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Pubblicato il 22/11/2012 08:36:12 da
The GauntRispettivamente classe '31 e classe '29,
Paolo e
Vittorio Taviani si possono certamente definire registi con una onorata carriera alle spalle. Certo non sono i primi nomi che vengono in mente in un'ipotetica classifica dei migliori cineasti italiani di sempre, ma è indubbio che la loro carriera non è stata avara di soddisfazioni, in primis la Palma d'oro a Cannes per
Padre padrone.
Ad ottant'anni suonati dopo una carriera di tutto rispetto, cosa ti combinano? A dispetto di chi li considerava "bolliti" (e anche chi scrive ci si mette, facendo pubblica ammenda), lasciano la classica pellicola per passare al digitale e con una troupe scarna ma perfettamente funzionale all'ambientazione, dirigono quello che probabilmente è stato il miglior film italiano della precedente stagione cinematografica:
Cesare deve morire.
Con l'ausilio fondamentale di Fabio Cavalli, vero e proprio tramite tra gli attori carcerati e i Taviani, il carcere di Rebibbia diventa l'immenso palco della tragedia shakespiriana in cui gli orrori del proprio passato sono esorcizzati entrando nei personaggi della piece teatrale e creando una forte empatia tra spettatori e film. Una pellicola che coinvolge e sconvolge. Documentario, teatro e cinema sono fusi in maniera perfetta. Il carcere rimane il luogo di punizione per eccellenza, ma può essere il luogo della redenzione dello spirito umano. La scoperta dell'Arte, assorbirla, può lenire gli orrori di un passato fatto di scelte sbagliate ed errori a volte non più riparabili. Una speranza di rinascita all'interno delle sbarre.
E' notizia di poco tempo fa che Cesare deve morire ha ricevuto tre canditature agli EFA europei (miglior film, miglior regia, miglior montaggio). Altre piccole soddisfazioni per i fratelli di S.Miniato. La concorrenza tuttavia è fortissima,
Amour di Haneke in primo luogo, il grosso riscontro perlomeno dal punto di vista commerciale di
Quasi amici della coppia Nakache/Toledano,
Il sospetto di Vinterberg,
Shame di McQueen e l'outsider Barbara di Christian Petzold.
Concorrenza che si ripresenterà insieme ad altri rappresentanti degli altri continenti per ciò che riguarda la successiva notte degli Oscar.
Cesare deve morire è stato scelto per rappresentare i colori italici alla prossima parata di stelle di Los Angeles nella categoria del miglior film straniero. Speranze? Non molte ed in fondo, a livello personale, vado anche di scaramanzia considerato che l'Italia è ancora scottata dall'esperienza negativa di
Gomorra, Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes (ad ex aequo con
Il Divo di Sorrentino) e dopo aver fatto incetta di premi proprio agli EFA europei. Risultato: Gomorra non è entrato nemmeno nella cinquina finale creando un certo stupore, visti gli altri componenti di quella cinquina.
Con il film dei Taviani è consigliabile volare basso. Arrivare alla vittoria dell'Oscar sarebbe un risultato quasi miracoloso, fare parte della cinquina finale per aggiudicarsi la statuetta sarebbe già un successo.
Certamente con questa pellicola troverebbero pane per i loro denti (e lo era anche per Gomorra) tutti coloro che periodicamente accusano il cinema italiano di eccessivo provincialismo.
Un'accusa che in qualche caso è talmente risibile che, prendendo in esame certa stampa ed esponenti del cinema estero, ci vedono ancora al livello di pizza e mandolino.
Dell’ultima edizione del festival di Roma si può tracciare un bilancio diverso a seconda dei punti di vista: qualità dei film, scelte istituzionali, organizzazione.
Dal punto di vista della qualità dei film il bilancio è largamente positivo. Ci sono piaciute, e molto, le scelte compiute da Müller in campo artistico.
Sulle scelte politiche e commerciali (in termini di visibilità, attenzione al pubblico, scelta dei componenti delle giurie, e – non da ultimo – film premiati) molte sono state le polemiche: qui il bilancio è meno roseo.
Il terzo punto di vista riguarda l’organizzazione (scelta degli spazi, prezzi, concomitanza di eventi, gestione delle sale e del pubblico). Sotto quest’ultima prospettiva, il festival è stato insoddisfacente.
Una rassegna di qualità.
Ricorderemo la settima edizione del festival di Roma come quella in cui il concorso è diventato finalmente un concorso di primo piano. Sino al 2011 gli autori erano semi-sconosciuti, i film mediamente sotto la sufficienza: invece, la selezione ufficiale del 2012 è paragonabile a un’edizione del festival di Berlino. Persino a un’edizione di Venezia, che fosse priva di quei due-tre registi di calibro che sempre sono presenti, in concorso, sul lido (insieme però a non poche pellicole scarse). La scelta, esplicita, di Roma 2012, è stata di orientarsi prevalentemente su autori giovani e opere seconde o terze di registi emergenti di riconosciuto talento. Una scelta che ci piace, così come ci piace l’intenzione di presentare tutte anteprime internazionali, affinché il festival passi, da vetrina per prodotti già in circolo, a trampolino di lancio per opere di qualità artistica. L’auspicio è che, a partire da questa edizione, autori e case di produzione guardino a Roma come a un festival in cui l'essere selezionati sia segno di prestigio.
Valérie Donzelli e Alexey Fedorchenko: due nomi di punta del cinema europeo del momento, già passati negli ultimi due anni per Cannes e Venezia, ciascuno con un film per cui si è gridato al capolavoro (rispettivamente "
La guerra è dichiarata" e “
Silent souls”). A Roma 2012 hanno presentato “
Main dans la main”, commedia raffinata di altissimo spessore (su cui si rimanda alla
recensione), e “Spose celestiali dei Mari di pianura”. Quest’ultima è una pellicola di raro valore: dedicata a un’etnia che ha mantenuto tradizioni pre-cristiane (i Mari), e che sopravvive in Russia in una regione situata negli Urali, il film è notevole anche per la struttura, ripartita in oltre venti frammenti che costituiscono un insieme omogeneo, in forma di realismo magico (ispirato alle tradizioni di quel popolo), su femminilità e sessualità, con un occhio al Decameron di Boccaccio e uno a quello di Pasolini. Un film di fruizione difficile, ma di pregio altissimo.
Accanto a questi due talenti, tre autori con una brillante carriera alle spalle, nessuno dei quali ha deluso: Johnnie To, Jacques Doillon e Miike Takeshi.
Johnnie To continua imperterrito un cinema d’azione poliziesca geometrico e impietosamente asciutto. Il suo “Drug war” si segnala non solo per essere il primo film che parla di traffico di droga nella Cina contemporanea, ma anche per un’interessante commistione fra i codici del genere e uno spirito di denuncia che a tratti fa pensare a “
Gomorra”. E si chiude con un’esecuzione capitale: una scena forse eticamente discutibile (è a favore o contro la pena di morte?), ma assolutamente memorabile.
Jacques Doillon è un epigono della Nouvelle Vague, amatissimo in Francia anche se pressoché sconosciuto in Italia. Anche lui, con “Un enfant de toi”, resta fedelissimo al suo stile: fatto di dialoghi, recitazione
en plein air e capacità di restituire la vita colta in presa diretta. Il vino buono migliora con l’età.
Il regista di culto
Miike Takashi prosegue il suo percorso estremo, che attende ancora il riconoscimento che gli spetta per capacità di innovazione linguistica. “
Lessons of the evil” è un altissimo risultato e si colloca dalle parti di “
Audition” alle vette del suo cinema. Ed è colmo di sequenze irresistibili girate divinamente.
“The motel life”, opera prima dei fratelli Polsky e vincitore del premio del pubblico, è un film indipendente, in stile Sundance, che si regge su una strepitosa interpretazione di Stephen Dorff, su un immaginifico ricorso a intermezzi animati, e su un finale meraviglioso per intensità che non contraddice il minimalismo carveriano della pellicola. Il film è stato premiato anche per la sceneggiatura, tratta da un apprezzato romanzo di Willy Vlautin.
“A glimpse inside the mind of Charles Swan III”, opera seconda di Roman Coppola, figlio di Francis e fratello di Sofia, è molto piaciuto. Sembra la versione divertente, e francamente più riuscita, di “
Somewhere” di Sofia Coppola (che pure vinse un Leone d’oro nel 2010). Roman Coppola parla di un adolescente fuori tempo massimo, che l’abbondanza in cui è cresciuto non soddisfa più, e che una delusione d'amore spinge a un riscatto e a una vita più autentica. Coppola ha uno stile vicino a Wes Anderson, con cui ha collaborato in passato, e a tratti ricorda anche il primo Allen. Cast importante (tra gli altri, spicca il solito Bill Murray), tempi comici perfetti, ritmo e invenzioni visive. Evidentemente autobiografico e irresistibilmente autoironico, l’
alter ego del regista è il protagonista Charlie Sheen (non per caso, anche lui figlio d'arte).
Altro film di figli d’arte è “Ixjana” dei fratelli Skolimowski, forse non riuscito ma intrigante: un’ambiziosa attualizzazione del mito di Faust, con espliciti rimandi a Bulgakov, in uno stile che risente persino troppo della lezione di David Lynch.
Fin qui i film che abbiamo potuto vedere. Si è parlato un gran bene, in termini artistici, anche di “Mai morire”, opera seconda del messicano Enrique Rivero. Notevole la presenza in concorso di un costoso
kolossal storico cinese, “1942” di Feng Xiaogang, che annovera nel cast Adrien Brody e Tim Robbins. “Eterno ritorno” è un esercizio di stile – alla maniera di Raymond Queneau – di Kira Muratova, regista ucraina davvero poco nota, ma molto stimata dai pochi che hanno il privilegio di conoscerla.
“Marfa girl” di Larry Clark, premiato con il Marc’Aurelio d’oro, pare porsi in linea di assoluta coerenza con i suoi precedenti e controversi “
Kids” e “
Ken park”. Persino nel conferirgli il premio, la giuria ha voluto precisare la linearità della sua poetica, che a chi ha visto il film è parsa ostinazione o limitatezza di sguardo. Larry Clark è logorroico: ha più di qualche sassolino nella scarpa da togliersi contro Hollywood (a suon di “fuck”) e una singolare teoria sul futuro ormai esclusivamente web del cinema sulla quale siamo oltremodo scettici. Sembra piuttosto un paravento per un settantenne pieno di sé, che sinora non aveva mai avuto riconoscimenti importanti.
Abbiamo lasciato per ultimi gli italiani in concorso. “
Alì ha gli occhi azzurri” (primo lungometraggio di Claudio Giovannesi), ispirato a Pasolini e ambientato sul litorale romano, è piaciuto molto, e ha vinto ben due premi importanti: il Premio speciale della giuria e il Premio "migliore opera prima o seconda". Se ne dice un gran bene. E’ nelle sale.
Pappi Corsicato, con “Il volto di un’altra”, ennesima commedia surreale nel suo stile scombiccherato, parla stavolta di chirurgia plastica: ha riscosso pareri tiepidi, tutt’al più benevoli.
Ben altro scalpore ha suscitato l’autocompiaciuto Paolo Franchi, ennesima incarnazione della stirpe antonioniana del cinema italiano. L’autore, dopo il promettente esordio de “
La spettatrice”, aveva deluso critica e pubblico con “
Nessuna qualità agli eroi”, passato cinque anni fa in concorso al festival di Venezia. Ora torna, irredento, con un film - "E la chiamano estate" - apparso estremo nel linguaggio, nell'altezzosa osticità e nella deliberata provocatorietà di immagini e temi. Un film che, a quanto risulta, persegue sia l’intento di "trasgredire e scandalizzare" (?), sia quello di inimicarsi orgogliosamente pubblico e critica: contraddittorio? Ha vinto il Premio per la miglior regia e quello per la miglior interpretazione femminile (Isabella Ferrari). E ha scatenato un putiferio (roba da "vergogna!" urlati in mezzo ai fischi, durante la premiazione). La giuria (presieduta da Jeff Nichols, forse troppo giovane per essere autorevolmente indipendente) è stata influenzata dalla committenza (la direzione artistica)? E’ legittimo ipotizzarlo. Senz’altro, le arzigogolate motivazioni con cui i due premi sono stati assegnati sanno di giustificazione.
Excutatio non petita, accusatio manifesta.
Le scelte delle giurie sono spesso dettate da pressioni esterne: è una piaga che affligge i concorsi di ogni ordine e grado. Per Roma 2012, se non altro, gli evidenti motivi "istituzionali" dei due riconoscimenti più importanti sono stati esplicitamente rivendicati dai rispettivi autori: "Marfa girl" è anti-hollywoodiano e indipendente al 100% (sarà diffuso solo online); "E la chiamano estate" è un film prodotto "senza la televisione".
Miopia organizzativa e mancato riguardo per il pubblico.
Fuori concorso, o nelle sezioni parallele (CineMAXXI; Prospettive Italia; Alice nella città) è passato, rispetto agli anni scorsi, un numero minore di film di rilievo, e un numero davvero esiguo di film di appetibilità popolare. Poche le star all’Auditorium (tranne Sylvester Stallone protagonista del buon
action “Bullet to the head”, di Walter Hill); a parte
Placido praticamente nessun regista di richiamo per le masse.
E’ una scelta sbagliata: può andar bene in concorso, ma fuori concorso un festival che si rispetti deve avere qualche film di richiamo. E non deve limitarsi per orgoglio a film rigorosamente in anteprima. Soprattutto se si svolge in una metropoli, una capitale del cinema, con disponibilità di spazi adeguati come Roma.
Troppa austerità ha penalizzato l’immagine di un festival che veniva apprezzato, dai romani, in particolare per l’ampia proposta di incontri con autori ed attori, quest’anno drasticamente ridotta.
Incomprensibile tra l'altro la scelta del film di apertura, caduta su un'opera pure di dubbia caratura artistica: “
Aspettando il mare”, di un regista ignoto ai più e totalmente privo dell’
appeal che un film d’apertura dovrebbe possedere (vedi
recensione).
Tra i film potenzialmente interessanti delle sezioni secondarie abbiamo visto il bell’esordio di Francesco Amato con “Cosimo e Nicole”, che ha vinto la sezione Prospettive Italia, e “Il regno delle Carte”, trasposizione di un’opera teatrale di Tagore, del videoartista indiano Q. Occorre denunciare i preconcetti per cui film che parlano un linguaggio originale e innovativo, come il film indiano, debbano essere in qualche modo ghettizzati entro i limiti di una rassegna che furbescamente allude, nel nome, al cinema d'arte del XXI secolo (la sezione CineMAXXI è frutto di collaborazione fra Cinema per Roma e il MAXXI, museo romano delle "arti del XXI secolo"), e tenuti lontano dai riflettori proprio in una rassegna così attenta alla qualità artistica. I preconcetti purtroppo condizionano la percezione di ciò che è all’avanguardia, limitano la libertà di linguaggio, e orientano le “tendenze” in modo da renderne ardua la spontaneità.
Da CineMAXXI meritano una menzione anche opere sperimentali di metalinguaggio, firmate da autori come Mike Figgis (“Suspension of disbelief”) e Paul Verhoeven (“Steekspel”).
Segnaliamo la presenza (sempre in CinemaXXI...) del grande Peter Greenaway con il suo ultimo lavoro (“Goltzius and the pelican company”), dell’ultracentenario De Oliveira, presente con due corti in opere collettive (“Centro Historico” e “Mundo invisivel”, entrambe interessanti), e dell’affermata Marjane Satrapi con la divertente commedia nera “
La bande de Jotas”.
A riguardo, va denunciata la scelta, delirante – miope anche dal punto di vista commerciale – di confinare in sale assolutamente secondarie le pellicole di Greenaway e della Satrapi (entrambe di grande richiamo, per i cinefili, che sono molti più di quanti si creda): con il risultato di creare scomodissimi “tutto esaurito” e grande scontento da parte degli accreditati, rimasti esclusi dalle proiezioni perché i biglietti erano stati venduti venendo vergognosamente meno al rispetto della garanzia – assicurata su programmi e regolamenti – di un numero di posti riservati agli accreditati in tutte le proiezioni.
E, ciò, mentre pellicole evidentemente “raccomandate” andavano disertate in sale grandi come la Sinopoli (è il caso di “Photo”, pur non disprezzabile, di un esordiente portoghese)!
Incondivisibile la scelta, dettata da presumibili ragioni di bilancio, di escludere dagli spazi dedicati al festival la sala più nobile e grande dell’Auditorium, la Santa Cecilia.
Scandalosa la scelta di alzare i prezzi delle proiezioni serali a 25 e 30 euro, laddove sino allo scorso anno le proiezioni più care erano quelle della Santa Cecilia, i cui 23 euro sembravano già una cifra improponibile.
In conclusione, mentre andiamo fieri della qualità artistica del concorso, come si accennava in apertura dal punto di vista dell’attenzione al pubblico e delle scelte organizzative, il festival di Roma del 2012 merita invece una sonora bocciatura.
Pubblicato il 19/11/2012 08:48:31 da
peuceziaUomini e donne di tutte le tendenze concorderanno: questo giovane uomo (ormai quarantenne) è stato scelto dagli dei.
Alto quanto basta, occhio ceruleo, sorriso incantatore da bravo ragazzo, fisico asciutto e scolpito dal nuoto praticato in giovanile età. Il cinema lo scelse con il buon Vanzina, gran scopritore di "talenti" ed egli debuttò interpretando se stesso ovvero un ragazzo bellissimo ma ahimé assai povero nell'ars recitandi.
Egli però coraggioso e prode volle rimanere in quel dorato mondo interpretando ruoli di ogni tipo.
La Piovra della televisione lo ghermì con i suoi tentacoli facendolo diventare poliziotto e mafioso, carabiniere indomito e santo e infine lo fece tornare alle sue origini facendolo tuffare nelle azzurre acque.
Anche Avati lo volle prode cavaliero ed egli non esitò di farsi brutto come le migliori stars americane. Anche Hollywood lo chiamò ma dopo averlo saggiato lo rispedì agli italici suoli come del resto fece con tutti i nostri più talentuosi quindi la cosa non è di onta per ello.
Alle soglie degli anta Moccia lo volle innamorato di una giovin fanciulla e alfin di lei lo sposo... involontariamente il nostro buon Federico scoprì in Raoul una dote per la commedia e da allora egli molte ne ha interpretate sempre nel ruolo di se stesso, ma malgrado ogni cosa stuoli di donzelle d'ogn'etade furon sempre pronte a strapparsi le vesti a ogni sua comparsa e a decretarne la fama sbavando di invidia verso ogni sua partner filmica più che verso la di lui legittima consorte.
Oggetto del desiderio di donne in carriera, immaturo a Roma o in viaggio, spasimante della escort per debiti Cortellesi e figliolo onesto del politico folle Placido il suo nome è garanzia di successo.
Perché καλός καιρός, ciò che è bello è sempre buono.
Pubblicato il 16/11/2012 08:36:39 da
foxycleo
Mercoledi' 14 Novembre 2012 ore 16:00 apertura di un multisala qualsiasi in una qualsivoglia citta' italiana. Una giornata qualunque nella vita di un cittadino qualunque, ma non in quella di chi all'interno del multisala lavora. Ore 16:30 un rumoreggiare sempre piu' fitto inizia ad arrivare dal piano terra a tutti i piani della struttura e dentro il petto di ogni dipendente il cuore inizia a battere piu' forte e il pensiero comune e': "sono arrivati". Invece l'attimo e' posticipato, solamente un nutrito gruppo di ragazzini si sta accingendo a vedere
Hotel Transylvania. Ore 17:00 il panico prende il sopravvento, dalle telecamere di sicurezza si vedono i parcheggi riempirsi, le cassiere iniziano a sudare freddo, le bariste sembrano doversi preparare ad un incontro di lotta libera, le maschere si muovono in maniera nervosa nell'atrio e perfino le due tranquille dipendenti della libreria accennano a qualche sprazzo di vita. Arrivano; ragazzi universitari, liceali e non che hanno prenotato da giorni per vedere il tanto atteso
Twilight Saga: Breaking Dawn-Parte2. Il rumore di voci indistinte copre la musica di sottofondo, i biglietti sono stampati alla velocita' della luce, qualche panino, qualche bibita, molti pop corn e tante caramelle e arrivano le 17:40 tutti in sala, silenzio nel cinema. Ore 18:00 un'ondata ancor piu' nutrita sempre di ragazzi piuttosto giovani e di donne di diversa eta' piomba all'interno delle porte scorrevoli e come un virus si propaga per tutti i piani della struttura. Il ritmo di lavoro si velocizza e le prime gocce di sudore imperlano le fronti di alcuni dipendenti. Finalmente le 18:30 tutti in sala. Ore 20:00 la stanchezza inizia a farsi sentire e si rende palese sui volti, ma non e' il momento di desistere. Tre sale, tre proiezioni ore 20:30 tutte esaurite. La gente si e' impossessata del cinema, sembra un gruppo di lupi affamati che si scaglia su buffet, aperitivi, pizze, patatine e caramelle come se non ci fosse un domani. Una volta entrati in sala i segni della devastazione sono evidenti: bicchieri, bottiglie, cartacce, cibo di ogni tipo, chiavi di automobili, sciarpe, giacche, libri sparsi su ogni pavimento e tavolino. Si inizia la ricostruzione, prima a ritmo lento a causa dell'appena giunta stanchezza poi sempre piu' sostenuto, perche' le 22 si avvicinano. Ore 22:00 la voglia di sedersi e' incontenibile, quella di scappare maggiore, ma i nostri eroi resistono ancora e cercano di arginare il nuovo fiume di persone che si riversa per lo spettacolo delle 22:30. Ci saranno vittime ma anche queste sale entreranno a vedere il tanto atteso epilogo del fantasy vampiresco piu' noto nel mondo. Ore 23, si pensava ormai a una giustificabile calma, e' mercoledi' mica sabato sera e invece no, a causa dei numerosi fan e delle loro richieste di vedere il film proprio il giorno di uscita arriva il tanto temuto spettacolo di mezzanotte. Parole poco gentili e spesso pittoresche escono dalla bocca dei dipendenti costretti a turni piu' lunghi. Anche i sorrisi di cortesia si spengono sui loro volti, sui visi di quelli che si erano ricordati di sorridere o che lavorano da veramente poco tempo per potersi permettere di non sorridere. Ore 2:00 fine delle proiezioni, uscita dalle sale e finalmente a casa. Cosa succedera' sabato? Ci saranno vittime? Chi avra' la meglio? E il Natale e' ancora lontano...
Nicholas Tudor si guarda allo specchio. Il suo volto è paralizzato, il sudore bagna la sua fronte, l'orrore urla imprigionato dentro ai suoi occhi. La telecamera si abbassa e mostra il suo addome. Escrescenze si muovono sulla pelle, la disperazione si è fatta carne: maternità viscerale che cova nel corpo di un uomo.
Max Renn gestisce un'emittente televisiva, dà in pasto alla gente una realtà di plastica, la sua merce è l'immagine. Lui stesso diventerà vittima delle proprie illusioni, allucinazioni come ultimo appiglio alla realtà: “Gloria e vita alla nuova carne!”.
Seth Brundle ha superato i limiti della scienza, la sua condanna è la metamorfosi. Sperimenta una fusione molecolare-genetica con una mosca, insetto extraterrestre: peli ispidi sulla schiena, forza sovrumana, voracità sessuale, bisogno incontrollabile di morire.
Claire Niveau morde il feticcio di carne che tiene uniti due gemelli, ne strappa gli organi, i muscoli, i tessuti cellulari. Sangue di fratelli che diventa lacrima: inseparabili dalla nascita, soli nella morte. Cinema implosivo che indaga l'interno del corpo.
James Ballard si fonde con la meccanica della sua automobile. Metamorfosi compulsiva: la leva del cambio si accorpa ai tendini del braccio destro, il volante si avvinghia ai legamenti del braccio sinistro. Le sue gambe fungono da catalizzatore del proprio destino: quando vivere/accelerare o quando morire/frenare. Parola onomatopeica dello schianto: Crashhhhh!
Con il passare del tempo le immagini viste in un film si fanno sempre più confuse nella nostra mente. Inevitabilmente però piccoli ricordi rimangono vivi nel nostro immaginario, come una panoramica sfuocata o un frame perpetuo ricco di particolari più o meno significativi. Il cervello difficilmente abbandona le sensazioni che ci hanno scosso nell'inconscio, anche se queste hanno agito per un brevissimo lasso di tempo. Il cinema di
David Cronenberg vive di queste sensazioni: guardare una sua pellicola significa portarsi dietro per sempre un tassello del suo pensiero, un respiro della sua arte, una breve sequenza del suo cinema. Egli mescola finzione e realtà senza possibilità di distinzione, ci insinua il sospetto ma non ce lo rivela, fa dell'illusione la disillusione e viceversa. È stilisticamente distante da cineasti come
Fellini,
Lynch,
Buñuel o
Bergman: non mostra immagini oniriche ma vive nell'onirismo e nel surreale. Crea film con intrecci lineari in un montaggio fluido e invisibile che consacra la fiducia dello spettatore in ciò che vede. Distrugge l'organismo contaminato dell'illusione del cinema fondendo la realtà e mostrandola nel video.
Nato a Toronto il 15 marzo del 1943 in una famiglia ebrea, Cronenberg viene ispirato e influenzato sin dai primi studi da geni della letteratura e del teatro quali Burroghs, Nabokov, Henry Miller e Beckett. Laureatosi in letteratura inglese inizia a girare i primi corti e mediometraggi spinto dalla estrema efficacia dello strumento cinematografico. I suoi primi lavori già sottolineano il tema centrale che accompagnerà poi tutti i suoi film futuri. In “
Stereo” (1969) e “
Crimes of the future” (1970) la mente umana razionale viene spiata dallo sguardo animale con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni. Lo sguardo di Cronenberg si concentra sull'uomo, ma soprattutto sul tema centrale già citato poche righe addietro ma non ancora rivelato: il corpo.
“
Per me, all'inizio c'è il corpo. È ciò che siamo, ciò che abbiamo. Siamo tutti come degli attori che si agitano sulla scena della vita e la prima cosa che abbiamo sono i nostri corpi fisici, la nostra esistenza fisica. Nei miei film il corpo è sempre al centro. Gli giro attorno come fa un pianeta col sole, non me ne allontano mai. E se ciò accade, più me ne allontano, meno mi sento sicuro di me. Come se diminuisse la gravità.”
I cinema d'essai canadesi rifiutano di proiettare i primi film del regista perché in bianco e nero, privi di dialoghi e senza suono in presa diretta, così Cronenberg si vede costretto a conformare il suo stile. Il suo primo film commerciale si intitola “
Shivers” (da noi tradotto come “Il demone sotto la pelle”), pellicola che nel 1975 gli porterà finalmente la popolarità. Esso è ambientato in un condominio dove uno strano virus si diffonde fra i suoi abitanti sino a scatenare l'anarchia totale. Non si tratta di uno dei soliti film sul contagio, ma di una profonda riflessione sulla repressione degli istinti umani. Conosciuto ormai anche negli Stati Uniti (paese che detesta, non ha mai girato una sola scena sul suolo americano) , Cronenberg con i suoi film seguenti diventa il rappresentante del body horror (da “
The Brood” a “
Scanners”, passando per “Rabid”) fino a girare il suo film ad oggi più importante e baluardo di un'epoca che ancora deve finire: “
Videodrome” (1983). L'idea del film nasce dall'interesse che Cronenberg nutriva nei confronti di coloro che “si chiudono soli in casa per guardare videocassette porno” (sue testuali parole) ed è un saggio teorico sul mondo dei mass-media e sull'ambigua fascinazione e repulsione che l'occhio umano prova di fronte ai propri sogni e ai propri incubi. Angosce e allucinazioni del protagonista del film sono proprie di quella magnifica letteratura iniziata da Burroghs e Kafka, grandi ispiratori e maestri di vita del regista.
Ginecologo dell'incubo e dell'orrore, ostetrico della mutazione visiva, Cronenberg, dopo il suo film simbolo, gira su commissione il suo prodotto più commerciale, “
La zona morta” (1983), senza però abbandonare il suo status di autore. Diventato ormai famoso in tutto il mondo, si dedica al remake di un datato film hollywoodiano con protagonista il mitico
Vincent Price, “
L'esperimento del dottor K.” (1958), stravolgendone la trama a favore di una maggiore introspezione del protagonista e di una mutazione splatter visivamente disturbante. Nel film Seth Brundle costruisce una macchina del teletrasporto composta da due capsule. Egli, provandola, incrocerà erroneamente il suo codice genetico con quello di una mosca ed inizierà una lenta mutazione in un insetto gigante. Esso prende il titolo di “
The fly” (1986) ed è un'amara meditazione sul destino che obbliga i corpi all'immobilità per non perdere la reciproca attrazione che li unisce.
Diventato il suo più celebre film di cassetta, dopo “La mosca” Cronenberg realizza l'opera che segna una svolta importante nel suo stile: “
Inseparabili” (1988). Il film racconta il rapporto malato e ossessivo di due gemelli ginecologi messo a rischio dall'incontro con una donna dall'utero triforcuto (ennesima alterazione, questa volta invisibile). Per la prima volta le mutazioni esposte da Cronenberg diventano interne, delle viscere, degli organi: scompaiono le scene forti e disturbanti e i personaggi manifestano il metaforico bisogno di rivoltarsi la pelle per mostrare la totale bellezza del corpo umano. Il regista canadese si spinge oltre al corpo, diventato irrappresentabile proprio per il volerne mostrare l'interno, e penetra nella mente dei suoi protagonisti. Mette in scena l'orrore del guardarsi dentro.
Agli inizi degli anni novanta Cronenberg realizza il suo progetto più importante, la traduzione cinematografica delle opere e della vita di William Burroghs, suo scrittore di riferimento nonché caro amico, dandogli il titolo di uno dei suoi libri più famosi: “
Il pasto nudo”. Rimanendo in ambito letterario egli poi gira “
Crash”, film basato sul libro omonimo di James G. Ballard, il primo romanzo pornografico eretto sulla tecnologia. Cinematograficamente è una rivoluzione: il film presenta le azioni dei suoi protagonisti per accumulo, senza una vera e propria trama di fondo, utilizzando la stessa struttura ossessiva e ripetitiva del porno. L'opera è una lucida riflessione sull'uomo e sulle sue mutazioni psicofisiche indotte da un sempre più stretto rapporto con le tecnologie, in questo caso le automobili.
“
Abbiamo ormai incorporato l'automobile nella nostra comprensione del tempo, dello spazio, della distanza e della sessualità. Voler immergersi in tutto ciò in modo letteralmente fisico mi pare una buona metafora. C'è un desiderio di fondersi con la tecnologia.”
L'ultima metamorfosi della filmografia cronenberghiana, sviluppatasi negli ultimi vent'anni, ha reso il suo stile narrativo più fluido e la sua poetica più incisiva. È nato così “
A history of violence” (2005), uno dei film più affascinanti del cinema moderno. Esso è un'efferata critica alla società, costruita sulla volubilità dei valori familiari e sulla perdita dell'identità.
In più di quarant'anni di carriera David Cronenberg è riuscito a trattare una serie innumerevole di temi, che ritornano ciclicamente in ogni suo film, come se fossero crimini del futuro: l'origine e la nascita, le paure e i desideri dell'infanzia, il corpo, la sessualità e la sessuologia, la mente con le sue allucinazioni e illusioni, la malformazione, la morte.
Il suo cinema è freddo e medico, ironico e crudele; esso però non evita di sedurci e ammaliarci: bisogna lasciarsi andare, come raramente avviene durante uno spettacolo cinematografico, alla allucinazione e alla finzione, e con esse tradurre in problema vero tutto ciò che il cinema presenta come reale.
E con il suo ultimo film, "
Cosmopolis" (tratto da un racconto di De Lillo), Cronenberg aggiorna e approfondisce la sua intera filmografia, riuscendo a trattare i temi a lui più cari in maniera forse definitiva. Dopo non ci sarà più nulla, solo malattia e morte.
(Il pezzo è presente anche sul sito
Il Bufalo.it)