
Gli spettrali paesini del sud degli Stati Uniti e l'atmosfera desolante richiamano inequivocabilmente il primo, ma anche l'ultimo Gus Van Sant, identificato dalla stessa Argento come uno dei suoi principali modelli di riferimento, ma non è difficile scorgere anche diversi riferimenti a Vincent Gallo e al suo "Buffalo '66", non tanto per l'impianto narrativo in sé ma più che altro dal punto di vista prettamente formale.
La pellicola è difatti strutturata nel modo più comune in cui vengono realizzati i film indipendenti americani, con immagini sgranate ed opache e con scelte di regia talvolta curiose e talvolta solo fastidiose. Qui, la macchina da presa è in costante movimento, cerca ossessivamente di trovare quello spunto, quel dettaglio, quell'inquadratura, quel volto, quell'espressione che possa scuotere e sorprendere il pubblico ma riuscendoci solo di rado.
La sensazione predominante è proprio quella di trovarsi di fronte ad un film girato non per 'essere' ma solo per 'sembrare' qualcosa che non è, che mette veramente troppa carne al fuoco e che si perde già dopo la prima mezz'ora, causa una sceneggiatura indubbiamente ambiziosa ma purtroppo anche presuntuosa e grossolana, che sfrutta i camei di numerosi nomi altisonanti come Winona Ryder, Ornella Muti, Peter Fonda, Michael Pitt, Ben Foster e addirittura un inedito Marilyn Manson per sopperire all'assenza di una solida struttura.
Il suo più grande difetto risiede probabilmente nella poca credibilità dei fatti raccontati e, se il romanzo di Leroy poteva sconvolgere perché comunque induceva i lettori a pensare che tutte le vicende raccontate fossero veramente state vissute dall'autore, lo stesso non si può dire del modo in cui queste sono state tradotte in linguaggio filmico.
Ciò che manca è proprio quell'indispensabile tocco personale da parte della regista. Al di là del tormentato rapporto con il padre Dario e di tutte le vicissitudini ad esso legate non possiamo che immaginarla in un'infanzia ovattata e del tutto priva dello squallore che invece contraddistingue quella del piccolo Jeremiah. L'impressione che ne esce è che alla Argento manchi la competenza, anche solo teorica, per parlare del vissuto di cui narra.
Quella che poteva essere un'interessante e realistica cronaca di una madre e di un figlio alla loro personale ricerca del Sogno Americano, si riduce invece ad essere solo un triste ed irritante b-movie animato da personaggi tossicomani e paranoici letteralmente sperduti nel nulla.
Le premesse erano buone, ma il risultato è tutt'altro.
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Recensione a cura di FrancescoManca - aggiornata al 06/10/2010 10.32.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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