l'ora di religione regia di Marco Bellocchio Italia 2002
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l'ora di religione (2002)

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locandina del film L'ORA DI RELIGIONE

Titolo Originale: L'ORA DI RELIGIONE

RegiaMarco Bellocchio

InterpretiSergio Castellitto, Jacqueline Lustig, Chiara Conti, Gigio Alberti, Piera degli Esposti

Durata: -
NazionalitàItalia 2002
Generedrammatico
Al cinema nell'Aprile 2002

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Trama del film L'ora di religione

Protagonista della storia è Ernesto Picciafuoco, quarantenne, separato, pittore di talento, per sopravvivenza illustratore di libri per bambini. Alla notizia del processo di beatificazione di sua madre, tornano i Fantasmi del passato: la famiglia cattolica, la famiglia borghese, la famiglia tradizionalista...

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Voto Visitatori:   7,01 / 10 (53 voti)7,01Grafico
Migliore Attrice Non Protagonista (Piera Degli Espositi)
VINCITORE DI 1 PREMIO DAVID DI DONATELLO:
Migliore Attrice Non Protagonista (Piera Degli Espositi)
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Voti e commenti su L'ora di religione, 53 opinioni inserite

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Gruppo COLLABORATORI ULTRAVIOLENCE78  @  08/06/2009 10:39:58
   8½ / 10
Probabilmente l’opera più equilibrata della filmografia di Marco Bellocchio: a un tempo intensa, sommessa, minimalista, sottile, acuta e, in definitiva, positiva. Molto positiva.
Riversare sulla figura materna il proprio sentimento anticlericale è un’operazione coraggiosa, anzitutto, e poi impegnativa, perché importa non soltanto una valenza simbolica, ma anche un’analisi del rapporto madre-figlio, che affonda le sue radici nel desiderio primario della genitrice di dare vita a “qualcosa” da controllare e dominare in tutto e per tutto e in maniera esclusiva. Il sorriso della madre (così come la lettera E, con cui iniziano i nomi dei figli) è l’impronta, il “marchio di fabbrica” impresso sui volti della discendenza ed ha il valore emblematico di un atto di prepotenza: quello di conformare la propria figliolanza a sé, farne simulacro della propria esistenza per stabilire una continuità con essa e, in senso egoistico e presuntuoso, eternarla. Va da sé il passaggio al dispotico concetto teologico dell’espressione “a mia immagine e somiglianza”. L’adeguamento ai dogmi e ai riti della Chiesa ha la medesima portata: l’imposizione di una conformità asfittica e costipante, la cui insulsaggine viene messa subito in evidenza nell’incipit, allorchè si vede il bambino correre a nascondersi in un angolino della casa per sfuggire allo sguardo onnipresente e ingombrante di Dio. Ma il discorso, così come dimostra l’esperienza professionale di Ernesto (impersonato da un Castellitto superlativo), un’artista frustrato e condizionato dalle direttive del suo editore, si allarga fino a costituire una sorta di richiamo alla necessità della libertà di scelta e all’autodeterminazione, quali uniche fonti per la propria realizzazione esistenziale. La “follia” di Egidio matura proprio da questa frustrazione: dall’impossibilità di percorrere strade alternative a quelle battute dalla madre e da essa mostrate e imposte senza una vera ragione. L’assassinio si carica, dunque, di un valore altamente metaforico: è un atto estremo di ribellione contro un sistema oppressivo che si manifesta, con le stesse dinamiche, in tutti i contesti sociali: dall’educazione familiare alla catechesi e al lavoro ecc... Ernesto è l’unico comprendere il gesto disperato del fratello ed a giustificarlo: egli definisce la propria madre una donna stupida, passiva e, per questa sua passività, crudele nel voler trasmettere ai figli un modello da accettare per puro conformismo. E la sua canonizzazione equivale alla consacrazione di tale “status quo”: un atto rappresentativo di una tendenza ad un adeguamento ad una prassi fondata su ingannevoli idealizzazioni e falsi miti, così come manifesta la stessa imposizione dell’ora di religione da parte di una madre nella quale si perpetua il medesimo atteggiamento acritico e dannoso della beatificanda.
Dicevo che si tratta di un film positivo, perché qualsiasi lavoro che miri all’affermazione del bisogno di liberarsi di quei modelli esterni che condizionano la propria natura, ammantandosi quindi di nitore etico, io lo percepisco come estremamente positivo. Ne sono la riprova l’epilogo, nel quale si vede il protagonista, pacificato con se stesso (il suo sorriso non è più il ghigno freddo della madre, ma ha il calore della comprensione), accompagnare il figlio a scuola; e il momento precedente, che rivela il libero scatenarsi della fantasia dello stesso protagonista con le immagini dell’abbattimento del Vittoriano (simbolo di un’arte mortificata dai dettami esterni).
Sotto il profilo formale, è un’opera impeccabile che ha il suo punto di forza in una fotografia (Pasquale Mari), che non sfigurerebbe nemmeno di fronte a un Greenaway (bellissimo il momento del dialogo tra il messo della Chiesa ed Ernesto, coi loro volti splendidamente illuminati su un lato), e che è impreziosita da una vena fortemente surrealista, così come palesano le scene in cui il protagonista interagisce con i personaggi “indefiniti” del conte e della professoressa di religione, quasi fossero proiezioni della sua immaginazione.

3 risposte al commento
Ultima risposta 20/06/2009 16.52.35
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