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L'amore che finisce, l'amore che inizia, l'amore che cambia e muta nel tempo: Paul (Lou Castel) e Marcus (Jean-Pierre Léaud) sono due amici che, non più giovani, si trovano a riscoprire questo sentimento.
Paul è un attore di teatro sposato con Fanchon ma innamorato di un'altra donna, Ulrika, e cerca di restare con la moglie solo per amore dei figli. Marcus è uno scrittore che invece ama Hélène che lo lascia e se ne va da Parigi.
Quelle delineate da Garrel sono storie di persone comuni che, come spesso accade, ad un certo punto della vita debbono rimettere in discussione le certezze fino allora costruite e che si trovano a porsi nuovi quesiti ai quali devono trovare una risposta.
Gli attori perdono qualsiasi connotazione di "finzione". Essi non sono belli, se per bello si intende quella concezione di bellezza come perfezione fisica a cui il cinema ci ha da sempre abituato. Spesso struccati, spettinati, poiché la bellezza in Garrel deve trovarsi nel soggettivo e non nelloggettivo, ostinandosi a ricercare sempre ciò che traspare, da uno sguardo, da un'espressione, da un gesto e mai ciò che appare scontato.
Allo stesso modo anche i luoghi ci rimandano ad una normalità: palazzi, strade, gli ambienti dove si svolge l'azione non ricalcano i topoi hollywoodiani ma sono consueti tanto da infastidire lo spettatore che non ritrova nella pellicola un ideale di perfezione ma un riflesso della realtà umana in cui può identificarsi.
Una realtà che può essere anche splendida, tenera negli sguardi innamorati e nelle mani che si sfiorano, come dimostrano le scene dolcissime in cui Paul è insieme alla figlia appena nata; quei gesti pacati, quelle mani pesanti che toccano un esserino così fragile.
Ma allo stesso tempo la realtà è dura come la vita stessa, dove si nasce e si muore, come riassume la sequenza in cui le grida di una bambina che viene al mondo sono contrapposte al silenzio raggelante della guerra e della morte.
Il realismo di Garrel non scende mai nella banalità e, come spesso accade nei suoi film, la cinepresa diventa un occhio soggettivo che indaga nel reale: fermandosi, spostandosi, scrutando intorno a sé la macchina da presa di Garrel sembra avere un'anima, come un uomo che guardandosi attorno possa posare lo sguardo laddove è interessato. Abbandonando preconcetti stilistici ed escamotage narrativi guarda il reale attraverso una prospettiva che ne estrapola il lato artistico e poetico.
Anche l' utilizzo del tempo ha la sua naturalezza soggettiva, i piani spesso sembrano gonfiarsi all'inverosimile ed eccedere nella durata solo per mostrarci un particolare, ma anche questo fa parte della consuetudine dell'essere umano che si perde nel guardare, sia che stia ammirando un mare in tempesta sia che stia fissando una banale tazzina di caffè.
La scelta di non usare il colore ma il bianco e nero non è un vezzo autoriale ma serve a spogliare del superfluo per poter accedere direttamente al senso del gesto, all'essenza dell'azione; un bianco e nero che nel contempo ovatta e attutisce i duri colpi della vita. Come diceva Renoir la favola non va cercata al di fuori ma dentro la vita, perché è la vita stessa che già la contiene.
Garrel sublimando la realtà, questa favola la trova con la spontaneità di un cineasta che al cinema ha dedicato l'esistenza, con passione e al di fuori delle luci della ribalta.
Philippe Garrel è la prova tangibile che tuttora il grande cinema esiste, lontano dalla ridondanza di certe pellicole che nascono e vivono soltanto di pubblicità, da film finti che spacciano per vita reale ciò che di più lontano dalla realtà non potrebbe essere.
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Recensione a cura di monia - aggiornata al 21/10/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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