il fascino discreto della borghesia regia di Luis Buñuel Italia, Francia 1972
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il fascino discreto della borghesia (1972)

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locandina del film IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGHESIA

Titolo Originale: LE CHARME DISCRET DE LA BOURGEOISIE

RegiaLuis Buñuel

InterpretiStéphane Audran, Michel Piccoli, Delphine Seyrig, Milena Vukotic, Bulle Ogier, Jean-Pierre Cassel, Paul Frankeur, Fernando Rey

Durata: h 1.45
NazionalitàItalia, Francia 1972
Generegrottesco
Al cinema nell'Agosto 1972

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Trama del film Il fascino discreto della borghesia

I Thévenot e i Sénéchal continuano a scambiarsi inviti per un pranzo, ma non riescono mai a mangiare...

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Voto Visitatori:   8,52 / 10 (159 voti)8,52Grafico
Voto Recensore:   10,00 / 10  10,00
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Voti e commenti su Il fascino discreto della borghesia, 159 opinioni inserite

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kafka62  @  16/05/2018 11:05:09
   8½ / 10
Buñuel è stato uno dei fenomeni artistici più enigmatici e complessi della nostra epoca, tanto è vero che, a più di dieci anni dalla sua morte, la sua filmografia continua a rivelarsi quanto mai ostica per ogni attività esegetica che ambisca a rinchiuderla negli angusti limiti di una critica essenzialmente definitoria. Ciononostante, quella che è probabilmente (e non a torto) la sua opera più famosa, "Il fascino discreto della borghesia", colpisce innanzitutto per l'estrema semplicità (se non addirittura povertà) semantica, per l'elementarità del suo apparato simbolico. Il film è infatti gremito di simboli, ma questi non sono affatto ermetici, criptici, non nascondono cioè un significato occulto e recondito, ma vanno al contrario presi alla lettera, tali e quali come vengono proposti nella nuda evidenza dell'immagine cinematografica. Si prenda ad esempio il tormentone che costituisce il filo conduttore del film, vale a dire la brama di cibo dei protagonisti, continuamente sollecitata anche se destinata (ma questo è un aspetto che vedremo più oltre) a rimanere insoddisfatta. Ebbene, i nostri emblematici rappresentanti dell'alta borghesia vengono fissati dal regista mentre si trovano continuamente alle prese con il rituale del pranzo, il quale non rimanda ad altro che al suo immanente e preciso referente sociale. Anche adesso che, nella nostra società "affluente", nessuno muore più di fame ed il cibo ha perso il suo significato primordiale di alimento finalizzato alla sopravvivenza, essi infatti conserva sempre (anche se non più a livello di bisogno materiale e primario, bensì di bisogno indotto) il suo ruolo di discriminante tra ricchi e poveri. Non a caso, i sei borghesi del film non lavorano mai (e neppure si dedicano ad altre, facilmente intuibili, attività sociali), ma tutta la loro esistenza sembra concentrarsi nei loro pranzi e nelle loro cene. Orbene, nella pura e semplice attribuzione di una simile funzione sociale (pur in assenza di una esplicita dicotomia, in quanto alla classe dominante e "inoperosa" del "Fascino discreto" non si contrappone una vera e propria classe lavoratrice) è contenuta tutta intera la posizione morale del regista.
L'elemento simbolico pervade anche altre sequenze del film. Quando, ad esempio, don Raphael si trova a tu per tu con la terrorista, il rumore di un aeroplano copre inopinatamente le loro parole; e un analogo effetto di sovrapposizione (da parte, ancora, di un aeroplano e, successivamente, di una macchina da scrivere) fa sì che anche le spiegazioni che il ministro fornisce al commissario, e che questi ripete al brigadiere, risultino inascoltabili. Il significato di queste immagini è del tutto trasparente. Esse esprimono infatti l'incomunicabilità tra classi sociali diverse e tra i rappresentanti del potere e i loro subalterni. Questa incomunicabilità non va interpretata, beninteso, nel senso antonioniano del termine, cioè di un'alienazione esistenziale dalle reminiscenze sartriane, e neppure in quello morettiano, di resa impotente della sfera morale e sentimentale al cospetto della realtà dei rapporti umani: al contrario, si tratta di una mera incapacità di parlare, di trasmettere un concetto, un messaggio, un'opinione qualsivoglia. La sequenza dei personaggi che camminano lungo una dritta e interminabile strada di campagna è un ennesimo esempio di questo uso del simbolismo. Non c'è qui nessuna metafora rappresentante qualcosa di diverso dal dato letterale: ciò che conta è solo l'immagine, nuda e cruda (sebbene depurata di ogni effettivo aggancio con la realtà narrativa), della borghesia che si muove senza scopo né meta. Mangiare, parlare, muoversi, per Buñuel, non significano quindi nulla di diverso da quello che è insito nella loro accezione lessicale, non rimandano a una realtà "altra" traducibile esclusivamente per mezzo di una decifrazione o di un collegamento extra-testuale, ma – lo ripeto ancora una volta – vanno presi alla lettera.
Questo atteggiamento implica, da parte di Buñuel, una precisa scelta di fondo, che è quella del realismo e della verosimiglianza. Mentre, ad esempio, ne "Il fantasma della libertà", il regista usa principalmente l'arma del paradosso e del rovesciamento assurdo (vedi il pranzo dei commensali sui gabinetti anziché su delle normali sedie, oppure le fotografie di opere d'arte e di monumenti famosi giudicate alla stregua di materiale pornografico, ecc.), ne "Il fascino discreto della borghesia" tutto è come appare, senza clamorose forzature della logica. Ogni cosa (o quasi) è spiegabile per mezzo di un assetto narrativo che rispetta e non sovverte i principi logico-razionali. Buñuel non rinuncia naturalmente (anche se ciò può sembrare una contraddizione) ad essere un surrealista. All'interno di questa costruzione perfettamente plausibile e verosimile egli introduce infatti una serie di elementi dissonanti, siano essi il vescovo-giardiniere (ma in fondo, se ci sono i preti operai, perché non possono esistere anche i vescovi giardinieri?) o l'età di Ines (incredibile da un punto di vista puramente realistico, ma del tutto legittima se si considera il carattere eminentemente teatrale che connota i rituali agapici dei personaggi) oppure il vezzo di lasciare nel vago un discorso o di non concludere un'azione (il sogno del treno che il sergente non fa in tempo a raccontare è un po' come la scatoletta del cinese in "Bella di giorno"). Messo di fronte all'esigenza di conciliare le opposte istanze del realismo e del surrealismo, Buñuel riesce in questa tutt'altro che facile impresa grazie al ricorso al meccanismo mediatore (e medianico) del sogno.
I sogni sono, come sappiamo, caratterizzati dalla commistione di elementi logici e di elementi arbitrari. A differenza della fantasia, il sogno prende sempre spunto da dati reali, anche se poi sottopone tali dati a una serie di forzature logiche e spazio-temporali (dovute vuoi all'abolizione del concetto relativo di durata, vuoi alla sovrapposizione di immagini appartenenti a contesti diversi oppure di impressioni formate in luoghi e momenti non coincidenti). Proprio in virtù del fatto di usare ambienti, personaggi e situazioni realistiche e quotidiane, nel cinema il sogno può coesistere benissimo accanto alla realtà, anzi è spesso un modo per dare alla realtà uno spessore e una significazione non altrimenti realizzabili (un film-limite in questo senso è lo scorsesiano "Fuori orario"). Da buon surrealista, Buñuel adatta all'attività onirica sia la tecnica che la struttura narrativa del film. Da una parte, infatti, "Il fascino discreto" è caratterizzato da una certa superficialità e piattezza dell'immagine filmica, da un'osservazione distaccata e "fotografica" del reale, che, lungi dall'essere un limite della pellicola, rimanda alla bidimensionalità e alla concreta astrattezza tipiche dei sogni, ed ha un valore analogo a quello di certi esperimenti iperrealisti degli anni settanta che tendevano a dare della realtà una visione tanto più critica quanto meno comportavano una elaborazione personale e soggettiva di essa. Dall'altra parte, per contro, l'intreccio è caratterizzato da una meccanicità che ricorda l'automatismo insito nell'esperienza onirica. Questa meccanicità è percepibile soprattutto nei passaggi da una scena all'altra, i quali elidono ex abruptu la dimensione temporale (gli intervalli tra un pranzo e l'altro, anche se possono essere astrattamente quantificati in termini di giorni o settimane - frasi come: "Siete liberi sabato prossimo?" e "Allora vi aspetto venerdì prossimo" sono frequenti nel film -, sono in realtà dei buchi neri senza alcuna consistenza autonoma, che il regista salta completamente senza porsi alcun problema di cronologicità) oppure propongono un repentino avvicendarsi dei personaggi sulla scena (ad esempio, gli ospiti dei Sénéchal vanno via proprio mentre entra nella villa il vescovo; i coniugi Thévenot lasciano don Raphael e subito arriva la terrorista; quest'ultima si allontana e due sgherri dell'ambasciatore -–di cui non sospettavamo minimamente l'esistenza – la sequestrano).
L'onirismo de "Il fascino discreto della borghesia" non è del resto riscontrabile solo in una particolare impronta stilistica dell'opera. Gli episodi onirici fanno spesso, infatti, direttamente capolino nella messinscena. Può essere utile a questo proposito analizzare la struttura narrativa del film. Nella prima parte (quella che si conclude con la bizzarra assunzione del vescovo da parte dei coniugi Sénéchal) non c'è nessun sogno ed il realismo di fondo è incrinato soltanto da alcune di quelle dissonanze di cui dicevo più sopra (l'equivoco sul giorno dell'appuntamento, la salma vegliata al ristorante, ecc.). Nella seconda parte (fino all'invito a cena del colonnello, per intenderci), l'impianto naturalistico della storia è ugualmente rispettato, anche se il numero e l'entità delle discrepanze logiche sono in crescendo (l'elegante locale in cui si sono sedute le tre donne non serve più né tè, né caffè e né latte, la casa dei Sénéchal è letteralmente invasa da un battaglione di cavalleria, e così via); la vera novità è peraltro rappresentata dalla incongrua presenza di due sogni raccontati da altrettanti personaggi secondari (incongrua, perché non hanno la ben che minima giustificazione diegetica). Nell'ultima parte, infine, tutto improvvisamente si confonde, non si capisce più quello che è realtà e quello che invece è sogno: i due piani si sovrappongono, si elidono, si contraddicono, o al contrario trovano inattesi elementi di rispondenza (nel sogno il brigadiere libera i prigionieri dalla loro cella, e nella realtà accade proprio la stessa cosa). C'è persino, a complicare le cose, un sogno nel sogno (Simone: "Cosa ti succede?"; François: "Sognavo che io… sognavo prima che Sénéchal sognava che ci trovavamo in un teatro… poi che noi eravamo invitati dal colonnello… e che questi litigava con Raphael"), che genera un disorientante effetto-scatole cinesi e contemporaneamente instaura a livello semantico un contesto di sublime ambiguità. C'è insomma una graduale, calibratissima, irresistibile progressione che fa via via cadere, senza peraltro calcare troppo il tasto dell'assurdo, tutti i principali addentellati razionali, e alla fine non si sa più cosa è vero e cosa è falso. In questa situazione, diventa persino legittimo porsi la domanda se l'intero film non sia addirittura, fin dalle primissime scene, un solo ed unico sogno, imbastito con sadica perfidia dal diabolico Buñuel. La stessa cosa accadeva in fondo con "Bella di giorno", laddove non era possibile discernere con sicurezza tra la realtà e le fantasie erotiche di Séverine. Del resto, va ricordato che per Buñuel, che ha sempre considerato il cinema come "lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni" ("Il meccanismo creatore delle immagini cinematografiche è, a causa del suo funzionamento, quello che, fra tutti i mezzi di espressione umana, richiama meglio il lavoro dello spirito durante il sonno. Brunius fa osservare che il buio che invade a poco a poco la sala equivale all'azione di chiudere gli occhi. E' allora che comincia sullo schermo e al fondo dell'uomo l'incursione notturna dell'inconscio"), è vero anche il contrario: mettere in scena i sogni è tutto sommato il modo migliore per fare del cinema.
I sogni de "Il fascino discreto della borghesia" sono soprattutto degli incubi. Se si fa eccezione per i due sogni raccontati (il primo una sorta di variazione dell'Amleto con forti connotazioni edipiche, il secondo una cupa e commovente esplorazione del mondo dei morti), i quali non sono altro che delle digressioni immotivate sotto un profilo meramente testuale, gli altri sogni scavano tutti nelle paure e nelle ossessioni della borghesia. C'è anzitutto, paradossale e irrefrenabile, la paura di non riuscire a soddisfare il proprio inesauribile desiderio di sesso e di cibo. Ciò provoca nei personaggi una inesausta coazione a ripetere, destinata però a venire beffardamente vanificata dai bizzarri accadimenti del film. I sei protagonisti infatti non riusciranno mai a portare a termine un solo pasto, e questo per i motivi più stravaganti (un malinteso, una veglia funebre al ristorante, l'irruzione della polizia, ecc.). Questa metaforica inattuabilità di un atto così comune trova degli illustri precedenti in altri film dello stesso regista, come "L'age d'or" (in cui Lysa Lys e Gaston Modot non riescono a realizzare l'amplesso così ardentemente bramato) e, soprattutto, "L'angelo sterminatore" (dove gli invitati non possono lasciare, come se qualcosa di misterioso li bloccasse, il salone in cui si trovano), confermandosi quindi sia come vera e propria costante stilistica sia come strumento privilegiato per esprimere entropicamente le contraddizioni interne di una classe sociale. In secondo luogo, affiora nel corso del film il sotterraneo terrore dei personaggi di essere chiamati a recitare la propria vita di fronte agli altri (che è anche paura di uscire allo scoperto, di essere scalzati dalla propria nicchia di privilegiati, di vedere smascherata la natura rituale, conformistica e in fin dei conti teatrale della propria esistenza). I borghesi del film, invitati in casa del colonnello, si trovano inaspettatamente su un palcoscenico, davanti a un pubblico impaziente e severo, e, incapaci di sostenere, di rappresentare la loro parte, sono costretti a scappar via a testa bassa. Per concludere, non va sottaciuta la paura più ovvia e prevedibile, quella di perdere il proprio potere e le proprie prerogative sociali, che si manifesta traumaticamente nelle due sequenze della retata della polizia e dell'irruzione della banda del "marsigliese", vere e proprie incursioni nell'inconscio dei protagonisti dei loro vanamente rimossi complessi di colpa.
In questo diffuso onirismo, che costituisce la caratteristica stilistica predominante del film, si innesta la satira anti-borghese di Buñuel. Essa non si avvale quasi mai dei soliti meccanismi utilizzati al cinema per épater les bourgeois: la denuncia diretta e militante alla Godard o alla Costa-Gavras, la smitizzazione comico-farsesca alla Marx Brothers, l'allegoria alla Polanski, per fare solo alcuni esempi. Ciò non significa che Buñuel non ricorra per alcune sequenze ai topoi cinematografici più abusati. Basti pensare, ad esempio, all'imbarazzante scena in cui Simone viene scoperta dal consorte nella camera da letto di don Raphael, scena che sa tanto di vaudeville stile "cielo, mio marito!", ma che conferma invece una volta di più la estrema libertà narrativa del regista, soprattutto in quell'improvvisa, surrealissima, proposta di Raphael di mostrare i "surcidi" a Simone, che lascia inebetito ed esterrefatto Thévenot. Per il resto, però, Buñuel utilizza, come si è già detto, la trasparente monodimensionalità e lo schematismo (vedi per esempio i riferimenti alla droga) di un simbolismo senza doppi sensi: così, il prete uccide a fucilate il moribondo, ma non senza prima averlo assolto dai suoi peccati (e con la stessa naturalezza con cui ne "L'age d'or" il guardiacaccia sparava a sua figlia); il politico intima di liberare i prigionieri con motivazioni che non udiamo, ma che ci sembra di conoscere benissimo; i borghesi non riescono a trattenere la loro voracità, al punto che don Raphael viene scoperto dai banditi perché non sa resistere a un'ultima fetta di arrosto.
Sulla forza e sull'efficacia di questa satira si potrebbe disquisire a lungo. Da una parte, è indubbio che Buñuel voglia proporsi come il fustigatore della cattiva coscienza della borghesia e dei pilastri istituzionali su cui si regge il suo potere: la Chiesa, l'Esercito, i Politici, la Polizia, tutti accomunati da un unico obiettivo, vale a dire il mantenimento dello status quo (e non inganni il fatto che al loro interno, ad esempio tra il Vescovo e il Colonnello, tra il Colonnello e l'Ambasciatore o tra la Polizia e la Borghesia, possano sorgere dei temporanei conflitti di interesse: alla fine, infatti, nulla cambia e tutti si ritrovano a ricoprire reazionariamente i ruoli di partenza). Dall'altra parte, però, sia nell'utilizzo del filtro del sogno (che opera una sorta di distanziazione critica del fenomeno osservato) sia nella scelta di rappresentare la borghesia nel suo aspetto più gradevole e rispettabile, la polemica anti-borghese prende una strada diversa dall'iconoclastia dei film precedenti. In fondo questi borghesi non sono affatto detestabili e malvagi, ma al contrario si comportano come persone amabili, eleganti e raffinate, cultrici del bon ton e capaci persino di pensieri profondi o di atteggiamenti liberali ("Io non sono reazionario" afferma don Raphael, e ancora: "Io sarei anche socialista, se i socialisti credessero in Dio"). Il problema diventa allora quello del modo in cui fare comunque emergere la vacuità e l'anacronistica inconsistenza storica degli odiati nemici di classe, l'ipocrisia dei loro atteggiamenti, il senso di arrogante superiorità da sempre palesato nei confronti dei ceti subalterni. Per far questo, Buñuel ripone la sciabola dell'invettiva virulenta e sovversiva e sceglie di usare al suo posto il fioretto di un'ironia arguta e pungente. Non c'è cattiveria ne "Il fascino discreto della borghesia" (neppure in scene come quella in cui Thévenot dimostra per scommessa agli amici l'inferiorità e la rozzezza di maniere dell'autista di don Raphael), e l'unica speranza di vedere rovesciato il granitico sistema sociale è forse affidata soltanto a un'ipotetica autoestinzione della borghesia, dovuta all'esaurimento di ogni sua reale funzione e ragione d'essere. In ogni caso la soluzione non è più la violenza e la lotta di classe (i rivoluzionari di Miranda sono descritti non a caso come una frangia di persone velleitarie e inconcludenti). "La violenza – sostiene Buñuel – non serve più a niente… Oggi, le armi non servono più a niente… Attaccare la violenza con la violenza è assurdo". A settantadue anni Buñuel ha assunto un atteggiamento più distaccato, riflessivo, disilluso, eppure "Il fascino discreto della borghesia" è, col suo manicheismo apparentemente innocuo, con la sua assenza di intellettualismi e mascherature (a parte quella, necessaria, con la quale ha celato il suo Paese natio sotto le spoglie della fantomatica repubblica sudamericana di Miranda), la migliore requisitoria fatta sulla borghesia da molti anni a questa parte, divertente, intelligente, caustica, beffarda ed elegante. Buñuel è forse l'ultimo genio sopravvissuto a un'epoca di lotte, di dissensi e di censure, che ha continuato testardamente a scuotere l'ottimismo del mondo borghese, senza la bava alla bocca, senza più bisogno di tagliare gli occhi a rasoiate, senza confinarsi in un cinema elitario o scopertamente politico e, soprattutto, senza rinunciare al gusto di una provocazione che non ha bisogno della volgarità o della spettacolarizzazione ad ogni costo del reale per colpire nel segno i suoi bersagli.

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