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Jin intaglia timbri e Ran cuce abiti. Non si conoscono ma entrambi hanno una storia alle spalle di cui ancora combattono il ricordo. Una notte lui sogna di provocare un incidente e lei lo provoca davvero, pur perdendone il ricordo. Da quel momento tra i due si crea un legame difficile da comprendere, ma che avrà effetti devastanti.
Il sogno è il terreno di battaglia su cui si combatte la guerra del ricordo, nel nuovo lavoro del regista coreano più famoso al di fuori del suo paese. Il ricordo di due amori finiti, male e con dolore, fa da tessuto alla storia attuale di Ran e Jin che declinano, ciascuno a suo modo, il tema di un rapporto che non è mai stato così vivo come dal momento in cui è stato troncato.
Jin sogna di fare cose molto brutte, di cui Ran si macchia nel sonno e, da sonnambula quale effettivamente è, non ne conserva alcun ricordo.
La rabbia di lui trova sfogo negli acting out di lei, che però non riesce mai a godere appieno delle sue vendette, intanto perché non le ha neanche desiderate, e poi meno che mai agite in consapevolezza, si
è soltanto limitata a sognarle, pilotata per lo più dal dolore e dal potere di lui.
La posta in gioco si alza ogni notte, e il senso di colpa di Jin lo spinge a tentare di tenere Ran al riparo dal suo odio. La ammanetta, dorme con lei, a turno si sorvegliano, ma tutto ciò non basterà. Alla fine quello che nessuno dei due potrà prevedere sarà che il legame che li tiene insieme non è in questa dimensione, e poichè nel sogno tutto è possibile, nulla potrà esser fatto per fermare i veri desideri dei due.
La tragedia incombe, come spesso nei lavori di Kim, e il vero portato del significato di tanto affannarsi a dimenticare, sarà il dato di fatto che nei sogni siamo liberi, in questo caso anche di odiare, e pazienza se non ne siamo consapevoli, alla fine qualcuno pagherà per il nostro dolore. Un dolore provocato dall'abbandono o dalla gelosia, di cui da svegli non si chiede neanche conto a chi lo ha provocato, ma che si finirà col pagare col sangue, là dove tutto è possibile. E il linguaggio con cui Ran e Jin si parlano non è quello del dolore, ma ancora una volta quello del sogno, dove due persone che si esprimono in lingue diverse si possono intendere. Jin parla giapponese e Ran coreano, ma solo nei sogni i due avranno un unico linguaggio e condivideranno un solo intento.
Kim Ki-duk firma con questo Dream il suo lavoro più rarefatto e nel contempo il punto più alto della sua recente tendenza alla perfezione stilistica. Se in Time il tema portante era l'incomunicabilità e la perdita e in Soffio la solitudine, qui abbiamo il dolore per un'incomprensione che mina alla base ogni rapporto umano. E l'unico spiraglio, quello dato dal sogno, è inquinato dal rancore e dal passato, come splendidamente evidenziato nella scena più bergmaniana dell'intero film: quella del sogno a quattro, in cui gli attori sono rispettivamente figura e sfondo di un dramma che non ha soluzione, perché già vissuto e mai risolto, nella realtà come nel sogno.
Le due figure centrali hanno ciascuna un amore da dimenticare e un dolore da smaltire. E se da una parte l'incontro potrebbe essere un balsamo, dall'altra diviene un'arma. Ciò che uno sogna l'altro realizza, e se il rapporto è speculare, lo sarà anche l'attuazione delle dinamiche sognate. Quindi se Jin sogna di fare l'amore con la sua ex, Ran si troverà a letto con un uomo che ormai odia, e di cui cerca con forza di cancellare il ricordo. Ma il doppio, speculare e pertanto opposto, non sarà mai nè vivificato da questo agire le dinamiche inconsce, nè mai potrà guarire dal mettere in pratica ogni cosa sognata. E nel dolore di chi ricorda c'è posto solo per un linguaggio, quello delle possibilità mai espresse, perché mai rese coscienti in un universo quotidiano in cui chi abbandona non si cura di chi viene lasciato indietro.
Ran e Jin non hanno in realtà nessuno scampo da una dinamica negata e resa potente dall'espressione inconscia. E se i due perfetti protagonisti di questo dramma del sogno e della negazione assoluta della realtà hanno, anche solo per un istante, dato l'impressione che ci fosse una via di fuga, sarà solo perché l'illusione di sopravvivere ad un dolore, talvolta, supera le barriere del desiderio di soccombere ad esso. E trattandosi di un film di Kim Ki-duk lo spettatore sa già quale aspetto del dramma finirà per prevalere.
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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 16/03/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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