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La "città sul quarantacinquesimo parallelo" (Torino) è il teatro delle vite un po' disperate di Ugo (Walter Leonardi), immaturo quarantenne che sta dilapidando l'eredità che gli ha consentito di vivere finora senza lavorare, Maria (Manuela Parodi), agente di viaggio alla ricerca del Principe Azzurro e Dario (Eugenio Franceschini), studente poco convinto di Lettere. Tra passatempi bizzarri e tensioni sentimentali irrisolte, lo sfratto di Ugo (che ospita Maria e Dario) diventa lo stimolo per cercare un modo più autentico di vivere e uscire finalmente dalla routine e dalla mediocrità.
"(...) la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio."
"La Luna su Torino", secondo il regista Davide Ferrario, prende a cifra stilistica la leggerezza di Calvino e come riferimento esplicito quella di Leopardi, che forse unico prima di Calvino aveva avuto la stessa capacità di coniugare profondità di pensiero, innovazione e agilità di scrittura. Troppa ambizione, per un piccolo film italiano. Ferrario, che pure non è un esordiente, carica del peso della leggerezza calviniana un'opera che non ha sufficiente respiro per non sembrare l'ennesimo inconcludente ritratto di un'Italia che non esiste nella realtà, raccontando un precariato emotivo e sociale poco credibile (perché sulle spalle di personaggi poco credibili) credendo di alleggerire il minestrone con una cornice fiabesca che aggiunge solo entropia. Togliere peso non vuole dire mai togliere senso, ma è proprio quello che avviene con i personaggi de "La Luna su Torino".
Giacomo Leopardi, trattato così, citato a sproposito, sembra Moccia, e lo dicono gli stessi personaggi del film nell'unica battuta davvero riuscita. "La Luna su Torino" racchiude tutti i difetti del cinema italiano, in primis la mancanza di coraggio e idee. Ferrario lascia i lidi sicuri fatti di personaggi della televisione prestati al cinema degli ultimi lavori, ma non riesce nemmeno a puntare davvero sui suoi riferimenti letterari: la leggerezza è svilita da una scrittura che si rifugia nella semplice giustapposizione di personaggi visti e stravisti, i soliti insopportabili stramboidi (solitamente toccano a Giuseppe Battiston, in questo caso invece c'è Walter Leonardi) caratterizzati da inutili tic e manie che servono a dare colore, ma tolgono ogni speranza residua di autenticità. Alla voce profondità si trova il racconto di una ragazza che sogna il grande amore (tema di mortifera banalità), un ventenne che lascia l'università e un quarantenne simpaticamente buono a nulla che suona l'ukulele (nuovo refugium peccatorum musicale del cinema indipendente, finché non lo scopre anche Brizzi).
Il cinema italiano d'autore (al di fuori di pochi grandi) continua a parlare di niente, a non scegliere mai un genere se non questo strano tipo di commedia che rifugge in egual misura il vero dramma e la vera comicità, aspirando a un lirismo minimalista e superato, che Ferrario non nasconde con le sue stancanti riprese di una Torino mai così cinematografica e mai così insopportabilmente artefatta, che vorrebbe evocare (anche tramite la colonna sonora e la voce fuori campo) la Parigi virata sul giallo-verde di Jean-Pierre Jeunet. Tutto già visto, e purtroppo in modi molto più convincenti.
Ferrario aveva già omaggiato Torino con "Dopo Mezzanotte", ma dopo dieci anni torna di nuovo alla stessa tematica, in pratica allo stesso film: la reiterazione non funziona, la replica non incide come l'originale. Tutto intorno, il mondo cambia, il cinema si trasforma, magari non in meglio, ma non è tornando sui propri passi che si realizza il paradigma della leggerezza. Al contrario, si sprofonda nelle impronte già lasciate precedentemente, senza lasciarne di nuove.
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Recensione a cura di JackR - aggiornata al 01/04/2014 16.37.00
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