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E' strano come tante volte il tempo sia galantuomo e come ciò che venne ingiustamente stroncato dalla critica riceva il suo giusto tributo per altre vie. "Toro Scatenato" venne fatto a pezzi con violenza al momento della propria uscita nelle sale, al di là della crudezza delle immagini, la cosa in assoluto più straniante era che nessuno riusciva a capire per quale motivo Martin Scorsese volesse narrare la vita di un personaggio talmente piccino, moralmente ripugnante e meschino come Jake La Motta. Tutti, compresa la troupe di Scorsese, si chiedevano come mai perdesse tempo a raccontare la storia di un tale fallito.
A livello di contenuti infatti, il film è tutto qui: la vita di un uomo che ha sprecato ogni occasione, ha rovinato ogni relazione umana, un uomo che non vorremmo avere neanche come vicino di casa, nulla di più. Fin dalla prima scena il regista ci proietta a viva forza nello squallore dell'ambientazione e del personaggio: un ex-campione di pugilato dalla carriera ormai conclusa, un uomo gonfio e sfatto, demoralizzante nella propria ricerca di luci (da quelle del ring ai riflettori di un bar scalcinato), ridotto ad essere la caricatura di se stesso.
Da questo punto si torna indietro. Tutta la sua vita è un flashback.
Hollywood ci ha abituati ai racconti sulle ascese esponenziali seguite da inesorabili tramonti, all'eroe che dopo aver conosciuto il successo piomba nella miseria del suo ineluttabile declino; ma Scorsese ha scelto un taglio diverso, perché l'eroe di cui ci vuole parlare non è affatto un eroe. Neanche nei suoi giorni di splendore.
Il suo sarà, dunque, un viaggio negli istinti primordiali e bestiali di un uomo gretto che si dibatte fra gelosia, paranoia, rabbia e livore cieco; il ritratto della limitatezza di un personaggio che, pur avendo guadagnato il titolo di Campione, riuscirà ad essere unicamente un campione di idiozia.
Una biografia implacabile e spietata, in cui Scorsese ci dà una progressione drammatica degli eventi: il conflitto che monta, la sfida verso il mondo, l'alienazione e gli affetti familiari, ricreando le circostanze del declino di un uomo che usa la propria vita come sacco per boxare. Un lottatore che non si accontenta di battere l'avversario, ma vuole distruggerlo.
La confusione di Jake La Motta fra la propria vita privata e la propria carriera è il dilemma che sta alla base del film. Scorsese fa del disastro delle sue relazioni umane l'epicentro del dramma. Lo vediamo nei gradi successivi di espiazione, punizione, compromesso, e autolesionismo.
Per lui le mura domestiche non sono un rifugio e un sollievo, ma un nuovo campo di battaglia, dove conquistare e sottomettere. La sua desolante ristrettezza mentale lo porta a vessare la bellissima moglie con un'immotivata e opprimente gelosia e ad avvelenare il rapporto col fratello.
Splendido il dialogo in cui accusa il fratello Joey (una versione leggermente più sveglia di Jake, solo più brava a governare la stessa misoginia e violenza) di essere stato con sua moglie.
L'interpretazione magistrale di De Niro e Joe Pesci in questa scena (in cui buona parte del dialogo fra i due è improvvisato) si fonde con una regia che sembra aver preso lezioni di stile da "Il Delitto Perfetto" di Hitchcock. E' bellissimo notare come, via via che i sospetti di Jake si intensificano, Scorsese sposti un po' l'angolo di ripresa, cambiando il valore dell'inquadratura per intensificare il dramma.
La narrazione è resa viva dagli elementi di realismo con cui Scorsese dipinge l'intero spaccato di vita della prima generazione di italoamericani - le scene dei dialoghi familiari sembrano attingere direttamente al suo "Italianamericans" - ci descrive, nei dettagli più minuti, un'intera sottocultura in cui il bullo è il più forte, dove per emergere devi scalciare, in cui vige la legge della strada per la quale non si può perdere tempo a ragionare perché ad un certo punto si passa a lottare.
Il "Toro del Bronx" è un picchiatore, un vero figlio della strada, il suo unico linguaggio è quello del possesso e della prevaricazione. E' un uomo che per presunzione, cocciutaggine e limitatezza agisce in maniera contraria al buon senso ed ai propri interessi; ma poi... indossa il proprio accappatoio leopardato, i riflettori si accendono e sublima sul ring ogni meschinità e brutalità, una rabbia ancestrale, disarticolata e sconnessa. Solo lì può essere grande in virtù della propria forza gladiatoria, della propria esasperata e tronfia bellicosità.
I combattimenti sono funzionali alla narrazione ed il loro stile è dettato dallo stato d'animo del protagonista. Per raggiungere tale resa visiva, le dimensioni e la forma del ring variano a seconda degli incontri. Il regista rende il ring, ora una fossa infernale, regalandogli il tremolio di un miraggio, ora una grande scacchiera, in cui le immagini sono nette e abbaglianti, dal forte contrasto.
L'uso del bianco e nero porta Scorsese ad un'accuratissima composizione visiva. Lo induce a prestare una grandissima attenzione alle luci, per creare livelli che restituiscano tridimensionalità all'immagine. La resa della pellicola è quasi granulosa e la luce sembra essere il vettore del movimento, come in un quadro di Caravaggio. Tutto concorre a creare uno scenario dalla violenza dirompente, totalmente privo della visione eroica e primitiva delle forze umane.
Il bianco e nero ha la capacità di rendere le scene di lotta di una brutalità implacabile, non c'è spazio per il "romanticismo" alla "Rocky", nelle sue infinite gradazioni di grigio è impietoso nel mostrarci la violenza del combattimento in maniera quanto mai disturbante, con il suo sangue color dell'inchiostro.
La cura di Scorsese diventa maniacale nelle sequenze sul ring: disegna tutte le scene di combattimento, si rende conto che c'è un solo modo giusto di riprendere la scena ed è intenzionato a trovarlo. Il magnifico montaggio gli permette, poi, di dare al film una forma nuova, di modellare la recitazione degli attori, valorizzare determinati movimenti di macchina.
Le riprese degli incontri durarono più di sei settimane, sebbene non occupino che dieci minuti della durata del film. Il loro enorme impatto visivo fa si che si incidano a fuoco nella nostra memoria, fino a diventare uno dei ricordi dominanti della pellicola.
Ci troviamo, infatti, scaraventati entro il perimetro delle corde, Scorsese ci fa abbandonare la prospettiva neutra e piatta della platea per coinvolgerci nell'afrore dell'arena: con i flash che esplodono e sibilano come dei mortaretti e la folla che si solleva come una marea ribollente. Magnifico l'uso della slow motion, che trasporta il film dalla sua oggettività documentaristica verso la soggettività della mente del pugile, la cui visione è scandita dai colpi dell'avversario.
Sulle note di Mascagni, la narrazione dell'ascesa del campione è poi affidata ad una serie di foto e fermoimmagine delle sue vittorie, alternati a "home-movie" dai colori slavati (ricreando i veri filmini della famiglia La Motta) che riprendono le tappe in salita della vita privata di Jake. La dicotomia fra i due universi continua dunque, qui come nel resto del film. Ogni scena di lotta, ogni successo e trionfo fa da contraltare ai "trofei" della sua vita: sua moglie, il benessere, il riscatto rispetto a chi avrebbe voluto manipolarlo.
Poi, nell'ultimo combattimento fra La Motta e Sugar Ray Robinson le immagini sembrano assumere una sacralità religiosa: i pugili ricevono il paradenti come una Comunione, Jake rimane con le braccia larghe, crocifisso alle corde nella sua animalesca ostinazione di non venir messo KO. Il ritratto della sua sconfitta è comunque quello di un abbattimento. A danzare non sono i pugili, ma è l'intero ring, le cui corde indietreggiano come a seguire il respiro dei combattenti.
Vi è uno splendido uso del silenzio e l'unico suono che udiamo è l'ansimare di una fiera. Sugar Ray sembra avere quasi una natura felina: ha messo in un angolo la sua preda e sferra l'attacco con la caratteristica pausa che precede lo slancio che lo consacrerà campione.
Forse ci si sarebbe potuti fermare qui: ascesa e declino sono completi. Forse ci si sarebbe fermati qui, se questa fosse stata davvero la biografia di un atleta. Ma la lotta più dura di Jake La Motta sarà quella con i propri demoni privati, con la propria ombra all'interno di una cella, resa magistralmente nell'oscurità dello schermo.
Ed è ancora necessario tornare all'uomo che abbiamo intravisto nella scena iniziale del film. E' un uomo che ha visto il trionfo senza riuscire a viverlo, un ometto borioso che dopo averla cavalcata è stato risucchiato dall'onda e ora guarda dentro se stesso e uno specchio (immagine cara a Scorsese, che sembra tornare indietro a "Mean Streets" e "Taxi Driver"). Un uomo ancora più basso e patetico di quello che abbiamo visto fino ad ora.
Ha allontanato la moglie, ripudiato il fratello, ma soprattutto ha perso ogni arena e razionalizza la propria vita. Si rende conto della propria clamorosa sconfitta affidandone l'analisi alle parole di un altro: recitando, in maniera legnosa e piatta, "I coulda be a contender" da "Fronte del Porto".
Ma a dispetto delle parole, che nel film di Kazan sollevano il protagonista dal proprio insuccesso, lo sguardo dritto e vuoto di La Motta mentre dice "è colpa tua, Charlie" è al contempo sublime e raggelante perché rivolto verso se stesso.
Infine, anche se non riusciamo davvero ad essere solidali con Jake La Motta, quantomeno riusciamo a capire quali demoni lo abbiano sospinto nel corso della vita, o almeno... di certo ben li ha capiti chi si è trovato a guardare la propria vita come un flashback, come Martin Scorsese che ha realizzato questo film con l'amore e la furia di un lottatore messo alle corde, regalandogli un'energia e un'urgenza tale da riuscire a rendere un ometto un eroe, anche se questo dispiace ai critici.
Ma, dopotutto, "that's entertainment"!
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Recensione a cura di Laura Ciranna - aggiornata al 05/01/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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