storie di fantasmi regia di Masaki Kobayashi Giappone 1964
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storie di fantasmi (1964)

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locandina del film STORIE DI FANTASMI

Titolo Originale: KWAIDAN

RegiaMasaki Kobayashi

InterpretiRentaro Mikuni, Misako Watanabe

Durata: h 3.03
NazionalitàGiappone 1964
Generehorror
Al cinema nel Marzo 1964

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Trama del film Storie di fantasmi

Tre storie di fantasmi ispirate ai racconti di Lafcadio Hearn, un americano che visse in Giappone alla fine del secolo scorso. Un samurai torna dalla moglie dopo molti anni e scopre che si è tramutata in uno spettro. Un musicista cieco diventa famoso quando racconta la storia della sua menomazione. Nella storia La donna di neve si racconta l'incubo di due taglialegna durante una terribile tempesta sulla montagna.

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Voto Visitatori:   8,00 / 10 (12 voti)8,00Grafico
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Voti e commenti su Storie di fantasmi, 12 opinioni inserite

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Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Invia una mail all'autore del commento emans  @  13/05/2021 12:39:06
   7½ / 10
Quattro storie horror raccontate con i classici tempi diluiti del cinema orientale di un tempo. Tecnicamente c'è poco da dire, la fotografia a colori è splendida in particolare nel terzo episodio che è anche quello piu' lungo e con piu' "azione".
I primi 2 episodi sono storie o leggende ben conosciute ma malgrado questo si lasciano seguire in maniera coinvolgente.
Il terzo episodio eccede in qualche lungaggine di troppo ma tecnicamente è sublime.
Il quarto episodio è il piu' complesso e forse ha il problema di arrivare dopo 2 ore di film, ne risente nell'attenzione. Il piu' debole quindi a mio avviso.
Sicuramente non è una pellicola facile e per tutti ma se si sa apprezzare il cinema Nipponico non c'è da chiedere di meglio.

alex94  @  21/02/2018 12:04:23
   8 / 10
Un gran bel film horror ad episodi diretto da Kobayashi nel 1965, che nella sua prima ed unica escursione nel genere, da vita ad una delle più interessanti pellicole del cinema nipponico.
Un film che mescola alla perfezione storia,elementi soprannaturali e folklore locale,creando qualcosa che difficilmente si avrà l'occasione di rivedere e influenzando decine di registi asiatici.....
I primi due episodi sono drammi sentimentali parecchio tristi (in particolare il primo),il terzo,per il modo in cui è realizzato è a mio avviso il più affascinante oltre che il più lungo,circa un ora,mentre il quarto ed ultimo episodio è quello più metaforico del quartetto.
La narrazione da favola,gli ambienti claustrofobici e l'atmosfera gotica,unita ad una scenografia d'impatto (anche se palesemente finta) rendono il film sinistro e a tratti anche inquietante.
Ottima anche l'ipnotica colonna sonora che non fa altro che accrescere il valore (già alto) di questa straordinaria pellicola.
Da vedere almeno una volta.

76mm  @  14/12/2017 16:23:22
   6 / 10
Grande eleganza e ritmi catatonici.
Ambientazioni, scenografie e costumi sono stupendi, le storie decisamente meno.
I primi due episodi sono telefonatissimi, dopo 10 minuti si capisce perfettamente dove andranno a parare per cui, aspetti tecnici a parte, perdono ben presto d'interesse anche per lo spettatore meno smaliziato.
Il terzo è sicuramente il migliore dal punto di vista dell'originalità ma viene reso indigesto dalla presenza dei micidiali canti epici giapponesi che per carità faranno anche parte di tradizioni secolari ma sono una vera e propria tortura per le orecchie.
Il quarto ha un buono spunto ma è sostanzialmente irrisolto.
Tensione totalmente assente, questi fantasmi non spaventerebbero una bambina di 4 anni.
Chi si appresterà alla visione pensando di vedere un antesignano dei moderni film di fantasmi orientali resterà deluso.
Ha innegabilmente un suo fascino dovuto, come già detto, ad un comparto tecnico di assoluta eccellenza e a certe atmosfere fuori dal tempo.
Tre ore però sono sfiancanti.


Gruppo COLLABORATORI SENIOR The Gaunt  @  13/11/2015 23:23:28
   8½ / 10
E' una pellicola su livelli di eccellenza assoluta. Una messa in scena ottimale con una fotografia molto efficace nei colori e nei giochi di luce, una scenografia tendenzialmente scarna tanto da risultare irreale come una fiaba nera. Sono elementi, uniti ad una regia ineccepibile, che riescono a risaltare l'inquietudine e l'angoscia del racconto gotico. I primi due episodi sono veramente sublimi, i migliori seocndo me, mentre gli altri due traspare una sottile ironia nera, anche se sconta, come il terzo qualche lungaggine eccessiva. E' un film che ha i suoi anni, ma non li dimostra.

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR pier91  @  22/03/2013 21:17:25
   9 / 10
Noi, lontanissimi da quei luoghi, da quei volti, da quel fare, vorremo sempre costruire intorno ad essi dei castelli esistenziali. Eppure le quattro storie di Kobayashi hanno la bellezza eversiva della semplicità. Non c'è nulla di smisurato, divino, umano nelle splendide vedute fittizie de "La donna della neve"; sono memorabili proprio perché impongono seraficamente un limite a cui non siamo abituati, una fine, un contorno, e ribadiscono tuttavia il loro costruito splendore. Il film è splendido, pura magnifica enunciazione.

deadkennedys  @  27/07/2012 18:48:53
   8 / 10
In realtà le storie sono 4, non 3 l'ultima però è incompleta.
Film bello e suggestivo, direi anche innovativo considerando l'epoca. L'ambientazione teatrale di alcuni episodi è perfetta, anche meglio di un paesaggio reale.

Jack_Burton  @  29/09/2011 18:27:48
   10 / 10
Non è un film come gli altri e quindi va visto con occhi diversi rispetto agli altri; in questo film non si deve avere fretta ma è fondamentale invece lasciarsi cullare dalle storie, vedere i costumi, i paesaggi, le ambientazioni, i modi di fare delle persone ascoltare le musiche...più che un film è un'esperenza che come tale va saputa vivere altrimenti non se ne coglie il reale valore...CAPOLAVORO.

Crimson  @  04/09/2011 17:51:38
   10 / 10
Spoiler presenti.

E' sempre molto difficile analizzare su un piano prettamente discorsivo un film che fa della ricchezza delle immagini la sua forza. Ci proverò ugualmente.
Visivamente ha pochi eguali, ma Kwaidan (termine giaponese che indica storie di fantasmi ormai sostituito con ‘horror') è un capolavoro anche per come integra le immagini suggestive che lo costellano (veri e propri quadri in movimento) ad un uso straordinario del sonoro e ad una narrazione lineare e talmente essenziale da rappresentare l'ultimo elemento a cui prestare attenzione nell'approcciarlo.
Occorre immergersi lentamente in questo collage sublime di immagini e suoni: solo allora i codici comunicativi del film hanno la possibilità di sprigionare tutta la loro forza espressiva.
Il risultato è qualcosa di molto vicino ad un'esperienza surreale, sospesa in una dimensione semi-onirica di grandissimo impatto emotivo, attraverso cui riusciamo a cogliere anche contenuti molto profondi che se ci soffermassimo sul mero dato narrativo non emergerebbero affatto, anzi, si mostrerebbero troppo semplici (qualcuno ha definito, superficialmente, i contenuti del film quanto "lo spessore di un foglio", mi pare di aver letto da qualche parte).

I titoli di testa ci lasciano subito capire che l'attenzione verso i colori (molto densi e vivaci) è notevole.
Per tutto il film la sensazione è quella di una commistione tra due realtà – quella dei viventi e quella del sovrannaturale -, come mostra metaforicamente l'incipit (pazzesco) e come richiama un finale in cui l'obiettivo si sofferma su una tazzina rovesciata, il cui contenuto è fuoriuscito nella sua interezza, completando altrettanto metaforicamente un percorso di trasfigurazione rincorso per circa tre ore.

Il primo episodio (‘I capelli neri') racconta di un samurai "costretto" ad abbandonare la moglie fedele e devota (fin troppo!) per coltivare la propria ambizione.
I colori degli interni sono prevalentemente su tonalità fredde (marrone, blu, grigio) e definiscono il sentimento che pervade un momento di distacco in cui appare evidente la differenza di diritti e doveri, nonché di forza e prestigio, tra la donna e il samurai in quel tipo di società.
La voce fuori campo sintetizza i passaggi temporali e velocizza una narrazione molto stringata. Fin dall'inizio appare evidente come siano del tutto assenti i rumori dell'ambiente in favore di una colonna sonora persistente composta da suoni bizzarri e dissonanti.
La "nuova vita" del samurai, ora marito di una donna di discendenza nobile, trascorre nel silenzio più abbietto e nel crescente rimorso per aver compiuto un gesto egoista che lo ha avvicinato alla solitudine.
La sua seconda moglie con le caratteristiche sopracciglia disegnate ricorda una delle figure inquietanti de ‘Il trono di sangue' o ‘Ran' per la loro inespressività agghiacciante e i kimono che strascicano, come se fluttuassero quando si muovono.
In realtà non è un personaggio perfido ma una donna che si sente tradita, "amata" solo per una questione di prestigio e che proprio in virtù della sua condizione sociale può permettersi di schiaffeggiare il samurai (comportamento che la prima moglie non avrebbe mai potuto osare).
C'è in sostanza anche la critica sociale tipica di questo regista, ma non è il tema fondamentale del film come nel precedente ‘Harakiri', poiché oltretutto emerge solo in questo primo episodio.
Il ritorno del samurai, dopo tanti anni, è un viaggio colmo di solitudine, rimorso e disperazione.
Ritorno al grigiore dell'ambiente iniziale, circolarità spaziale e dei sentimenti prevalenti, in un episodio che complessivamente appare poco luminoso proprio per via dei contenuti mostrati.
Quando il samurai si risveglia avviene ciò che sospettavamo.
L'orrore incombe improvvisamente, i suoni – in un crescendo di tensione spaventoso – si fanno sempre più squassanti e stridono con la nostra emotività, infastidendoci. Proviamo spavento e una sensazione sgradevole.
Impossibile non pensare a Mizoguchi e ad uno dei suoi film migliori (‘I racconti della luna pallida d'agosto'), sebbene quella rappresentata da Kobayashi sia una dimensione differente, un orrore meno naturale e più immaginifico.
E' comunque un orrore/parto della coscienza (devastata dal rimorso), o, secondo un'altra prospettiva (quella della donna), il prodotto del rancore del fantasma.
Nella cultura nipponica il fantasma si vendica personalmente di un torto subito in vita.
Il senso di giustizia non è filtrato e ripristinato da un dio, diversamente da quanto avviene nella nostra cultura occidentale pervasa dal cristianesimo.
Spesso l'oggetto vivo della vendetta soccombe proprio nella morsa dei capelli del fantasma.
I giapponesi a tal riguardo tengono a sottolineare che i capelli lunghi degli yūrei "devono" essere scompigliati. E' un particolare importante. Non so se sia riconducibile al fatto che essi nella quotidianità badino così tanto alla forma e al protocollo, anche e soprattutto nell'abbigliamento e nell'acconciatura.
Abbiamo conosciuto questi elementi grazie a Ringu e a tutta la sequela di J-horror contemporanei. Film che attingono molto dal teatro e dalla letteratura, in generale dunque dalla tradizione radicata nella propria cultura da secoli.
Gli yūrei possono essere distinti in varie categorie, infatti non tutti quelli presenti in Kwaidan appartengono alla stessa proprio perché si comportano diversamente.
Anche questo episodio, così come gli altri, si basa su testi teatrali e della tradizione. Ma è la resa che cambia completamente.
Qualcosa che si pone ‘a parte' rispetto a tutto ciò che abbiamo visto o vedremo sul tema dei fantasmi secondo l'ottica orientale.
L'espressività dell'immagine, i colori, le scenografie, i suoni, sono di uno spessore raro.

Ancora scossi dal primo episodio ci addentriamo in modo conseguente nel freddo del secondo (‘La donna della neve'), come se ci fosse una fusione naturale.
Il quadro in movimento comincia ad assumere una unità tra le sue parti, caratteristica che infine ci appare evidente. Non è il solito horror strutturato in episodi slegati tra loro tanto che il risultato finale assomiglia più all'addizione di una difformità degli stessi (mmm penso a ‘Creepshow') piuttosto che ad un film vero e proprio che indipendentemente dalla vicenda ci offre medesime sensazioni, come se fossimo immersi in un unico insieme ben amalgamato.
Protagonista del secondo episodio è Tatsuya Nakadai, l'attore-feticcio di Kobayashi e forse più conosciuto ai più per le sue interpretazioni in ‘Kagemusha' o ‘Ran' di Kurosawa.
Salvato dal gelo da una donna misteriosa (stavolta il fantasma appare nel suo candore del drappo funebre bianco della tradizione; uno sguardo allucinato la rende sovrannaturale – ancora una volta l'attenzione per il contrasto e per come filtrino la luce e il colore è ai massimi livelli espressivi) viene tuttavia costretto a promettere di non rivelare mai a nessuno l'episodio.
Trascorre il tempo, la narrazione è ancora una volta veloce; le luci e i colori che compongono i quadri temporali che si susseguono si distaccano con vigore dalla gelida sequenza iniziale (prevalgono colori come l'ocra e la luce segue la naturalezza delle splendide giornate di sole). Prima dell'inevitabile e attesa resa dei conti finale.
Ancora una volta restiamo scioccati da un pathos esasperante che prende forma mediante tutto l'aspetto formale che contraddistingue questo dipinto.
Ha decisamente costituito una fonte d'ispirazione per il terzo episodio di un altro horror a episodi poco conosciuto, ‘I delitti del gatto nero' (1991).

Giunto a circa 1h e 20' di film, Kwaidan offre il meglio di sé nel terzo episodio, il più lungo (circa un'ora) e articolato.
Qualcosa di incantevole che lascia senza parole.
Il prologo è folgorante.
Girarsi verso la persona con cui si assiste a questo spettacolo e trovarsi a sussurrare "sono incantato" (per l'esattezza mentre le donne si lanciano nell'acqua per morire per loro volontà piuttosto che secondo quella del nemico) è una sensazione inesplicabile e indimenticabile.
L'impressione di assistere a qualcosa di onirico è ancora più profonda e la piacevolezza che ne deriva è estasiante.
Questo regista proviene dalla pittura, è ovvio. Quando un cineasta ha un background di questo tipo salta subito all'occhio l'approccio differente rispetto allo schema tradizionale.
Kobayashi come Greenaway, in questo senso. E guardando ‘I racconti del cuscino', di ben trent'anni successivo a questo capolavoro, individuiamo persino un'assonanza con questo terzo episodio chiamato ‘Hoichi senza orecchie'. Segni sul corpo come codice di un determinato significato simbolico. Stesso tipo di riferimenti letterari (in questo caso) ma un modo di intendere il messaggio dell'arte visiva differente. Dopotutto Greenaway è figlio dell'occidente (si pensi a Cronenberg/Tsukamoto). Ma non solo questo. Greenaway affronta temi sostanzialmente distanti da Kobayashi (l'opera d'arte come testimonianza rivelatrice della profondità che si cela dietro l'apparenza – come nell'alfa e omega della sua filmografia, ‘Il mistero dei giardini di Compton House' e ‘Nightwatching', due film capolavoro ndr), al regista nipponico in questo caso interessa fruirne come espressione forte di una realtà ibrida tra vita e morte. La fortissima attitudine commemorativa della cultura nipponica, unita ad un legame con la tradizione molto più radicale e quotidiano rispetto all'occidente, rende questo episodio tanto solenne quanto epico.
I fondali ricostruiti in modo maniacale sono splendidi, evocativi, suggestivi.
Il canto col biwa (strumento a quattro corde della tradizione) di Hoichi è bellissimo, e accompagnato alle raffigurazioni stuzzica l'immaginazione.
Non occorre la vista per ripercorrere ciò che possiamo vedere dentro di noi, conservato nella memoria e che possiamo rievocare. Ovvero la realtà immaginifica che oltrepassa quella catturata dalla vista.
Hoichi non ha visto che coloro per cui suonava ogni notte erano fantasmi. Ha trovato il punto di contatto con essi attraverso la potenza della sua rievocazione.
La pericolosità che il mondo fantasmatico prenda il sopravvento: il linguaggio del testo sacro tutela il fragile protagonista, ma per errore gli vengono risparmiate le orecchie. Tutto ciò che resta al fantasma per testimoniare che ha assolto il suo compito.
Ma quel mondo non più parallelo è talmente tangibile che ormai fa parte di quella realtà a cui si ha accesso con i cinque sensi.
Da notare la presenza di Takashi Shimura nel ruolo del reverendo.

Il quarto episodio (‘In una tazza di tè') è probabilmente quello più metaforico, e non solo per la sequenza finale descritta in precedenza.
Sembra che Kobayashi avesse delle pretese molto alte nei confronti della Toho (in ciò ricorda qualche aneddoto sul Kurosawa degli anni '70) e avesse strabordato rispetto al budget concordato.
A quanto pare la storia a cui lo spettatore, definitivamente chiamato in causa, deve trovare una fine può essere una velata denuncia reale del difficoltoso rapporto tra chi scrive storie e chi le produce.
I fantasmi non possono essere uccisi: è la sola conclusione che possiamo cogliere in base a quanto vediamo (15 minuti di grande cinema dell'esasperazione), prima che il samurai impazzisca. Il ritorno al "reale" è il preludio ad un finale beffardo e ironico, perché ormai l'orrore ha definitivamente invaso la realtà, e sembra salutare lo spettatore guardando direttamente in camera.

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Tumassa84  @  11/04/2011 03:42:46
   7 / 10
Delle quattro storie, la migliore a mio avviso è la seconda, presentata in maniera molto ispirata sul piano estetico, mostrando ancora una volta quanto i cineasti giapponesi di questo periodo fossero abili e artisticamente di primo livello. Le varie storie raccontate hanno una trama molto semplice e lineare, e il film punta proprio sull'aspetto estetico e artistico della pellicola. La terza è quella un po' più articolata, grazie anche alla sua lunghezza, mentre della quarta francamente si poteva fare anche a meno, dato che è la meno bella e il film di per sé aveva già superato abbondantemente le due ore.

VikCrow  @  06/03/2009 03:50:24
   6 / 10
Kwaidan sarebbe potuto rivelarsi un ottimo lavoro se non fosse stato così, eccessivamente, longevo e noioso (dalla terza storia in poi). Splendidi e teatrali i primi due racconti.

Ciaby  @  23/12/2008 19:20:20
   6 / 10
sopravvalutato...tirato per le lunghe, noiosissimo...buone solo le prime due storie e l'ambientazione teatrale

benzo24  @  21/04/2008 12:36:45
   10 / 10
un vero cult...da non perdere.

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