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Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
La scimmia: animale associato al dio scintoista Koshin, dio della strada e protettore dei cavalli; la rappresentazione tipica in questo senso è nella forma del trio non vedo/non sento/non parlo, ovvero il non riuscire ad affrontare la realtà, il sottrarsi alle responsabilità di tutti i giorni.
Questo ci vuole dire il Maestro Nuri Bilge Ceylan con "Le tre scimmie", terza sua opera in concorso al Festival di Cannes e meritatamente vincitrice della Palma d'Oro come miglior regia.
Le tre scimmie rappresentano anche il possesso materiale che, secondo il regista, è la causa dello sfascio dell'umanità e, nel suo senso più ristretto, della famiglia.
La trama è tanto surreale quanto semplice.
Un politico uomo d'affari in piena campagna elettorale investe ed uccide accidentalmente una persona: due testimoni non lo riconoscono, ma prendono il numero di targa della sua auto. Per paura di un fallimento politico l'uomo domanda al suo autista, Eyup, estraneo al fatto, di autoaccusarsi dell'accaduto in cambio di una cospicua somma di denaro. Eyup, con moglie e figlio a carico (e più avanti scopriremo che ha perso in passato un bambino) accetta.
Il figlio di Eyup vuole acquistare un'auto e domanda alla madre di rivolgersi al politico per farsi anticipare parte dei soldi promessi; l'uomo accetta ma tra lui e la donna inizia una relazione. Da qui si arriverà ad un finale onirico-shakespeariano o anche biblico-evangelico, con il ritorno di Eyup alla libertà.
Non c'è sacrificabilità, ma solo sensi di colpa mai colmati in modo razionale in questa favola tragica di Nuri Bilge Ceylan. Il mondo è allo sfascio, non ci sono più relazioni tra le persone, e la Turchia non si sottrae da questa triste realtà. L'incomunicabilità (e ritorniamo alla favola delle tre scimmie) sta alla base di tutto: l'avevamo visto in "Uzak", nell'incomunicabilità tra i due cugini, e ne "Il piacere e l'amore", nell'incomunicabilità tra un uomo e una donna; stavolta, con "Le tre scimmie" il regista non salva nemmeno il nucleo familiare.
Il tutto viene condito da una serie di immagini a dir poco sublimi, lente ma mai fini a sé stesse; probabilmente Ceylan è uno dei pochi registi al mondo in grado di permettersi virtuosismi di macchina che hanno sempre comunque un significato preciso.
Immagini legate a suoni che sono una vera delizia per un pubblico adatto in ogni caso alla lentzza kunderiana di questo Maestro. La fotografia, che richiama in un qualche modo "Stalker", invita alla riflessione così come i lunghi momenti statici.
Per la prima volta poi, come accennato sopra, Ceylan affronta il tema del sogno: non ci è dato di sapere come è morto, ma capiamo benissimo quanto abbia inciso sulla famiglia la perdita del bambino. Lo sogna il fratello, nel momento di massima depressione, e lo sogna il padre, anzi lo "vive" fisicamente verso la fine del film, quando ormai la disperazione sta alla base di tutto. E nemmeno un finale aggiustatore, può dirsi veramente lieto. Il denaro e il possesso, nel tema dell'eterno ritorno, hanno vinto ancora su tutto.
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Recensione a cura di paul - aggiornata al 23/09/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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