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Il trionfo dello stile, il dominio della forma. Il linguaggio della cinepresa, in questa pellicola, diviene esso stesso la cifra poetica del film, ancora prima della vicenda narrata. E molto prima dell'interpretazione degli attori.
"Profondo Rosso" ha il fascino dell'horror artigianale che si compiace di sé stesso e del proprio manierismo. Dario Argento punta soprattutto sulle sue trovate registiche, sul suo potere visionario per restituire all'immagine il primato assoluto.
La vicenda del musicista borghesotto che rimane coinvolto, suo malgrado, nell'assassinio di una parapsicologa e si trova trascinato in una serie di avventurose indagini per smascherare il killer, senza dubbio appassiona e tiene ben incollati allo schermo. Eppure, la magia di "Profondo Rosso", come in tutte le migliori opere d'arte, nasce dall'alchimia che l'artista riesce a generare sublimando i contenuti con la bellezza e l'estro della forma. L'horror viene elevato a poesia, la tensione e la suspense sono esasperate da lunghe soggettive, violente carrellate e contrappunti musicali che sembrano fondersi in un abbraccio con le immagini grondanti di sangue e di perversione.
Che Dario Argento intendesse scatenare le sue abilità tecniche e concepire un'opera imperniata sull'uso virtuoso del linguaggio cinematografico lo si capisce fin dai primissimi fotogrammi: fotografia magistrale e panoramica, carrellate e zoom ripetuti all'interno della sala congressi nella quale la parapsicologa avverte le presenze minacciose e, con le sue premonizioni, dà il via all'intreccio. Da rimarcare, naturalmente, anche l'uso fortemente simbolico del colore: la storia ha inizio in un teatro, adibito a sala congressi, insanguinato da un rosso onnipresente, straniante e allucinato.
Le poltrone sono rosse, le pareti sono rosse, il sipario è rosso. Ma di un rosso irreale, fin troppo violento. Come violenta e spietata è la trama del film, frutto della sceneggiatura scritta a quattro mani da Dario Argento e Bernardino Zapponi.
Il formalismo argentiano si esalta poi nelle lunghe carrellate che riprendono, in quasi-soggettiva, i guanti neri del killer che si muovono agili fra le bamboline, le armi e gli enigmatici oggetti dispiegati sul tavolo nero dello sconosciuto macellaio: la musica dei Goblin e di Giorgio Gaslini, specialmente in queste sequenze, non si limita ad accompagnare le immagini, ma penetra nelle corde e nell'inconscio dello spettatore, ottenendo l'effetto di deliziarlo e terrorizzarlo nello stesso momento.
La recitazione artificiosa e zoppicante di David Hemmings (il pianista Marcus Daly) e Daria Nicolodi (la giornalista Gianna Brezzi), che tra doppiaggio e forzature diventa sempre più macchiettistica con l'evolversi della trama, paradossalmente appare adeguata al contesto: l'universo-horror costruito ad arte da Argento, carico di spunti evocativi e di tensione, è talmente barocco da respingere, per sua stessa natura, gestualità e dialoghi iperrealistici.
La migliore performance interpretativa, se si sceglie un criterio di valutazione strettamente tecnico, appare quella di Gabriele Lavia, estrosamente espressivo nell'indossare la maschera dell'inquietante Carlo, personaggio simbolo del film: catatonico e allucinato come la poetica stessa di "Profondo Rosso".
Aldilà dei virtuosismi registici (come non ricordare, infine, la magnifica sequenza dell'assassinio del prof. Giordani nella quale, dopo interminabili secondi di suspense, una bambolina meccanica irrompe nella stanza della vittima e annuncia la presenza dell'omicida?), un altro indizio che rivela il parossismo poetico di Argento è la violenza portata all'eccesso. Il buon Dario, pur di pugnalare a sangue freddo gli occhi e la sensibilità dello spettatore, si spreme le meningi e sforna scene di omicidi che definire impressionanti sarebbe riduttivo: il faccione del professor Giordani che viene schiantato contro l'angolo appuntito della scrivania e il volto della signora residente nella villa maledetta che viene arrostito nell'acqua bollente della vasca da bagno basterebbero a dissuadere gli schizzinosi dall'idea di sorbirsi "Profondo Rosso".
Barocchismi e virtuosismi di stile a parte, anche alcune brillanti intuizioni narrative meritano di essere evidenziate: i ripetuti colpi di scena finali, ivi inclusa la rivelazione del quadro che in realtà era uno specchio (e permetteva dunque di intravedere il vero volto dell'assassino nella casa della parapsicologa), restituiscono all'opera di Argento la dignità del giallo. Un giallo truculento, parossistico, "ballato" sulle note di una colonna sonora dispotica e dominante. Eppure (Agatha Christie non storcerebbe il naso) un giallo traboccante di puro genio creativo.
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Recensione a cura di Matteo Bordiga - aggiornata al 20/06/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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