Voto Visitatori: | 6,25 / 10 (117 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 7,50 / 10 | ||
Dopo la terza visita al parco-giochi "Ocean", George Clooney torna al film d'impegno sociale a lui più congeniale (lo dichiara in ogni intervista).
Non solo partecipa alla produzione di "Michael Clayton", ne interpreta anche il protagonista affidandosi alla sceneggiatura e alla direzione di Tony Gilroy, regista esordiente ma già noto sceneggiatore di alcuni importanti successi ("L'avvocato del diavolo", "L'ultima eclisse", i tre "Bourne").
Clooney ci offre un'altra intensa interpretazione dopo quella dell'agente Cia nel complesso "Syriana", che gli valse l'oscar, e dopo il cerebrale "Good night and good luck", in cui si rivelò anche abile regista.
"Michael Clayton" rientra nell'elenco dei numerosi film sul tema della corruzione delle Corporation statunitensi, ree di frodi e corruzioni funzionali al cospicuo introito, a discapito degli ignari consumatori sovente vittime predestinate dei loro prodotti.
L'argomento reiterato ne costituisce forse un limite, tuttavia il regista-sceneggiatore ha l'indubbio pregio di narrare la vicenda focalizzando l'attenzione sulla psicologia dei personaggi, con esiti ragguardevoli al confronto di film analoghi, quali ad esempio l'"Erin Brockovich" di Soderbergh che, benché suffragato da una storia vera, non raggiunge certi amari affondi psicologici, presenti in "Michael Clayton".
Tutta la storia ruota intorno al percorso di redenzione morale di un cinico consulente legale, autodefinitosi "spazzino" in quanto ripulisce con scafata abilità il marciume dalle pratiche corrotte di multinazionali o di clienti facoltosi e arroganti. A suo modo è molto vicino all'amico Arthur (il migliore nel campo), suo collega nello stesso prestigioso studio legale di NY. Questi inopinatamente è colto da una crisi di coscienza tanto profonda, quanto inopportuna, che lo spingerà a raccogliere in un dossier incontrovertibile le prove di colpevolezza verso la Società farmaceutica UNorth, che avrebbe invece dovuto difendere in una causa da svariati milioni di dollari.
Arthur (il bravo Wilkinson) sembra ormai fuori controllo perciò pericoloso, in quanto parte dello stesso sistema corrotto di cui conosce ogni minimo segreto. A Clayton il compito di rinsavirlo a favore del potente Studio legale, cui è legato per i debiti accumulati.
Difficile definire il genere di questo film, se proprio si deve, lo si potrebbe collocare tra il thriller giudiziario e il film di denuncia.
Sarebbe comunque una collocazione approssimativa, poichè il lungometraggio, oltre ad un impianto narrativo e ad un montaggio solidi, non si regge sull'azione (come i film tratti dai romanzi di Grisham), neppure sulla ricerca del dettaglio sensansazionalistico allo scopo di provocare l'indignazione dello spettatore (come nel già citato "Erin Brockovich"). Il suo punto di forza, semmai, è nell'analisi psicologica dei personaggi condotta attraverso i dialoghi, i gesti, gli sguardi, la fotografia degli ambienti in cui essi agiscono. Non per niente il film si apre con un lungo monologo: una voce fuori campo, amaramente sarcastica, ci accompagna lungo la lenta carrellata sui luoghi e sui volti intorno ai quali ruoterà la storia; e si chiude altresì sul viso del protagonista in un lungo ed intenso primo piano.
Il film mantiene un buon ritmo: il montaggio ben studiato con l'ormai consueto flash black, questa volta coadiuvato dall'intreccio psicologico che si snoda fra le relazioni interpersonali dei protagonisti, stimola nello spettatore il giusto grado di tensione per non perdere l'attenzione. Alcune scene sono efficaci, dirette e montate con maestria, come l' agghiacciante piano sequenza dell'eleminazione di Arthur, in cui l'indifferenza per la vita è congelata da gesti freddi e meccanici, perfetti e puliti; oppure come il mancamento, sullo sfondo di un Clayton vittorioso, della rigida Karen, capo-studio legale della UNorth, impersonata da una Tilda Swinton notevole. I lineamenti duri del suo volto e lo sguardo naturalmente ostile, perfetti per la regina di "Narnia", anche qui aderiscono bene al ruolo, stemperandosi solo nel contrastante dissidio tra ambizione e paura in alcune sequenze degne di nota.
Interessante e centrale è il percorso del protagonista all'interno della storia. Un uomo disilluso, tormentato da scarsa autostima per i fallimenti sia nella professione, sia nella vita privata, irrimediabilmente perduto nel vizio del gioco. E' un uomo del tutto disorientato Michael Clayton, ma che non rinuncia a porsi domande.
Quando si riflette nella disperazione dell'amico, gradualmente prende coscienza della propria alienazione.
Purtroppo il regista non rappresenta in modo completo il travaglio interiore del protagonista, la cui evoluzione introspettiva risulta spezzettata a vantaggio della vicenda legale. Tuttavia l'intensa interpretazione di un Clooney, totalmente privo del solito glamour, ne attenua l'assenza.
E ciò che caratterizza questo film rispetto ai lavori affini è proprio il riscatto finale: non c'è il trionfo dell'eroe secondo tradizione, non si assiste cioè alla sua consapevole e compiaciuta vittoria. Il disincanto resta, testimoniato dal primo piano dell'epilogo, in cui sul volto di Clooney si addensano i pensieri contradditori di chi ha colto un'occasione di riscatto, ma ne teme forse le conseguenze.
E' un finale umanissimo e verosimile, che non banalizza affatto la storia.
Infine un'osservazione: è curiosa la tempestività di Clooney nel fare distribuire i suoi film "di denuncia" nel momento più opportuno. Anche questa volta un film sulla disillusione esce in Italia in un periodo in cui la sovraesposizione quotidiana di scandali e di corruzioni in ogni ambito civile rende più sensibile lo spettatore ad un finale consolatorio, cosicchè l'esito pur scontato della storia potrebbe sorprenderci nel rivelarsi addirittura liberatorio.
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Recensione a cura di Pasionaria - aggiornata al 16/10/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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