closer regia di Mike Nichols USA 2004
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closer (2004)

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locandina del film CLOSER

Titolo Originale: CLOSER

RegiaMike Nichols

InterpretiJulia Roberts, Jude Law, Natalie Portman, Clive Owen, Nick Hobbs, Colin Stinton

Durata: h 1.40
NazionalitàUSA 2004
Generedrammatico
Al cinema nel Dicembre 2004

•  Altri film di Mike Nichols

•  Link al sito di CLOSER

Trama del film Closer

Dan, felicemente innamorato di Alice, splendida ed insicura ex spogliarellista incontrata appena giunta a Londra, conosce la sofisticata Anna per un caso e inizia a esserne tormentato. Lei non sembra ricambiare, ma la passione di lui la stuzzica e la tenta fino al punto di farla cedere alle sue lusinghe e di lasciare Larry, il marito conosciuto - per altro - proprio grazie a un sadico scherzo di Dan. Con Dan e Anna legati, per gli altri due si apre un periodo di angoscia e disperazione, che ognuno risolve a suo modo, anche attraverso un imprevisto incontro, ma i travagli per le due coppie non sono finiti...

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Voto Visitatori:   6,27 / 10 (229 voti)6,27Grafico
Miglior attore non protagonista (Clive Owen)Miglior attrice non protagonista (Natalie Portman)
VINCITORE DI 2 PREMI GOLDEN GLOBE:
Miglior attore non protagonista (Clive Owen), Miglior attrice non protagonista (Natalie Portman)
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Voti e commenti su Closer, 229 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

Gruppo COLLABORATORI gerardo  @  22/12/2004 13:58:16
   4 / 10
Io penso che se un film faccia ridere quando non deve, cioè quando scade nel ridicolo involontario, sia un film completamente sbagliato. Parlo di ridicolo, non di comicità voluta o di humor da commedia. Non c’è una battuta, in tutta la durata del film, che non sfugga al ridicolo e alla banalità inconsapevole. Tanto che agli attori sembra evidente l’imbarazzo nel recitarle. E a me l’imbarazzo per loro.
Proprio i dialoghi, che di questo film vengono tanto elogiati, sono così insipidi e strascicati che, ripeto, gli attori mi sembrano fuori parte, impacciati e perfino increduli rispetto a ciò che recitano. Poi magari è anche colpa del doppiaggio, ma le facce dei quattro protagonisti non sembrano per niente convinte di quel che fanno e dicono.
Il film è così scialbo tanto nella forma che nei contenuti, che verrebbe voglia di non parlarne. O quasi…
Closer ha una struttura fortemente ellittica, suddivisa in più parti, con delle macrosequenze coincidenti con le scansioni temporali della storia che si sviluppa nell’arco – se non ho capito male – di quattro anni (1. l’incontro tra il necrologista *****tto e la bella sbarbina semipunkabbestia ex-spogliarellista; 2. quello tra la fotografa borghese frustrata-ma-arrapata e l’ex-necrologista ormai scrittore; 3. quello … vabbè, non racconto tutto il film). Per cui tutto il film procede, data la compressione temporale degli eventi, in modo veloce nei tempi concentrati di queste sequenze. La scena della chat, rispetto alla durata di queste sequenze, risulta spropositatamente lunga ed estenuante (sarebbe sembrata tale anche in un film con una storia meno frammentata temporalmente). Questo prolungato soffermarsi sullo scambio di battute in chat è forse il segno più evidente di un certo autocompiacimento provocatorio (del tutto sterile…) degli autori, e che risulta francamente inutile nell’economia complessiva del film.
Stilisticamente Closer vorrebbe forse essere una commedia pungente e amara, priva del giudizio dell’autore sugli eventi (in modo che sia lo spettatore a farsi un’idea delle relazioni sentimentali e blablabla). In realtà il film non sa mai da che parte buttarsi, se sulla commedia o sul dramma sentimentale, ma non credo per un preciso intento autoriale. Piuttosto perché alla base manca proprio un’idea di stile, anzi, non si sa bene dove si vuole andare a parare (se far divertire ma lasciando spazio a un po’di riflessione spicciola, oppure se far riflettere ma senza rattristare – ed ecco che si infilano, o meglio, si rifilano, qua e là alcune battute e situazioni presunte “comiche”). La superficialità con la quale si approcciano le situazioni e il risvolto tutto verbale della sceneggiatura ne sono la prova. I conflitti, gli innamoramenti e le soluzioni sono tutti affidati al dialogo, compreso quello virtuale “real time” della chat. Per chi non si sfracella le palle, questo procedimento va bene in teatro, dove la parola è alla base della scena e dei codici espressivi. Il cinema, di codici espressivi, invece, ne ha altri, primo fra tutti – potrà sembrare banale dirlo – l’immagine. In questo film, tratto da un testo teatrale, la necessaria trasformazione dei codici sembra proprio non sia avvenuta affatto, probabilmente per non stravolgere certi meccanismi che ne hanno decretato la fortuna in palcoscenico. Ma l’esito è proprio ‘na chiavica.
Poi, la questione del realismo, sollevata a scudo ed esaltazione di Closer. Un’opera realista s’ispira a situazioni reali, le ripropone con verosimiglianza. Per quanto estremamente vicina alla realtà, nessun’opera potrà mai essere a questa perfettamente aderente, in quanto reinterpretazione macchinata dal regista e dagli autori: ogni inquadratura, ogni operazione di montaggio è sempre una scelta autoriale ben precisa, che indirizza in un modo o nell’altro l’andamento e l’ideologia del film. Oltre al fatto che alla base del racconto c’è già una motivazione che ha fatto scegliere all’autore una situazione piuttosto che un’altra.
In questo film, il tentativo di illustrare o descrivere semplicemente la realtà “così com’è”, senza il giudizio preventivo dell’autore, è soltanto una stupida e capziosa pretesa propagandistica. Del resto il film è ruffiano, non realistico, appunto. Un po’ come succede dalle nostre parti con Muccino. Solo che la critica militante nostrana pensa di avere il palato fine e se una monnezza del genere la fa Mike Nichols, allora è film d’autore. Il realismo dovrebbere partire dal minimalismo quotidiano per farsi universale. Dovrebbe cogliere, attraverso il particolare e i dettagli, l’essenza della realtà storica che si sta analizzando. Il realismo non è rispecchiamento passivo: si dice che in Closer ci si “ritrovi”, si rispecchia quello che avviene nella realtà. Qui però si resta al minimalismo tout court e ci si compiace del crogiolarcisi dentro, senza andare olre. Più che suscitare una riflessione sulla realtà, in questo film ci si pulisce lo stomaco. Ci si ferma al piattume e alla superficialità di situazioni banalizzate, quando invece anche il banale quotidiano ha sempre un suo perché, che in Closer non si coglie. È, appunto, semplice illustrazione compiaciuta e senza profondità di situazioni più o meno pruriginose spacciate per reali – o realistiche – di un mondo asfittico e chiuso (dove la chiusura non è, o non sembra affatto, una scelta consapevole degli autori, ma semplicemente il segno della povertà ideologica e narrativa di questo testo teatrale). Si è associato Closer ad Eyes wide shut per l’argomento trattato, e in effetti, guardando il film di Nichols, viene subito alla mente il rimando a quello di Kubrick. Ma – per quanto mi riguarda – solo per rimpiangerlo. Kubrick, attraverso un dialogo – uno solo (!), in camera da letto, tra marito e moglie - sempre più sciolto e l’inquietante (per T.Cruise) parziale svelamento dell’adulterio vero o presunto di N. Kidman, racconta la trasformazione della serenità di coppia in incubo del tradimento, mostrato con un passaggio dalla parola all’immagine: l’incubo di T. Cruise che “visualizza” quello che sua moglie non gli ha detto. Alla parola si sostituisce, evocata, l’immagine, che poi è cinema. E non sono forse immagini quelle che ci visualizziamo della persona amata a tormentarci d’angoscia quando la si sospetta di tradimento?
In Closer la parola pretende di svolgere ogni ruolo e, con sfacciata ipocrisia radical-chic, viene resa pornografica al posto dell’immagine. Come nella pornografia si mostra l’atto sessuale in una sorta di naturalismo estremo dove impera la dittatura dell’immagine filmica, esplicita e spiegata, che nulla concede all’immaginazione, qui è la parola a sostituirsi, anche in senso ideologico, all’illustrazione “didascalica” del sesso. La parola in Closer non ha più un’effetto evocativo (l’abbiamo visto con la scena della chat line), come succede non solo in Kubrick, ma – visto che partiamo da un testo teatrale – anche e soprattutto nell’Otello shakespeariano, nel quale Jago, attraverso delle parole mirate, induce il protagonista a immaginare e a visualizzare situazioni. L’Otello, di fatto, è molto più realistico, a 500 anni di distanza, di Closer. Di Closer che vorrebbe essere un film distaccato e freddo, proprio come un porno, d’altronde (ne ha lo stesso insistito e voluttuoso compiacimento illustrativo). Solo che noi qui non vediamo penetrazioni e pompini, ma ce lo dicono loro, i protagonisti, visto che a noi manca l’immaginazione… Sarà questa la trasgressione di cui tanto si parla a proposito di Closer? Bè, se così fosse allora bisognerebbe ragionare sul concetto di trasgressione, ma non è il caso… A me è sembrato piuttosto un pettegolo e ruffiano, vacuo, piatto e salottiero pour parler borghese, assolutamente sterile e stupidamente conformista. Che non scalfisce se non gli ipocriti, ma al tempo stesso li rassicura, perché resta sulla superficie (di una pozzanghera) e non affonda nel torbido. L’asetticità borghese è salva e “noi” con loro.
Mi sa che anch’io ho speso troppe parole per un film così insignificante e che fra qualche giorno sarà già dimenticato.



31 risposte al commento
Ultima risposta 31/12/2004 20.07.35
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