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Roberto Faenza ha dichiarato che "Someday this pain will be useful to you" (tratto dall'omonimo romanzo di Peter Cameron) è il suo omaggio a Il Giovane Holden, libro di cui ha tentato invano di acquistare i diritti per una trasposizione cinematografica.
Considerando la filmografia e soprattutto la biografia di Faenza, viene da chiedersi cosa sia realmente questo film. E' il ritratto di un delicato adolescente nel momento decisivo della sua crescita o uno spietato attacco all'ipocrisia della borghesia americana?
Probabilmente un tentativo (un po' maldestro) di essere entrambe le cose. Il suo giovane Holden, James Sveck (Toby Regbo) vive nella New York contemporanea, anima sensibili di una famiglia come tante (almeno, come tante della fiction): madre (Marcia Gay Harden)svagata consuma-mariti e dedita a discipline di meditazione orientali, sorella maggiore (Deborah an Woll) invaghita del professore più anziano del padre, padre (Peter Gallagher) con il complesso di Peter Pan che punta donne più o meno dell'età della figlia e mangia bistecche al sangue perchè è virile (o comunque più che pranzare con un'insalata). Insomma, la classica serie di stereotipi da fiction che, trasposta sul grande schermo, funziona anche meno.
Il non adeguamento ad alcuno di tali modelli comporta l'immediata classificazione di James nella categoria degli "strani". Addirittura, viene mandato in terapia da un life coach (Lucy Liu) per risolvere i suoi problemi. Il messaggio è chiaro: il livello di follia e di alienazione collettivo è tale che la riflessività viene scambiata per depressione, la confusione per immaturità e la sensibilità per omosessualità. Non si trova altra chiave di lettura, se non una bonaria presa in giro della classe borghese alta americana (e di riflesso, della nostra), in un momento storico in cui c'è forse poco interesse ad analizzare certe categorie sociali, o perlomeno è più difficile far scattare l'empatia. Ricchi annoiati che giocano ad accoppiarsi: è questo l'Holden di Faenza?
L'elemento più ambiguo del film è il personaggio della nonna Nanette (Ellen Burstyn). In un modo abbastanza scontato, la nonna è l'unica che ha un vero rapporto con il nipote, pur non avendone uno con la figlia. Come tutti i nonni importanti dei film, fin dal primo fotogramma si come dove andrà a finire ed è proprio questa ingenuità a sconcertare: è l'ennesimo scherzo di Faenza o l'indulgere in un topos narrativo tanto scontato significa che il regista ci crede davvero e il film non va visto con occhio ironico o critico? Il dubbio rimane.
Se non si trattasse di Roberto Faenza, va detto, non avremmo remore a bollare il film come un derivato di certi sceneggiati televisivi ricolmo di sentimentalismi e poco originale.
L'obiettivo di Faenza è quello di dare un'immagine delle nuove generazioni che sfugga allo stereotipo, ma lo fa rendendo uno stereotipo tutto il resto. Il contrasto viene certamente esaltato, a scapito della riuscita del film. Il ruolo della famiglia è, nel bene e nel male, sempre decisivo, ma è troppo facile rifugiarsi nel luogo comune dei genitori benestanti e divorziati. Le difficoltà di adattamento e di educazione delle nuove generazioni sono un problema che investe trasversalmente tutte le classi sociali e tutte le situazioni familiari.
La scelta di Faenza pare quella più scontata, soprattutto per un regista della sua esperienza. Indipendentemente da quanti elementi siano da attribuirsi allo script e quanti siano eredità del romanzo (la cui lettura non ha preceduto la scrittura di questa recensione e di certo non è stata stimolata dalla visione del film), il risultato è un film che funziona solo a tratti.
Senza girarci troppo intorno, il valore di un film si deve giudicare anche da quello che riesce a trasmettere. L'ambiguità di quest'opera ne diminuisce decisamente la carica critica ed anzi fa addirittura dubitare che l'intenzione del regista fosse una spietata satira, oltre che una storia di formazione. La differenza non è poi cruciale, visto che come storia sui dolori della crescita "Someday this pain will be useful to you" tocca una serie di luoghi comuni e si risolve con la domanda che lo spettatore si pone dopo cinque minuti (ovvero se il più normale non sia proprio James), pertanto si lascia guardare ma anche dimenticare in fretta. Come satira sulla borghesia americana è invece poco incisiva e appannata da uno stile molto televisivo e che si limita al graffio e allo sberleffo invece di scavare e picchiare duro.
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Recensione a cura di JackR - aggiornata al 20/02/2012 15.10.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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