Recensione il fascino discreto della borghesia regia di Luis Buñuel Italia, Francia 1972
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Recensione il fascino discreto della borghesia (1972)

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locandina del film IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGHESIA

Immagine tratta dal film IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGHESIA

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"Compiuto il lavoro di interpretazione, ci accorgiamo che il sogno è la realizzazione di un desiderio".
Sigmund Freud, "L'interpretazione dei sogni"

Sette personaggi sono al centro del film. Don Rafael (Fernando Rey, un'icona di Buñuel) è un ambasciatore dell'immaginaria repubblica di Miranda. Suoi amici sono Thévenot (Paul Frankeur) e il più giovane Sénéchal (Jean-Pierre Cassel); i tre sono complici in un giro di importazione di cocaina, perennemente intimoriti di essere scoperti e arrestati. Probabilmente inconsapevoli di questo traffico illecito, le mogli degli ultimi due, la signora Thévenot (un'austera Delphine Seyrig) e la signora Sénéchal (una gelida Stéphane Audran).
La signora Thévenot tradisce il marito con Don Rafael.
I signori Thévenot sono sempre accompagnati dalla giovane parente Florence (Bulle Ogier). In lei si ravvisano segni della generazione più giovane (e alienata) di questa alta borghesia: ha un debole per l'anticonformismo (ma in modo totalmente snob e vuoto di senso), ed è disinibita con l'alcool (senza reggerlo).
Alla compagnia si aggiunge un vescovo (Julien Bertheau), che chiede e ottiene di essere assunto come giardiniere dai Sénéchal; a lui, proprio in qualità di vescovo, non si può negare un posto a tavola.

La struttura del film è quella di una commedia degli atti mancati. Per tutto il corso del film, costoro debbono cenare insieme, e non ci riescono. La pellicola mette in scena la perenne insoddisfazione di questo desiderio, che viene continuamente rimandato da una serie di impedimenti sempre più inverosimili.

Il film si apre con Don Rafael, i signori Thévenot e Florence, che giungono alla villa dei Sénéchal, senza essere attesi: c'è solo la signora, erano stati invitati per il giorno dopo. Tutti insieme si recano in un ristorante. Li attende una macabra sorpresa: sono pronti per ordinare, quando scoprono che in una saletta è stata allestita la camera ardente del proprietario del ristorante, appena deceduto. Se ne vanno sconcertati.

Il sabato seguente dovrebbe aver luogo il pranzo nella villa dei Sénéchal. Tuttavia, presi da un improvviso raptus erotico, i padroni di casa si rifugiano in giardino proprio all'arrivo dei loro ospiti, i quali, dopo qualche minuto di attesa, scappano, temendo che l'assenza dei Sénéchal si spieghi con una improvvisa retata della polizia (causa il traffico di cocaina) di cui sarebbero stati avvertiti all'ultimo minuto.

Giorni dopo le tre signore si ritrovano in una sala da thé, dove però è finito il thé, il caffè, ed anche il latte: c'è solo acqua. Si presenta loro un giovane tenente: questi racconta un traumatico episodio del suo passato, dopodiché si congeda.

Di nuovo riuniti per cena a casa Sénéchal, sono sul punto di cenare quando fa irruzione un battaglione. Sono iniziate delle manovre militari. Al battaglione nella sua interezza è offerta la cena, ma un telegramma richiama i soldati alle loro operazioni. Si congedano: ma non prima che un sergente si soffermi a raccontare un suo angoscioso sogno di morte.

Il colonnello del battaglione ha invitato il gruppo a cena presso di lui, per quando le manovre avranno termine. Tutti si ritrovano da lui. Lì, tra eventi sempre più strani (è offerto del pollo di plastica) scoprono di essere sul palcoscenico di un teatro. ... Ma è solo un incubo del signor Sénéchal.

Assistiamo di nuovo alla cena dal colonnello: egli prende a insultare, in modo sempre più ingiurioso insieme a tutti i suoi invitati, Don Rafael (prendendo di mira ogni possibile arretratezza o inciviltà della repubblica di cui è ambasciatore). Il confronto degenera in una sparatoria, in cui ad avere la peggio è il colonnello... Ma ecco che Thévenot si risveglia: stavolta era lui che stava sognando.

Tornati apparentemente alla realtà (una realtà sempre più sospetta agli occhi degli spettatori), siamo nuovamente dai Sénéchal. Il gruppo sta finalmente consumando la sospirata cena, quando a irrompere stavolta è la polizia, che arresta tutti (per la droga) e li conduce a malo modo in cella, signore comprese.
Lì assistono alla macabra apparizione del fantasma del "brigadiere insanguinato": un gendarme feroce che riappare nel giorno in cui è stato ucciso, a causa delle sue torture crudeli. Proprio lui, nel commissariato rimasto deserto, apre le celle e li libera.
... E' l'ennesimo sogno: stavolta a sognare era il commissario di polizia. Il quale, su ordine del ministro (interpretato in un cameo da Michel Piccoli), è costretto a rilasciare tutti.

Ritroviamo il gruppo nuovamente a tavola. Finalmente mangiano: però fa irruzione un gruppo di gangster che senza dar spiegazioni fucila tutti, tranne Don Rafael che si è rifugiato sotto al tavolo. Egli è tradito però dall'appetito: sporge una mano ad arraffare un cosciotto, ed è scoperto...
... Ma è un suo incubo: dal quale si ridesta sudato e ansimante.
Per placarsi, Don Rafael si reca in cucina, apre il frigo, e inizia un abbondante spuntino notturno a base di pane e prosciutto. Famelico, scarica la tensione ingurgitando grossi bocconi.

In una strada di campagna, intanto, il medesimo gruppo di persone – che abbiamo già visto, estemporaneamente, in momenti diversi del film, procedere su quella strada, nel vuoto dei campi sotto un'opprimente calura – continua a procedere, derelitto e appiedato, non si sa verso dove: con passo accelerato, l'abbigliamento scomposto, l'aspetto affannato.
Questa (evidentemente una metafora) è forse la situazione in cui si trovano realmente, mentre sognano – o ricordano – tutto il resto.

Il desiderio frustrato

"Il fascino discreto della borghesia" (1972) appartiene all'ultimo periodo di Buñuel, quello dei suoi film più fluidi, leggeri (di una levità "calviniana"), e anche più divertenti.
Divertente, perché lo spettatore non è mai invitato a provare empatia con nessuno dei personaggi: anzi sorride delle loro disgrazie. Per quanto, laddove si trovasse a riconoscersi in qualcuno dei contesti raffigurati, il suo sarebbe un divertimento sinistro, con una vena di angoscia nell'intuire in quella dei protagonisti una propria analoga condizione esistenziale.

Esiste un'evidente corrispondenza interna fra alcune delle opere maggiori del regista di Calanda. Ad esempio – allo stesso modo in cui "Viridiana" (1961) si può considerare l'evoluzione di "Nazarin" (1958), "Quell'oscuro oggetto del desiderio" (1977) riprende il tema dell'ossessione per il possesso che ingenera gelosia, motivo già sviluppato in modo simile venticinque anni prima, in "El" (1952).

"Il fascino discreto della borghesia" va accostato a "L'angelo sterminatore" (1962; ed entrambi a "L'âge d'or", 1930). La borghesia viene vista (e dileggiata) in una connaturata impossibilità di realizzarsi pienamente, attraverso la rappresentazione allegorica dell'insoddisfazione di un determinato desiderio specifico. Ne "L'angelo sterminatore" era quello di uscire dalla casa al cui interno una forza invisibile (forse un'auto-suggestione collettiva) la teneva segregata; ne "Il fascino discreto della borghesia", è il desiderio perennemente frustrato di mangiare.
La poetica di Buñuel ruota tutta attorno al tema del desiderio, declinato secondo due forme: l'ossessione per il possesso e la frustrazione del desiderio.

Mentre "L'angelo sterminatore" è un film dai toni gravi, quasi cupi (per quanto possano divertirci le trovate surreali), "Il fascino discreto della borghesia" è opera di felice luminosità e ritmo allegro, dove frizzano ad ogni momento idee e colpi di scena, e pullulano simbolismi che hanno il dono di essere facilmente compresi a livello analogico, senza richiedere necessariamente una decodifica razionale. Quest'ultimo aspetto costituisce la peculiarità del film, e contribuisce a farne, a parere di chi scrive, uno dei massimi capolavori di Luis Buñuel.

Il co-sceneggiatore Jean-Claude Carrière, che iniziò a collaborare con il regista di Calanda a partire dal 1963, deve aver aggiunto un suo tocco specifico di umorismo grottesco, a quello già presente in molte opere di Buñuel – un tocco di humor nero innestato, con brio, sulla medesima struttura portante dei due primi film di Buñuel ("Un chien andalou" e "L'âge d'or"), di cui i film sceneggiati assieme a Carrière rivitalizzano la destrutturazione narrativa onirico-surreale.

Se la gelosia è un aspetto dell'ossessione per il possesso, perché svela la paura di perdere ciò che si ha (e, a livello più inconscio, la coscienza di non possedere veramente), il tema del desiderio frustrato è indice di incapacità, e indizio di impotenza.
Buñuel scorge e dileggia nella classe egemone – quella più "potente" – un'impotenza di fondo. Impotenza di possedere, raggiungere, trattenere; con una matrice sessuale. La teoria di pranzi interrotti, che compongono "Il fascino discreto della borghesia" , fa pensare a una serie di coiti interrotti, in un'impotenza costretta (quando non volontaria).
Già intuibile in "Un chien andalou", nell'opera di Buñuel il tema dell'impotenza sessuale diviene esplicito in "El", in "Estasi di un delitto" (che Moravia definì "allegoria trasparente dell'impotenza sessuale"), e fa la sua comparsa in modo carsico praticamente in ogni film, sino a riesplodere nell'ultimo, "Quell'oscuro oggetto del desiderio".

Sono insiti nella poetica di Buñuel puntuali riferimenti a Freud, ed è possibile interpretare i suoi film, e il suo surrealismo, in chiave psicanalitica in un'ottica precisamente freudiana.
L'impotenza, in "Il fascino discreto della borghesia", ha una forma primaria paradossale: è impotenza di mangiare.
Ma – in un film che è tutto un sogno – cosa si cela dietro la costante frustrazione del desiderio di cibarsi?

L'inconscio sporco della borghesia

Per Freud i sogni sono – sempre – la soddisfazione di un desiderio.
Se il materiale palese di un sogno rappresenta un desiderio insoddisfatto, occorre interpretare tale desiderio insoddisfatto come l'occultamento della soddisfazione di un altro desiderio, più remoto e rimosso (represso), la cui realizzazione viene nascosta dall'inconscio entro l'insoddisfazione di un desiderio meno dominante, tramite il quale tuttavia il principale desiderio riesce a realizzarsi.
Nel suo "L'interpretazione dei sogni", Freud fa a riguardo proprio l'esempio di un sogno a sfondo gastronomico (non è detto ciò non abbia influenzato Buñuel o Carrière), del tutto analogo al soggetto de "Il fascino discreto della borghesia". Una sua paziente – racconta il padre della psicanalisi – aveva sognato di dover dare una cena, ma non aver niente in casa; di uscire per fare spesa, ma trovare tutti i negozi chiusi perché domenica. Un'amica della paziente, scoprì Freud, aveva manifestato il desiderio di essere invitata a cena. Ebbene, la sua paziente riteneva che il proprio marito avesse un debole per questa amica, di cui era dunque gelosa. Nel suo sogno, aveva sublimato il desiderio di tenere distanti i due.

Ma come la mettiamo, dice Freud, con gli incubi, i "sogni d'angoscia"?
Ci interessa da vicino, giacché – come abbiamo visto – ne "Il fascino discreto della borghesia" sono incastonati diversi incubi, e si può pure dire che l'intero film sia un unico, grande, incubo.
Laddove abbiamo "sogni di angoscia", per Freud occorre individuare un desiderio represso cui è collegata una rimozione molto profonda, talmente occulta che nemmeno l'attività onirica riesce a far emergere dall'inconscio. Questo occultamento genera angoscia, come per attrito, una volta che il desiderio represso cerca di trovare spazio almeno in sogno, ma entra in conflitto con quella parte della psiche (il preconscio) che lo tiene lontano dalla coscienza. Il preconscio protegge da un desiderio profondo inconscio considerato inaccettabile, e ce lo nasconde anche in sogno.

E' possibile interpretare il nostro film proprio alla luce di queste dinamiche psichiche.
Attraverso alcuni sintomi, arriveremo gradualmente al disvelamento dei desideri inconsci che si celano dietro al mancato appagamento del desiderio di mangiare.
Per ora ci basti che la borghesia secondo Buñuel desidera cose a se stessa inconfessabili, rimosse profondamente nell'inconscio, di cui non è consapevole e di cui non permette la realizzazione nemmeno nei sogni.

Sintomi di impotenza

Don Rafael spara dalla finestra verso una bella ragazza, che sosta nei pressi dell'ingresso dell'ambasciata, e che definisce una terrorista, inviata da un gruppo rivoluzionario della repubblica di Miranda (che sia la Spagna franchista del tempo?). Più avanti nel film vediamo la ragazza tentare un'irruzione nel suo appartamento, con una pistola nascosta in una sporta. Don Rafael la disarma, e mentre la minaccia con la pistola, la accarezza, chiedendole in cambio del rilascio un favore sessuale. Il rifiuto della giovane provoca il suo sequestro, comandato da Don Rafael, al momento in cui la lascia andare.
E' facile vedere nell'uso della pistola da parte di Don Rafael un'anticipazione del godimento sessuale, e quindi, nel comandare l'arresto, uno sfogo che tenta in parte di surrogare l'impotenza cui è stato costretto. Se avesse potuto, avrebbe violentato, o in alternativa ucciso la giovane. Farla arrestare da altri arreca una soddisfazione forse più sottile (a lui borghese distinto e "discreto"), ma inferiore a quella di spararle brutalmente. L'impotenza permane: ed è dovuta alle convenienza sociale (l'etica non c'entra).

Il vescovo-giardiniere viene chiamato per confessare un pover'uomo moribondo. Al suo capezzale scopre che l'anziano – proprio un giardiniere – aveva assassinato i genitori del vescovo (quando questi era bambino), dopo esser stato licenziato, e trattato, al loro servizio, "come una bestia". Il vescovo prima impartisce l'assoluzione con ipocrite parole di comprensione, poi assassina il moribondo con una doppietta.
La sua non è semplice vendetta. Il vescovo appartiene a quella classe egemone che vive gozzovigliando sulla miseria di altri (è figlio di genitori sfruttatori, che trattavano un loro servitore come una bestia) e ne ha coscienza: cattiva coscienza. Quindi la sua rabbia, che trova sfogo nell'omicidio, è intanto il frutto della cattiva coscienza.
Ma c'è dell'altro. Non è casuale infatti la "coincidenza" fra la professione del vecchio moribondo e quella scelta dal vescovo, entrambi giardinieri. Viene il sospetto che qualcosa di inconscio preesisteva nel vescovo, e che nel liberarsi dei suoi abiti talari abbia scelto per un lapsus la stessa professione di colui che i genitori "trattavano come una bestia". Ma non certo per espiazione. Piuttosto, per vendicarsi dell'appartenenza di classe che costituisce un peso, veste ora i panni di colui che era stato maltrattato. Così si insinua in una dimora alto borghese come una mina pronta ad esplodere con tutte le sue contraddizioni.
Ma quel che riesce a fare, è solo assassinare l'assassino dei suoi genitori, in un circolo vizioso senza uscita.

Abbiamo poi un racconto ed un sogno narrati da un militare a un gruppo di borghesi (i quali nascondono con squisita nonchalance di essere esterrefatti di fronte ad una così inopportuna manifestazione dell'inconscio, da parte di un estraneo, nel bel mezzo di un elegante e discreto consesso dove vigono le forme di circostanza e le buone maniere).

Infine analizzeremo i sogni di Sénéchal, di Thévenot, del commissario di polizia, e quello finale di Don Rafael.

Tutti i sogni (e il racconto del tenente) hanno una matrice comune: l'angoscia e un evidente desiderio di rivalsa su parenti, amici, conoscenti: sulla propria classe sociale e sulle sue convenzioni. Nella maggior parte dei casi, tale rivalsa avviene attraverso una vera e propria messa a morte.
Il desiderio di rivalsa scaturisce da un bisogno di liberazione dai vincoli dell'ordine sociale, entro i quali non si può dare sfogo alle pulsioni primarie. L'angoscia scaturisce dalla rimozione del desiderio di rivalsa, inaccettabile anche perché implica la fine dei propri stessi privilegi.

Il racconto del tenente ha un evidente contenuto edipico. Egli, prima di andare in collegio militare, ha ucciso il padre – alto ufficiale – versandogli nel latte una fiala di veleno su indicazione della madre morta, che gli apparve dentro un armadio. La madre si vendica così dell'assassinio del suo amante, operato dal padre del ragazzo che non è il suo vero padre (costui era in realtà proprio l'amante della madre).

Al di là della matrice edipica, quel che è significativo è che un alto ufficiale viene "rivoluzionariamente" assassinato da coloro che sono state le sue vittime: ossia l'uomo di cui la madre era davvero innamorata (il potere – qui nella forma del pater familias autoritario – uccide l'amore), la donna (succube del potere di un uomo che non ama), e il figlio.
Costui però nella sua ribellione ha lo stesso preso i gradi: il ragazzo che racconta il sogno ha un'aria terribilmente afflitta, e rivela una sconsolata infelicità. La rivalsa sul padre non ha avuto il coraggio di abbandonare il proprio destino, e la sicurezza economica.

Il sogno dell'altro militare è struggente. L'atmosfera e l'ambientazione sono funeree, accompagnate da rintocchi di campane a morto. Al protagonista viene incontro un commilitone; si congeda e ne appare un altro, che gli fa notare come il precedente fosse morto da diversi anni. E di questo passo ci accorgiamo che anche il protagonista del sogno è morto: si trova nel regno delle ombre, circondato da morti.
Non c'è catarsi. Colui che racconta il sogno, racconta una possibile premonizione del proprio destino di soldato. Il potere militare, indistruttibile, provoca morte. Morte di ragazzi, di intere generazioni di giovani. Il potere militare gozzoviglia sopra l'ecatombe di milioni di giovani.

Il sogno di Sénéchal è di trovarsi improvvisamente su di un palcoscenico. Tutti gli altri scappano sconvolti, rifiutando l'orrore di essere sottoposti, nel loro intimo consesso salottiero, allo sguardo di una quarta parete che si apre letteralmente come un sipario.
Ma se Sénéchal si libera nel sogno di tutti i suoi commensali, non ne appare soddisfatto.
Angosciato, appare impotente: non sa come fuggire pure lui dal palcoscenico. La sua angoscia è indizio d'irresolutezza, di un senso di inadeguatezza: soprattutto, dell'incapacità di accettare il fatto di vergognarsi per essere ciò che si è.
D'altra parte non avrebbe senso essere sconvolti a quel modo dallo sguardo di un pubblico, se non si vivesse provando una generica vergogna nei confronti del mondo. Anche in questo sogno, non c'è liberazione o catarsi.

Thévenot sogna l'umiliazione di Don Rafael, amante di sua moglie (Thévenot ne è consapevole, e tacitamente lo accetta: una scena del film lo chiarisce in modo esplicito). Ma ancora una volta c'è impotenza: ad essere colpito a morte non è Don Rafael, ma il colonnello.
Intanto l'atto di rivalsa, per codardia, è traslato (non è Thévenot a umiliare pubblicamente il suo avversario: egli lascia questo compito al colonnello dell'esercito), ma, per giunta, nemmeno ha successo.
Nel sogno assistiamo ad uno sfogo collettivo, razzista, da parte della classe più benestante di un paese benestante, come la Francia, nei confronti dell'immaginaria repubblica di Miranda (che forse è la Spagna: l'attualità dell'epoca oggi non si percepisce), di cui vengono elencate sempre più abnormi (ma realistiche) arretratezze di ordine sociale.
Perché questo sogno diverte, anziché indignare per il suo implicito razzismo? Anzitutto perché la vittima non è il popolo dell'immaginaria repubblica, ma è Don Rafael: cioè un esponente della classe egemone, che gestisce il potere con metodi lontanissimi dalla democrazia. Quindi a divertire è l'impossibile e assurdo dileggio, di costui, da parte di un consesso che normalmente lo accoglie e lo accetta come una parte di sé.
In realtà, le classi dominanti si riconoscono e fraternizzano, campando insieme sulle miserie degli indigenti. Non esistono paesi democratici. O, meglio, la democrazia è un'ipocrisia, e le arretratezze rimproverate alla povera repubblica di Miranda – ci si rende conto – sono situazioni sociali che, senza andare lontano, si possono ben rintracciare nella "civilizzata" Europa.

Il sogno del commissario di polizia (il "brigadiere insanguinato" che libera i prigionieri) rappresenta il segreto desiderio di crudeltà e sadismo da parte di un'istituzione repressiva.
Ancora una volta, è messa in scena una forma di impotenza. Il commissario di polizia non può essere sadico come vorrebbe (lo era il "brigadiere insanguinato", non lui). C'è qualcuno, invece, che è sadico con lui, perché il Ministro ne castra la volontà di potenza (arrestare dei borghesi è un atto eversivo: non conta nulla siano trafficanti di droga). E così, il "brigadiere insanguinato" è il simbolo ideale, per questo commissario di polizia, di un sadico torturatore (un "vorrei ma non posso"...), e svela l'impotenza del commissario, il quale non può impedire la liberazione di quei farabutti galantuomini che vorrebbe mettere in galera.
Anche il commissario è un rivoluzionario mancato, e accetta di farsi mettere i piedi in testa dal ministro.

Infine il sogno dell'ambasciatore Don Rafael è quanto di più trasparente: questo cinico misantropo non desidera altro che far fuori questi francesi che detesta cordialmente, i suoi "simili", con cui, da buon diplomatico, è costretto a relazionarsi con discrezione e amabilità.
Li fa ammazzare tutti. Però, questo sogno è un incubo. Don Rafael si nasconde sotto il tavolo, non è uno dei gangster: è, piuttosto, agli occhi di questi ultimi, un altro borghese come quelli fatti fuori a colpi di mitra.
Don Rafael è condannato a essere quello che è. Del resto, senza l'adorabile società che lo circonda, presso chi potrebbe essere ambasciatore? I francesi gli danno il pane.

L'anima nera della borghesia

Il desiderio di Don Rafael, di ucciderli tutti è quello, asociale, misantropo e individualista, di eliminare coloro con cui quotidianamente ci troviamo costretti a fare i conti, che si detesta ma nei confronti dei quali è inevitabile dover essere bendisposti.
Ricordiamoci che all'origine delle vicende del film sta un lapsus trasparente: io ti invito a cena, ma siccome non ti posso sopportare, mi sbaglio e ti indico un giorno per un altro.
Alla base, c'è una pervasiva gelosia reciproca, correlata all'ansia di possesso. Homo homini lupus.

Come nel pensiero di Hobbes, non esiste società che si regga senza autorità (ma l'autorità, a quanto sembra dire Buñuel, logora anche chi la detiene). L'anima nera della borghesia è fascista? Ma il fascismo non è che la specifica "tentazione" borghese di gestire il potere secondo metodi autoritari: è il potere ad essere intrinsecamente, da millenni, autoritario.

L'alternativa è l'eversione. Quel che Buñuel dice con genio, è che i borghesi stessi sarebbero tra i primi a voler esser protagonisti di un atto rivoluzionario (in fondo lo sono già stati: non è forse, la rivoluzione francese, la "rivoluzione borghese"?). Se nonché, ora che il potere l'hanno in mano, il castello di carte crollerebbe loro addosso: e resterebbero travolti dalla troppa smania di libertà.
Il potere, è una prigione.

Il profondo desiderio della borghesia

Il desiderio recondito sarebbe, quindi, di scardinare le regole imposte dall'ordine sociale; far saltare per aria tutta l'architettura di riti, buone maniere e galatei vari, e far trionfare solitario il proprio ego.
Siccome tutto ciò non è possibile accettarlo, si delega innanzitutto ad altri, nei sogni, il ruolo di spodestare la classe di cui si fa parte.

Ma l'angoscia, che fa di questi sogni degli incubi, non deriva dall'impotenza ad agire individualmente. Anzi l'impotenza appare una masochista fonte di godimento. Sembrerebbe invece che a far scaturire l'angoscia vi sia l'impossibilità di far emergere dall'inconscio al preconscio quello che sembrerebbe il desiderio più segreto – quello sì, veramente inconfessabile – della borghesia: essere spodestata come classe dominante.

"Se non ce la facciamo da soli, se siamo codardi, che siano altri a toglierci il potere... Ma che ce lo tolgano, per piacere!" sembrano dire i suoi personaggi.

Alla radice, non può che esserci il desiderio di regredire (fosse possibile) a quello stato di natura selvaggio, hobbesiano, in cui realizzare i propri istinti individuali in modo brutale, senza l'ostacolo rappresentato dai convenevoli della socialità.
Homo homini lupus. E' d'altronde lo stato di natura che Buñuel, con disincanto, ha rappresentato in tanti altri suoi film (si pensi ai miserabili di "Viridiana", di "Nazarin", di "I figli della violenza"), in modo anche disturbante.

Il desiderio profondo della borghesia è quello di liberarsi del proprio charme discreto, liberarsi dalle proprie ipocrisie; gettare alle ortiche rituali e liturgie. Proprio come il vescovo si disfa degli abiti talari, o come i coniugi Sénéchal sfogano l'improvviso istinto sessuale in giardino, scappando dalla finestra in casa propria per poi farvi rientro pieni di fili d'erba tra i capelli..
Quanto sarebbe – sì, meno charmant – ma più soddisfacente, una vita selvaggia. E quanto sarebbe più gratificante, invece di limitarsi a rubare pateticamente un cosciotto da sotto il tavolo!

Il desiderio profondo della borghesia è di alzarsi in piena notte con un frigo pieno in casa, e riempirsi la bocca con grossi bocconi di pane e prosciutto, a sazietà. E, ... sì: in perfetta solitudine.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 15/10/2010 11.21.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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MARILYN HA GLI OCCHI NERI
Locandina del film MARILYN HA GLI OCCHI NERI Regia: Simone Godano
Interpreti: Miriam Leone, Stefano Accorsi, Thomas Trabacchi, Mario Pirrello, Orietta Notari, Marco Messeri, Andrea Di Casa, Valentina Oteri, Ariella Reggio, Astrid Meloni, Giulia Patrignani, Vanessa Compagnucci, Lucio Patané, Agnese Brighittini
Genere: commedia

Recensione a cura di Severino Faccin

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