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Oltre il muro: Queer Lion 2013 a Venezia

Pubblicato il 19/09/2013 12:30:15 da kowalsky
La cosa migliore della 70esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia 2013 è stata un accentuato ritorno del tema dell'omosessualità, imploso in tutti i suoi aspetti, anche i meno rassicuranti, ma che almeno non è stato preceduto da scandali annunciati veri e presunti. In pratica per la prima volta si è parlato soprattutto della qualità vera o presunta dei film, senza lasciarsi adescare dal morboso riferimento sessuale (cfr. a differenza del "caso" di Brokeback Mountain di Ang Lee, che, dopotutto, è un opera piuttosto conformista). I clamori attorno a "Gerontophilia” di Bruce LaBruce sono stati smentiti quasi subito da un film che, raccontando l'attrazione fisica di un ragazzo per gli uomini anziani, si è rivelato un'opera commovente e poetica sul bisogno impellente di un contatto affettivo.
I film, ormai, non hanno più bisogno di etichette generiche e ottuse per farsi conoscere, anzi tutto questo ha limitato negli anni la visione di opere qualitativamente molto interessanti, relegate a una
tipologia di spettatori e a un certo tipo di critica. Lo dimostra il fatto che il Queer Lion Award, giunto alla sua settima edizione, ha conferito il premio a un film tutto sommato lontano da certi rigori tematici, "Philomena” di Stephen Frears, che è stato di gran lunga il più apprezzato dalla critica e dagli spettatori fra tutti i film in concorso alla Mostra. Sono i nuovi venti che cambiano, perché premiano un'opera che non ha alcuna intenzione di incasellarsi in un dogma (omo)sessuale come accade a molte altre opere presenti alla mostra.



Torniamo volentieri a ricordare un film seminale come Notti selvagge (1992) di Cyril Collard, che evidentemente un percorso l'ha tracciato. Ma nel caso di “Philomena”, il discorso è diverso: si tratta di un magnifico film classico su una donna anziana che cerca da quasi cinquant'anni il figlio, affidato da alcune malefiche suore a una famiglia americana. La donna si incammina alla ricerca dell'uomo, in compagnia di un polemico giornalista, fino a scoprire la sua escalation politica, ma anche la sua malattia (l'Aids) e la morte prematura. Il punto di forza del film sta tutto nella figura forte e insieme fragile di questa donna, che attutisce il dolore nei ricordi, ma che non ha alcun timore a disconoscere l'omosessualità del figlio come elemento "disturbante" della sua vita. Al contrario, l'importante è che l'uomo che non ha potuto vedere crescere sia stato felice, abbia raggiunto i suoi obiettivi, abbia fatto (guarda caso) le scelte giuste per la sua vita affettiva e professionale.
In questo senso sì, “Philomena” è una lezione di vita per molti, essendo poi una variabile umana del melodramma à la Douglas Sirk, e nei suoi occhi proviamo pena per lei.
Ma allora, per quale ragione si ricorre al solito e anacronistico escamotage dell'Aids, come se fosse necessario essere gay per ammalarsi? Mentre il film suggerisce una nuova lezione morale, al tempo stesso rischia di affossarla con uno stereotipo vecchio di 25 anni...

Il rigore stilistico in cui si muovono altri cineasti che affrontano lo stesso tema non è così evidente, ed è forse la ragione che ha visto molta gente apprezzare opere come “Tom a la ferme” di Xavier Dolan, l'atteso “Kill your darlings” di John Krokidas, “L'armee du salut” di Abdellah
Taia, e “Eastern Boys” di Robin Campillo (premiato nella sezione Orizzonti) per differenti ragioni. Il primo può essere tranquillamente indicato come un post-noir da atmosfere thriller, il film sulla formazione culturale ed esistenziale di Allen Ginsberg, un biopic eccentrico ma non troppo, mentre il francese Campillo sembra voler percorrere le stesse strade del cinema sociale di Ken Loach. L'unico del lotto che probabilmente possiede una sua identità precisa, forse poco estetizzante, è il bel film franco-arabo sulle avventure sentimentali di un adolescente marocchino e sulla sua complicata storia d'amore con un ricco svizzero (ma già l'epilogo finale a Ginevra sembra uscito dalla penna di Micheal Winterbotton). E' un film che a tratti ricorda il miglior Fassbinder, anche se complessivamente non manca una certa freddezza espositiva. E' comunque il film più idoneo a rientrare nel settarismo delle etichette di cui si parlava prima. "Tom a le ferme" è formalmente il film in cui i gay si riconosco maggiormente, forse essendo lo script l'antitesi realista della vicenda di “Philomena”. Qui abbiamo un ragazzo che parte per andare ai funerali del suo compagno, morto in un incidente stradale, e viene accolto da una madre ignara dell'identità sua e del figlio scomparso, e da un inquietante, attraente fratello che coercizza il ragazzo facendolo assecondare ai suoi veti. Di fatto sembrerebbe la storia di un morboso rapporto a due, o
semplicemente il racconto articolato di un'omosessualità repressa, ma Dolan è bravo a filtrare nello spettatore lo sgomento per la vita di segreti e bugie, per dirla alla Leigh, dell'uomo scomparso. Anche qui abbiamo davanti una grande figura materna, ma a differenza della Philomena di Judi Dench abbiamo una madre totalmente ignara di troppe cose, costretta a doversi sentire lusingata dal conoscere la falsa fidanzata "riparatrice" del compianto figlio. Se poi “Kill your darlings” esibisce soprattutto una galleria memorabile di intellettuali d'epoca, “Eastern Boys” è il classico film fatto per dividere. Ha una parte centrale convincente (tutta la sequenza del furto nell'appartamento è da manuale) ma finisce per sfilacciarsi in troppe direzioni. E così il tema piuttosto scabroso del cliente di minorenni che si improvvisa in seguito figura paterna rischia di essere analizzato in superficie. Il film certo ha dalla sua coraggio e vitalità, ma montaggio e sceneggiatura non gli rendono affatto giustizia.



E poi vanno ricordati altri film, come “Via Castellana Bandiera” di Emma Dante, o “Piccola Patria” di Alessandro Rossetto, due film italiani che affrontano l'amore saffico. E se vogliamo uscire dalla pruderie, l'orgia saffica e omoerotica di “The canyons” di Paul Schrader, più noiosa di un vero film hardcore, anche se l'attore principale è, per l'appunto, uno dei più celebrati attori porno americani.

E invece l'immagine emotivamente più lirica e struggente del cinema "oltre gli steccati" è l'amore impossibile tra due donne nello splendido "Les terrassee" di Merzak Allouache, o dell'impossibilità di poter esibire l'amore "oltre" lo sguardo" sullo sfondo di un Algeri più fortezza che vera città.

E per una volta i moralisti non hanno avuto modo di discutere eventuali teorie o allergie alle cosiddette omo o lesbo-visioni. Anche utilizzando questi aggettivi, del resto, si finisce sempre per fare il gioco di quanti si aspettano di esprimere il loro delirante dissenso. Unica scelta labile, saper accettare il classicismo di “Philomena” come nuova e definitiva rivelazione sociale, in grado di liberare in qualche generazione lo strano disagio che c'è in noi. Ma è un'occasione per non lasciarsi plasmare dalla "diversità", tantomeno come codice visivo e formale di un cinema che si fa beffe della sua altezzosa trasgressione"

Categorie: Festival Venezia

Commenti: 4, ultimo il 23/09/2013 alle 13.20.08 - Inserisci un commento

Cha cha cha

Pubblicato il 11/09/2013 12:48:44 da BarbieXanax
L'ultimo film di Marco Risi ha suscitato reazioni contrastanti, a me è piaciuto, ma se la pensate diversamente fatemi sapere. Mi piace confrontarmi con nuovi punti di vista.

Buona visione.

Categorie: Cinema approfondimenti

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Glory to the Old "New Hollywood"

Pubblicato il 03/09/2013 11:03:02 da The Gaunt
Il Leone d'oro alla carriera quest'anno è stato assegnato a William Friedkin, uno degli esponenti di punta della cosidetta New Hollywood degli anni settanta che aveva come altre punte di diamante autori come Coppola, Hopper, Scorsese, De Palma, Lucas e Spielberg, cioè il fior fiore degli autori americani formatosi tra la factory di Roger Corman e la gavetta televisiva. Autori che hanno avuto la capacità di imporsi all'interno delle majors hollywoodiane, cercando di ottenere, riuscendoci, malgrado gli alti e bassi della loro carriera, uno status di autore indiscusso.



William Friedkin è un regista che si è formato nel campo dei documentari, cifra molto riconoscibile nei suoi lavori. Ha ottenuto molto agli inizi della sua carriera attraverso un percorso che ha bruciato letteralmente le tappe fino all'Oscar di "The French Connection" (Il braccio violento della legge) nel 1971, dando vigore e una spinta propulsiva fortissima per tutto il genere poliziesco, sia a livello cinematografico che a livello televisivo. Un genere, quello poliziesco, che grazie proprio a questa pellicola ha visto conoscere uno dei suoi migliori decenni in assoluto per qualità e quantità di film.
Certamente senza questo film i filoni polizieschi e poliziotteschi italiani forse non sarebbero nemmeno esistiti.



Cosa dire poi dell'horror? L'importanza de L'esorcista è innegabile.
Sull'industria hollywoodiana si può dire tutto ed il contrario di tutto, ma va dato atto che quando sentono odore di soldi, le majors diventano molto sensibili e osservare come piccole pellicole a basso costo come La notte dei morti viventi, Non aprite quella porta o L'ultima casa a sinistra, tanto per fare degli esempi, ottenevano incassi stupefacenti, si è agito di conseguenza e "L'esorcista" è stata la pellicola che ha sdoganato defintivamente il genere horror, confinato fino a quel momento nel panorama indipendente, per sbarcare in pompa magna nella serie A dell'industria cinematografica.



Un regista di successo fino a quel momento, forse il più in ascesa dopo Francis Ford Coppola se consideriamo quel decennio. Poi venne "Sorcerer", Il salario della paura e per Friedkin cambiò tutto, come una punizione per quell'ascesa da molti considerata irresistibile e prematura.
Non è stato un caso la scelta de "Il salario della paura" come pellicola per celebrare il premio al regista americano. Più volte Friedkin ha ribadito il profondo legame affettivo verso questo suo film così sfortunato. Uno spartiacque che purtroppo ha costituito un declino altrettanto irreversibile come la sua ascesa. Intendiamoci, un declino puramente commerciale perché la qualità di molte sue pellicole successive raggiunge livelli straordinari.
Lavori controversi e maledetti come Cruising, le nuove frontiere del poliziesco nel capolavoro Vivere e morire a Los Angeles, lavori letteralmente ripensati (la duplice versione di Rampage), pellicole sottovalutate come Regole d'onore e di estrazione teatrale (Bug e Killer Joe), rappresentano il curriculum di un autore dalla classe cristallina che ha lasciato la sua impronta anche nella sfortuna, come appunto con "Il salario della paura", che ha usufruito nell'occasione della Mostra di Venezia di un ottimo restauro che ha potenziato a livelli straordinari il comparto sonoro. Gli applausi sinceri di fine proiezione ha leggermente emozionato Friedkin, probabilmente il giusto riconoscimento ad un'opera così bistrattata.



Sembra inspiegabile ai giorni nostri come un film del genere sia stato un fallimento commerciale. Il remake di "Vite vendute" di Clouzot riesce ad essere all'altezza di quel capolavoro, senza tuttavia superarlo.
E' improntato verso una rappresentazione realistica che regala squallore, degrado e azione. Basti pensare alla traversata sul ponte di corde sospeso, con maltempo e camion carichi di nitroglicerina, su come si può costruire una scena carica di tensione.
Realismo si è detto, ma anche squarci visionari quasi lunari e irreali nell'ultima tappa del viaggio di Scanlon/Scheider che la colonna sonora dei Tangerine Dream valorizza in maniera straordinaria.
Scanlon, ultimo sopravvissuto di quattro uomini, il laido Rabal, la fisicità di Amidou e il pragmatismo di Cremer. Quattro uomini dal Destino già segnato, quattro uomini già morti prima di morire.
Probabilmente la mancanza di una vera e propria star (al posto di Scheider ci doveva essere Steve McQueen) è la ragione più plausibile del fallimento del film e allo stesso tempo ha segnato in negativo il prosieguo della carriera di Friedkin.

Piccola nota a margine: la scorsa edizione della mostra fu proiettato nell'ambito del Leone d'oro alla carriera a Francesco Rosi, Il caso Mattei. A distanza di un anno questo film è uscito in dvd? Ma neanche a pensarci, ed è un film italiano...
Anche Il salario della paura non è mai apparsi sugli scaffali di vendita in dvd o blu-ray. Solo i pochi fortunati che hanno visto il film alla Mostra avranno avuto il privilegio di vederlo? In teoria se un film italiano dal nome blasonato come "Il Caso Mattei" ha avuto un destino simile, figuriamoci per una pellicola straniera.

Mi raccomando, ricordatevi che la pirateria è un reato.

Commenti: 3, ultimo il 05/09/2013 alle 22.07.33 - Inserisci un commento

Serie Web Johnny

Pubblicato il 30/08/2013 10:57:07 da Giordano Biagio
Johnny

Serie Web TV in 5 episodi, primo episodio Un Amico 1 settembre 2013 su You Tube Ore 18
(Ogni episodio dura circa 25 minuti ciascuno, ed è di genere thriller-poliziesco)




A Produrre la serie sono la GRAGE PICTURES ed INDIEWORKS
Il Cast Principale è composto da: MICHELE FRIULI (nel ruolo di Daniele Cortesi), ROBERTO D'ANTONA (Johnny), GIANLUCA BUSCO (l'ispettore Marino), MIRKO D'ANTONA (il sovrintendente Navolio), ALESSIA CARDEA (che interpreta Sonia Deodori), DEBORA MUSCOSO (l'agente Ambra), GIONATA RUSSO (il Dr. Edoardo Falieri)
Regia: ROBERTO D'ANTONA
Storia: ROBERTO D'ANTONA
Sceneggiatura: EROS D'ANTONA
Montaggio e Fotografia: ROBERTO D'ANTONA.
La colonna sonora è stata composta da ANDREA PINNA e le altre musiche da OLSI BABA.

Recensione di Biagio Giordano





Dopo il divertentissimo horror A.Z.A.S. All Zombies are Stupid, Roberto D’Antona, ventunenne regista emergente italiano, già autore di due lungometraggi filmici di buona costruzione letteraria intessuti qua e là da un'iconografia sopra le righe come "Dylan Dog: Il trillo del diavolo"(2012) e "Dylan Dog: L’inizio"(2011), torna sul web con la Grage Pictures e la Indieworks in una avvincente serie thriller-poliziesca di 5 episodi dal titolo: "Johnny".



La nuova sequenza web brilla in ciascuna sua fase scenica di originalità, ed è molto curata in ogni particolare a tal punto da sorprendere e risvegliare piacevolmente i sensi più atrofizzati grazie all’alto livello compositivo raggiunto dal film. Hitchcock avrebbe detto: “E’ come entrare in un grande Luna Park depressi e uscirne rivitalizzati”.
Il film lascia stupefatti per l’estro fotografico, le interpretazioni creative in stile nuovo, la regia innovativa, e il lavoro di gruppo più di supporto al film che si immagina, dai risultati raggiunti, sia stato ben omogeneo, ricco di energie e determinazione, decisivo nel perfezionamento di quell’effetto estetico d’insieme di questa opera thriller che porta a soddisfacimento nello spettatore le pulsioni più enigmatiche, ambigue, voyeuristiche o proibite.
Johnny racconta alcune vicende di Daniele Cortesi (un Michele Friuli ben calato nella parte), uomo comune, dalle apparenze fisiche gracili, falso timido, severo impiegato di banca, separato dalla moglie con qualche strascico penoso. Daniele è una persona elegante che tra le donne non passa inosservato: ha una certa raffinatezza nei modi di fare e un’aria inoffensiva che sollecita nel gentil sesso quella parte dell’istinto materno più prossima all’erotismo.
La sua esistenza viene messa a soqquadro, all’improvviso, da un evento brutale: l’omicidio della sua amante convivente, Sonia Deodori (Alessia Cardea), trovata insanguinata ed esanime sul pavimento del suo appartamento al ritorno da alcune compere.
Dopo gli opportuni rilevamenti della scientifica, Daniele Cortesi risulterà il principale indagato.
Lo stress a cui viene sottoposto Daniele, che rimane al centro di una difficile e nervosa situazione investigativa, lo indurrà a frequentare uno psicologo esperto di psicologia criminale, dalle cui sedute trarrà giovamento ma anche nuove pressanti sollecitazioni a capire il senso delle più recenti relazioni in cui si trova prigioniero.



Johnny non deve trarre in inganno, non è un vero e proprio sceneggiato televisivo, uno dei tanti che transita provvisoriamente sul web in attesa di tempi migliori, magari rispettando nella sua struttura costitutiva tipi di meccanismi narrativi standard,    semplificati al massimo, spesso già intuibili dallo spettatore prima che si succedano perché abituali.   Johnny non fa parte di quei sceneggiati dagli ingredienti già ben collaudati, fotocopie rassicuranti nei modi narrativi per quei produttori che non vogliono correre grossi rischi nell’investimento.
Johnny è senza ombra di dubbio un’opera di un certo spessore artistico e di una originale struttura narrativa. Riesce a riassumere, senza calare mai di tono, una pluralità di codici visivi e meccanismi letterari inediti che possono confrontarsi, per effetti di coinvolgimento, con il cinema di qualità thriller di grande successo: quello intriso di drammatizzazioni a sfondo culturale.
Non mancano infatti le scene di inseguimento armato splendidamente riprese in modo inedito da angolazione diverse con visioni di sguardi di primi piani eccellenti; i magici bagliori emessi dalle immagini erotiche rappresentate con molto pudore che ammiccano lo spettatore al momento giusto senza offenderlo; l’impossibilità per chi segue il film di ipotizzare qualcosa del finale almeno fino ai tre quarti dello scorrere del racconto, l’eccezionale espressione comunicativa della macchina da presa che si sofferma sul sociale-reale in modo sensibile non neutrale suscitando nello spettatore improvvise e brevi meditazioni culturali.
Inoltre da sottolineare le parti biografiche, affettive, private, delle vicende nei personaggi in gioco, ben abbozzate che rafforzano aspetti identificativi e proiettivi dello spettatore su quanto accade di umano nella storia accelerando il suo investimento psichico sulle scene fino al punto di dimenticare di esserne fuori, in poltrona, in una comune serata.
E per finire i contrasti vitalizzanti tra attivo e passivo nelle varie situazioni di relazioni sociali nel film, le opposizioni tra i caratteri dei personaggi e i loro ruoli di lavoro non proprio del tutto adeguati, gli equivoci tra bene apparente e male fittizio che si sciolgono via via che il racconto procede, il maschilismo manesco rappresentato con raro acume psicologico.
Roberto D’Antona, avvalendosi anche di un’ottima sceneggiatura che fa da guida in modo aperto alle sue doti di ripresa, combina tutti questi elementi con grande abilità riuscendo a dare un plus di accelerazione in crescendo alle tensioni previste nel racconto scritto. Lo fa con le numerose invenzioni nei modi fare ripresa, con una fotografia ricercata dove la metonimia di alcune immagini in scene chiave ben contribuisce insieme al crescendo recitativo a sfondo teatrale degli attori a creare un ritmo particolare, difficilissimo da raggiungere nel cinema thriller, che corre verso l’apice della drammaticità prevista dalla sceneggiatura esplodendo infine di emozioni.
Una metonimia che alimenta al meglio il doppio senso che l’immagine per sua natura stessa polisemica (a più sensi) favorisce.




Da questi motivi filmici un po’ più articolati si comprende quindi come sia impossibile a questa serie web, che speriamo possa comparire presto anche nelle principali TV nazionali perché ne è assolutamente idonea, dare l’etichetta di telefilm o sceneggiato TV.
L’opera di Roberto D’Antona è efficacemente racchiusa fotograficamente in quella dimensione spazio-tempo tipica dei grandi film, nota per come è grado di evocare al meglio, visivamente, le dimensioni estetiche della realtà di tutti i giorni moltiplicandone gli effetti, dando cioè complementarietà all’occhio umano che vede nel quotidiano molto meno perché preso nella vita comune che mostra angolazioni visive abituali, familiari.
Johnny è abbondante di tematiche estetiche, culturali-sociali, ma non dimentica di far divertire il pubblico con il gioco dell’enigma, delle più svariate fenomenologie dell’inconscio, del mistero, del suspense e della sorpresa, tutto ciò supportato da un elevato livello di conoscenze professionali di tutto lo staff.
La qualità della serie di Johnny si spiega indubbiamente con le capacità direttive di Roberto D’Antona, un artista di razza, tenace, e di uno staff che sembra vivere di cinema molto più per i suoi aspetti spiritualistici-artistici che per soddisfazioni salariali procurate dal libro paga della normale industria cinematografica.

Categorie: Generi thriller, Cinema in uscita

Commenti: 2, ultimo il 20/02/2015 alle 22.26.19 - Inserisci un commento

Niente può fermarci

Pubblicato il 09/08/2013 09:07:32 da BarbieXanax
Luigi Cecinelli ci propone un film per adolescenti su un
atipico gruppo di ragazzi in viaggio.
Buona visione

Categorie: Cinema approfondimenti

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