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Un bambino cade dalla finestra mentre i suoi genitori sono impegnati in un amplesso. Successivamente i due si trasferiscono in una casa nel bosco per elaborare il lutto. E là si impegnano in una schermaglia per lo smaltimento della colpa e l'assunzione di responsabilità circa l'evento.
"Tu mi volevi uccidere?"
"Non ancora."
Difficile definire un'opera tanto personale. La si potrebbe pensare come una partitura musicale, con un prologo, tre giornate e un epilogo.
Una sorta di Crepuscolo degli dei, solo che qui gli dei non ci sono sin dall'inizio.
I protagonisti, da soli in scena dall'inizio alla fine, partono già dannati. Annientati da una disattenzione provocata da un amplesso. Uno di quelli che diventa famoso solo se il film viene proiettato ai festival, dove solitamente la critica cinematografica si incrocia con oziosi commenti da pollaio.
Curiosamente questa, che vorrebbe essere la parte più rarefatta, appare invece la più pretenziosa e affettata. Fortunatamente il seguito ne risulta esaltato, non fosse altro che per l'assenza di una colonna sonora pomposa, quanto inutilmente invasiva.
Le successive giornate vedono lo sfilacciamento progressivo della mente degli sfortunati protagonisti, insieme a quello estetico dell'opera. La quale però acquisisce spessore e contenuto nella misura in cui si abbandonano i canoni estetici iniziali.
La dinamica è quella dell'espressione più cruda del dualismo.
Lei, una sensazionale Charlotte Gainsbourg intensa e viscerale come richiede la parte, si prende il peso della colpa e la responsabilità della morte. Lui, un grandissimo Willem Dafoe inquietante e misurato come mai prima, si assume il compito di evitare il deragliamento, in un'inutile quanto pretenziosa psicoterapia.
I terapeuti, si sa, non dovrebbero curare i propri affetti, e in questo caso lui affida i suoi, di affetti, alla sperduta moglie, complice e causa dell'onnipotenza di lui. Il tempo passa e la psicosi è dietro l'angolo. Non passa neanche un giorno che già gli animali parlano.
Come in un brutto cartone animato. O come nei deliri degli psicotici di ogni latitudine.
E da qui all'automutilazione, o all'espressione dell'ostilità verso il terapeuta, il passo è breve.
Il dualismo prende possesso dei corpi.
E se all'inizio avevamo corpi avvinti, e corpi distrutti dalla caduta nel vuoto esistenziale, poi avremo corpi trafitti e corpi mutilati.
Nel perfetto stile dello psicotico ancorato all'assenza di un riferimento o di un demiurgo.
"Antichrist" è l'assenza di ordine in un mondo in cui Dio non c'è. È tutto quello che resta quando andiamo a dormire e molliamo finalmente il desiderio del controllo. Anche perchè l'opposto dell'ordine è il caos, dove le donne impazziscono e non sono più mamme. Il caos è un luogo selvaggio, dove gli uomini di buona volontà vengono messi di fronte a una scelta.
Mentre tutto intorno il tentativo di mantenere il controllo fa acqua, al punto da creare sanguinamenti inaspettati, proprio là dove dovrebbe esserci il contatto, e al suo posto solo sangue e dolore, lui non perde il controllo fino alla fine, ma poi perderà la ragione, come ogni buon terapeuta che ne ha assorbite troppe.
E qua conviene fermarsi. Dal momento che tutto quello che accade, da un certo momento in poi, è territorio assoluto dell'inconscio. E l'inconscio è un luogo umido e scivoloso, dove non sempre gli uomini fanno quello che dovrebbero. E se la psicoterapia finisce male, alla fine non è certo una colpa, semmai è la sola possibilità che rimane se davvero cerchiamo le cause dell'angoscia esistenziale che affigge le persone da sempre e in ogni luogo.
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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 27/05/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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