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La provincia americana. È questo ciò che ci vogliono raccontare i fratelli Joel e Ethan Coen in "Fargo". La famosa e malsana provincia americana, lontana dalle grandi, celebrate e multietniche metropoli che vediamo tutti i giorni in televisione.
Nella tranquilla, sconosciuta e innevata cittadina del North Dakota che dà il nome alla pellicola, invece, si consumano crimini efferati e si tramano piani diabolici. Il film, ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto, narra del rapimento di una donna architettato dal marito per poter chiedere un lauto riscatto al ricco suocero. Rapimento che però non andrà per il verso giusto.
La trama è abbastanza semplice ma la storia serve solo come sfondo e come pretesto alla rappresentazione del male, incarnato in questo caso dall'attore William H. Macy che interpreta Jerry, protagonista e mente del piano. Un male che si presenta sotto le spoglie dell'uomo della porta accanto, in apparenza marito perfetto e padre ideale , dalla faccia per bene e dall'onesta rispettabilità, in realtà mosso solamente dalle sete di dollari che lo porta ad architettare trame che avranno conseguenze tragiche.
Ma l'ambiguità di questo piano non sfuggirà alle ligie forze dell'ordine incarnate qui dalla poliziotta incinta Marge, interpretata dall'attrice Frances McDormand.
"Fargo" ha uno stile distante, con la macchina da presa che narra la storia come potrebbe farlo un osservatore, volutamente freddo come il freddo Minnesota in cui si svolge l'azione. Ed è proprio il paesaggio il protagonista della storia, un paesaggio drammatico e oppressivo, com'è la vita in quelle lande, con tutti gli effetti che la luce e quel tipo di paesaggio producono sulla psicologia della persona.
Il film, per rendere bene questa sensazione opprimente di desolazione, fu girato tutto in giornate grigie in cui non doveva essere percepibile la differenza tra la terra coperta di neve e il cielo. Il direttore della fotografia Roger Deakins - che vinse l'Oscar per quest'opera - ci testimonia che i Coen avevano in mente un tono molto realistico e antispettacolare e volevano dare a Fargo la luce tipica dei documentari, per fare ciò si fece ricorso, come dimostra la prima ripresa, a lunghe carrellate con il dolly a quindici o venti metri da terra e a lenti lunghe.
Persino le scene notturne furono filmate senza l'illuminazione di luci artificiali, mentre il resto fu girato il più possibile in interni reali con la luce naturale che filtrava attraverso le finestre, senza ricostruzioni.
In questo velo bianco, che avvolge il tutto in un falso candore e in una falsa pace apparente, si disegnano immagini memorabili, quali la ripresa alta, da sopra le teste, di Jerry Lundegaard, il marito che ha fatto rapire la moglie, che cammina a capo chino verso la propria vettura nel parcheggio innevato. Le inquadrature sono spoglie e quasi sempre vuote, oppure occupate da uno o al massimo due personaggi e lo sguardo della macchina da presa è fisso e gelato come i protagonisti della pellicola.
Il tutto si svolge sotto l'occhio della macchina da presa dei fratelli Coen, come di consueto formalmente perfetto, che disegnano immagini e inquadrature memorabili con una particolarità, però, che non si può non sottolineare.
I due cineasti di Minneapolis hanno volutamente dato a tutta la pellicola uno sguardo quasi distaccato, in modo da riprodurre l'orrore che si può celare sotto una spessa coltre di neve di una tranquilla e anonima provincia americana. Un orrore che i Coen scelgono di riprodurre in maniera fredda e neutra, non lasciandosi andare a scontati giudizi morali ma condendo il film con il loro proverbiale humour nero e cinismo. Forse a sottolineare e a farci riflettere sulla banalità e quotidianità del male, un male che spesso si cela sotto la bianca, candida e soffice neve, metafora dell'apparente calma perbenista.
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Recensione a cura di Lakshman - aggiornata al 10/11/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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