Il controverso
Salò di
Pasolini è uno di quei film davanti ai quali lo spettatore prova un sdegnoso rifiuto o una passiva accettazione, arrivando al punto - oh è capitato già - di compensare con il riso l'univoco imbarazzo e disgusto per certe scene e contenuti. Passa alla storia come il film più estremo che sia mai stato girato, anche se in realtà assistiamo a una metafora hard della nostra condizione sociale. In una vecchia edizione della mostra del Cinema, la retrospettiva dedicata al cinema di Pasolini mise in rilievo questa duplicità. Gli spettatori - davanti al Salò - ridevano di gran gusto (erano tutti sadici? Recitavano una parte?) tanto che alla fine viene da pensare che a recitare la parte di aguzzini nel film non avrebbero deluso. E' un po' come quando, durante una puntata di Quark, un esperimento come quello di un film tedesco che metteva in scena torturatori e vittime mostrò quanto ambo le parti si integravano perfettamente nei loro ruoli trasformando la loro indole in quella di spietati carnefici o remissive vittime. Il Salò è anche un film che rivela sempre nuovi particolari, particolari che ovviamente sfuggono ai molti che - come biasimarli? - promettono di non voler più vedere quel film per il resto della loro vita. E' interessante notare quanto il film faccia perno su una forma grottesca di
mise en scène - da De Sade all'Inferno Dantesco - che non disdegna toni ironici, con tratti anche esilaranti (v. la sequenza dei matrimoni combinati anche tra persone dello stesso sesso, e la stucchevole rappresentazione della/o sposa/o degna di uno spettacolo di Copi). E tutta la citazione da Commedia dell'Arte, omaggio al film
Femmes Femmes di
Paul Vecchiali (con le stesse attrici di quel film, Helene Surgere e Sonia Savange) è un siparietto che riesce miracolosamente a far ridere carnefici e vittime allo stesso tempo. In realtà accade per la seconda volta, dopo la presentazione - forse ignara forse no - delle future vittime davanti alla battuta di un laido personaggio che sembra uscìto davvero dal cinema fascista del cinema italiano di regime, un'Annibale Ninchi magari... Quanti hanno letto la rappresentazione Neutrale del Marchese de Sade? Ebbene, privato delle immagini più scellerate (una parola che nel libro ricorre spesso, scellerate, e quasi sempre in maniera "positiva") le pagine Sadiane trovano un'antidoto brusco alla parola Libertà, idealizzata come una gabbia di perversioni tra le più abbiette e ripugnanti del genere umano, facendo leva sul piacere come forma di distruzione di massa, e contestandone proprio l'implicito effetto erotico. E anche per questa ragione il testo di De Sade non potrà mai essere assunto a livello pornografico, perchè dal piacere trae la sostanza nichilista e iconoclasta del dolore assoluto, della consumazione cerebrale mentale psicologica e fisica della carne e del desiderio. A Pasolini l'aspetto sado-maso di De Sade non interessa, salvo perfezionarlo attraverso un potere temporale che come ammise egli stesso "vale per tutti i tempi". Pasolini ricorda di "odiare il potere che subisce", mettendo in scena la rivolta totale contro il consumismo, il conformismo, le imposizioni sociali. Per questo il Salò può essere nato vecchio, essendo un'operazione che stabilisce, con un nesso temporale preciso ma allo stesso modo infinito, il contesto dell'apologia fascista. Pasolini non perdona agli italiani la complicità alla Repubblica di Salò, al fascismo, denunciando l'eterna condanna a cui siamo stati predestinati fin dalla nostra nascita. E' un fascismo che non ha chiuso i battenti nel dopoguerra, ma che sotto mentite spoglie ha perpetrato altrettanti furti e ignominie trasformandosi in un rituale piccolo-borghese centrista e totalitario.
Come vedranno gli spettatori che ancora provano interesse per il Salò, le vittime - che vengono dal mondo rurale - ben prima, sembra dirci, della rivolta del mondo contadino agiografata dal Bertolucci di
Novecento - non riescono quasi mai a ribellarsi alla loro condizione, anzi sembra quasi non provino alcun interesse nel farlo. E' l'aguzzino che li sequestra la loro condanna oppure la proverbiale ignoranza di un mondo assuefatto alla propria condizione, privo pertanto di sogni ed esperienza? Tra i ragazzi prigionieri il figlio di un rivoluzionario è il primo a lasciarsi sopraffare nella sua prigionia, dimenticando i valori del padre e magari il nome del proprio padre. Ma esiste anche un'altra esperienza sottile che comunica disagio e impotenza davanti all'ideologia: uno dei soldati "fascisti" viene improvvisamente scoperto a copulare con una serva di colore (Ines Pellegrini) e prima di essere fucilato solleva fieramente il pugno chiuso in segno di sfida e di vittoria. Più complessa la sequenza, verso l'epilogo finale, del suicidio di Sonia Savange, la pianista, dove non si assiste realmente a un autentico senso di colpa per aver collaborato - anche se da tacita caratterista - a un simile disegno di morte e devastazione insieme a tutti gli altri. Come davanti a un punto interrogativo, lo spettatore ama percepire che sia così, lasciando il dubbio sulla nobile arte della musica costretta a fare i conti con l'esperienza succedanea della violenza visiva e concreta di quanto accade attorno a lei. La rappresentazione del film è molto raffinata, se si tiene conto dei costumi di Caterina Boratto o Elsa de Giorgi o Helene Surgere (le meretrici principali del film) mentre raccontano le loro scandalose esperienze. Il culmine della spettacolarità, anzi dell'anti-spettacolarità arriva proprio nel finale, davanti al quale sembra di assistere a un'omaggio al cinema espressionista muto ritualizzato con schemi prefissati del cinema nordico europeo più all'avanguardia (pensiamo a
Carl Theodore Dreyer). La
mise en scène è in b/n, rispetto ai barocchismi cromatici di gran parte delle sequenze del resto del film.
"C'era un'atmosfera particolare, sembrava di vivere nella realtà" ricorda un'attrice del film, ovviamente una delle "vittime" più memorabili. Scorrono allora i ricordi di quel forte senso di pericolo davanti a un cast di attori che visse Sodoma e Gomorra con la stessa inquietante percezione della realtà di un fatto di cronaca che poteva riguardarli più da vicino.
Quando ascoltiamo Elsa De Giorgi rievocare le pagine più oscure e raccapriccianti del libro di De Sade non possiamo fare a meno di provare una sorta di morboso interesse ma anche di sollievo davanti alle possibilità che questi aneddoti avessero una loro dimensione visiva e cinematografica. Ed è come dire che il film poteva essere molto più estremo e visivamente intollerabile di quanto non sia stato nella realtà. Ma forse è un'altra indicazione del disinteresse di Pasolini per i cosiddetti "fatti sadici", rispetto a un messaggio sociale tanto forte quanto - come vedremo in seguito - fortemente frainteso.
Il disgusto prende il sopravvento sull'immaginario, al punto che la scatologia (le feci del film erano in realtà, come ammise Paolo Bonacelli, cioccolata ricoperta di canditi) diventa letale soprattutto per l'atto simbolico tradotto come coprofiliaco.
Con Salò Pasolini mette in scena la rivolta totale di quanto aveva già abbondamente rivelato negli anni precedenti, una rivolta verso un sistema che diventa totalitario, fortemente dadaista - come indicato da qualcuno - ma definitivo. La sua brutalità è fortemente espressa fino all'eccesso, salvo preservare una sua intima, per quanto cruda, natura poetica, nell'esibizione dei nudi integrali, nell'inesperienza di ragazzi e ragazze, nella verginità di un rito consumato nella vitalità eterna e dolorosa della sopravvivenza, o della morte. In realtà in questo Inferno decorato da pitture del Rinascimento o da diafane rappresentazioni Giottesche, la prigione sociale coinvolge tutti, specialmente i carnefici, afflitti dalla condizione disperata e inesorabile della ricerca infinita di un piacere mortale, nella liberazione dalle loro infinite perversioni e crudeltà.
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