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"Hermitage" è, in chiave tecnica, il preludio a "Nostra signora dei turchi" di Carmelo Bene.
In questo del 1968 Carmelo Bene oltre ad essere attore è "regista", fra virgolette il termine regista perché tale artista era al di là dello stesso ruolo. L'arte doveva superarsi, il banchetto fra spettatore e attore doveva vivere la totalità una volta sola e non doveva tramutarsi più da nessuna altra parte. Questo per il teatro, ma anche per il Cinema, il concetto non solo va rispettato ma anche interpretato. "Hermitage" è una esplosione artistica di un Bene in un ruolo, come al solito, fatto di totalità (l'Artifex). Si sostituisce ai fiori richiamando un senso di ricercata perfezione e sintesi del concetto (artistico e di metateatro), parla e coi monologhi va a scandagliare un nulla che di più sostanziale ha sola la forma, la classe e la phoné di una voce praticamente inimitabile. Azzardato e forse inutile, se ci sentisse lo stesso Bene, decodificare un qualcosa che nasce per andare oltre ciò che è decorazione, di scena o di pensiero. L'unica introspezione, pacata e modesta, sboccia guardando il personaggio. Si dovrebbe trattare di una scalata spirituale di decadenza e megalomania, un Narciso travolto dal sogno di essere il più grande. Finiscono i sentimenti e inizia la morte, salvezza del mondo. Perché la morte non esiste, ma è l'inizio della vita, non della morte. Nel cuore del nichilismo più vivo.
Un gran bel corto/mediometraggio, e mi sento un pò un taccagno a dargli questo voto. Senza dubbio Carmelo Bene, seppur meno blasonato in campo cinematografico a causa della sua scarsa attività rispetto ad altri registi, riesce a realizzare un'opera di pregevole fattura con pochissimi mezzi, e praticamente come unico interprete. Ripeto ciò che è stato detto da qualcuno qui sotto, è un peccato che le opere cinematografiche di Bene siano numericamente scarse.
Pur essendo solo “una prova per le luci in preparazione del successivo film Nostra Signora dei Turchi” (cit. Wikipedia), il risultato è comunque di notevole portata ironica e al contempo paradossalmente tragica. Nella claustrofobica solitudine di una stanza d’albergo, il protagonista si contorce, scivola sul letto sfatto, pronuncia frasi incomprensibili, in una sequenza di gesti e spasmi teatrali senza un apparente filo logico, se non quello di un narcisistico autoesilio entro i confini esasperati del proprio Sé dialogante. Anche la presenza fantasmatica di una donna (l’amante? la madre?) contribuisce ad accentuare la tensione drammaticamente folle senza risolverne gli enigmi. Il genio surreale di Bene è comunque ancora una volta di grande fascino.
Troppo oltre, oltre cinema e oltre l'arte stessa. Non è nemmeno cinema sperimentale. Chi fa cinema sperimentale cerca di essere più artistico degli altri, C.B. sputava sull'arte ("È decorazione l'arte, è volontà di esprimersi."). L'arte deve solamente superare sé stessa.
il primo corto del regista... una storia d'amore che Carmelo Bene accentra nella sua persona, elaborata alla sua maniera, nobile nonostante il volto drammaticamente deturpato dal cancro del passato, nonché una riflessione sull'esistenza umana da parte di un uomo che ha vissuto l'arte nel bisogno di "possederla" fino a trasmutarla per renderla qualcosa di più confacente... L
Troppo oltre. E' davvero un peccato che Bene abbia lavorato nel cinema per così poco tempo,penso a cosa avrebbe potuto regalarci. Ma d'altronde lui non amava il cinema che non considerava neppure un arte,ma il festival dell'ibrido.
Bisognerebbe conoscere approfonditamente la complessa e articolata produzione di Carmelo Bene –sia nella sua veste di attore/artifex che in quella di filosofo- per potere dare un giudizio con cognizione di causa a questo astruso mediometraggio di carattere sperimentale. L’ambientazione è quella di una camera d’albergo dell’Hermitage , dove Bene, tra visioni mistiche e monologhi interiori –intervallati da spezzoni musicali tratti da Giuseppe Verdi, dà vita ad una sorta di rappresentazione del proprio interno mondo psicologico, che rimanda al suo rapporto con la madre. In ciò sembra rivelarsi il desiderio di immedesimarsi con colei che lo ha concepito (la lettera che egli scrive si conclude con la parola “tuo”, che più tardi verrà corretta con “tua”), che potrebbe essere letto come una tensione al proprio stato originario nelle acque materne, al recupero del principio della propria esistenza quando ancora “non si era” (nel mondo). Lo stesso vagheggiamento dei fiori azzurri, cui segue una sorta di sostituzione in cui Bene prende il loro posto sul tavolino atteggiandosi in posizione chiastica, sembra esprimere l’anelito dell’attore a tramutarsi in oggetto inanimato, in una statua che in quanto fuori dall’ “essere” è fuori dalla realtà. Il “non più porsi” come soluzione alla tragedia della vita. Sembra questa la via che Bene percorre, attraverso visioni mistiche nelle quali si oggettiva una idealizzazione della figura femminile (ritratta come fosse una e trina), che però si rivela sfuggente. “Basta! E’ finita con chi mi vuole bene!”: con queste parole, accompagnate dal gesto di fare cadere nel gabinetto la foto della madre, egli pare prendere coscienza dell’impossibilità di un ritorno alla purezza dell’origine. E la scena finale che lo ritrae bere una coppa di champagne che poi gli scivola dalla mano, mostra l’uomo/Bene arrendersi di fronte a questa impossibilità. La scenografia, pomposa e barocca, riflette lo spirito edonistico dell’attore, la cui consapevolezza della propria bellezza estetica/etica prende forma nel dialogo con se stesso allo specchio, in cui egli, cinto da una corona di fiori azzurri, sembra a atteggiarsi a moderno e decadente Narciso. L’atmosfera scura, dominata da un nero nel quale risaltano taluni elementi di un rosso vivo, potrebbe essere letta invece come la rappresentazione di una vita segnata da picchi di passione, che però si perdono nel mare di un nichilismo sconfinato, al quale fa da contrappunto una indefettibile vena ironica (come sembrano dimostrare alcune grottesche soluzioni recitative, che in parte ricordano il comico muoversi spaesato di Buster Keaton). E’ un opera di difficilissima fruizione (considerata il manifesto del pensiero di Bene), di cui sicuramente mi sono sfuggiti gli intrinseci significati. Ma, al di là della sua comprensibilità, da essa promana un notevole fascino decadente, che non può lasciare indifferenti. Altro che il manierismo intellettualoide del Baricco di Lezione 21!